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Evoluzionismo e trasformismo darwiniano

di Francesco Moricca - 18/04/2010

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L’evoluzionismo darwiniano, che ebbe i suoi precursori nel Settecento illuminista (Maupertuis, Buffon, Marchant, Duchesne, Lamarck), è un’ipotesi sull’origine delle specie e soprattutto della specie umana suffragata da molte prove sperimentali le quali, tuttavia, non conducono ad una verifica della teoria certa e definitiva. Lo sostiene uno specialista della materia, Emilio Guyénot, nella sua “Origine delle specie”. Il trasformismo, l’altro nome, più corretto, con cui è conosciuto in ambito scientifico l’evoluzionismo, ebbe il suo battesimo ufficiale il 21 Floreale 1800 nel “Discorso d’apertura” pronunciato da Lamarck al Museo di Storia Naturale di Parigi. Fu presentato dagli illuministi come un dogma da contrapporre al dogma della immutabilità delle specie di Linneo sostenuto dalla Chiesa.
Ciò spiega perché ad oggi l’evoluzionismo è stato abbracciato da tutti i nemici dell’ “oscurantismo cristiano”, da quelli della sinistra liberal-marxista a quelli di una certa destra che fa sue concezioni nettamente biologistiche (darwinismo sociale).
In materia di evoluzionismo, come in tutte le dispute che concernono i “massimi sistemi”, non esiste la “verità”: dogma si contrappone a dogma, ed è un dogma a vincere, per una forza che trascende la sfera meramente materiale persino nell’ottica delle filosofie materialistiche, che presuppongono ‘un atto di fede’ nella materia.
Date queste premesse, la teoria di Darwin, indipendentemente dal suo valore di ipotesi scientifica più o meno attendibile, e però eretta a dogma, va valutata in relazione alla qualità umana dell’autore.
Darwin amò presentarsi come ricercatore e scienziato soltanto e rifiutò in pubblico di pronunciarsi sulle implicazioni generali delle sue scoperte, non prese posizione come avevano fatto i suoi predecessori settecenteschi, cui egli peraltro non riserva alcun riconoscimento come se del trasformismo fosse stato il primo ed unico inventore. E’ pertanto da ritenersi il padre della concezione “neutrale” della scienza che si diffonderà dal Novecento ai giorni nostri e funzionerà da alibi etico dei manipolatori della natura a esclusivo vantaggio di chi detiene il potere.
Tuttavia Darwin le sue concezioni filosofiche le possedeva e ne parlava in privato con gli amici, riconducendole all’ “agnosticismo” nell’ultimo periodo della sua esistenza, come è detto nella “Vita e corrispondenza” uscita postuma. Qui egli si domanda se le convinzioni dell’uomo, “che si è sviluppato dallo spirito degli animali inferiori”, abbiano qualche valore. La risposta è che sarebbe come “fare affidamento sulle convinzioni dello spirito di una scimmia, se esistono convinzioni in uno spirito simile”. Confessa che il suo pensiero è stato sempre soggetto a “fluttuazioni”, sebbene non sia mai giunto a “negare l’esistenza di Dio”, vale a dire di un ordine stabile e inviolabile nella natura che esprimerebbe il suo finalismo nell’insorgere della razza umana.
Perché simile incongruenza? Perché da scienziato non aveva elementi per negarne la possibilità? O perché il vecchio Darwin aveva bisogno di superare l’angoscia della morte come tutti gli “animali evoluti”?
Riguardo all’insorgere del sentimento di pietà nella bolgia della lotta per la sopravvivenza, “La discendenza dell’uomo” ci offre una descrizione strana quanto sintomatica: si sarebbe verificato quando “un vecchio babbuino sceso dal monte strappò trionfante il suo giovane compagno a una muta attonita di cani”, pare dimenticando per un attimo di favorire in tal modo il futuro concorrente nel branco. E’ nient’altro che questo il fondamento ancestrale dell’etica: una pietà autolesionistica. Con molta benevolenza si potrebbe anche concordare.
Non lo si può più quando di seguito Darwin afferma di “esser fiero” di discendere dal suddetto babbuino e anche dal “selvaggio che si compiace di torturare i suoi nemici, offre sacrifici di sangue, pratica l’infanticidio senza rimorsi, tratta le sue mogli come schiave, non conosce cosa sia la decenza ed è dominato da grossolane superstizioni”.
Come somiglia questo selvaggio al selvaggio civilizzato dell’Inghilterra vittoriana, imperialista e puritana, e al selvaggio dell’odierno “villaggio globale”!
Entriamo ora nel merito dei concetti fondamentali del trasformismo proponendo ipotesi alternative. Se è vero che la struttura interna ed esterna del corpo umano presenta identità ovvero analogie con quella degli animali superiori, non è affatto certo che la specie umana derivi “per evoluzione” dagli animali e in particolare dalle scimmie: il concetto di evoluzione è diventato problematico a partire dagli studi di Morgan (1910) sulle “mutazioni” della Drosophila Melanogaster, con la conseguenza, afferma il Guyenot, che ad oggi “le grandi tappe dell’Evoluzione sfuggono completamente alla nostra indagine” . In un intervento su “Storia illustrata” (n.361, 1987), Giuseppe Sermonti, Ordinario di Genetica nell’Università Statale di Perugia, scrive: “Il problema dell’origine biologica dell’uomo non è (ancora) risolto…La scienza moderna ci ha comunque tolto di dosso l’ascendenza bestiale e scimmiesca che Darwin ci ha attribuito, ha posto gli scimmioni come un tardo ramo laterale della linea ominide e ha collocato l’uomo in una situazione primaria, archetipica. La profonda revisione delle nostre origini conduce a una revisione della nostra posizione nel cosmo”.
Su questa linea di pensiero si potrebbe anche sostenere che le varie fasi di transizione all’Homo Sapiens Sapiens a cominciare dall’Erectus, potrebbero essere delle scimmie estinte, animali semplicemente estinti come il Mammuth. Quanto al Sapiens Sapiens, perché non potrebbe trattarsi di una specie a sé stante, magari preesistente all’ Erectus sebbene suoi resti non se ne siano ancora trovati? Non potrebbero un giorno trovarsene sotto i ghiacci delle terre attorno al polo Nord, come lasciano supporre le tesi scientificamente suffragate dello studioso indiano Tylac nel suo libro su “La dimora artica nei Veda”?
Esistono comportamenti simili fra gli uomini e gli animali? Senza dubbio. Tuttavia non può dirsi “uguali”, e la competizione fra gli uomini presenta caratteri non solo più complessi ma qualitativamente diversi in confronto agli animali. Circa i costumi delle popolazioni “primitive” ancora esistenti sulla Terra dallo studio dei quali l’antropologia ha delineato il quadro dell’esistenza presso gli uomini preistorici, potrebbe opporsi – almeno in parte: siamo nel campo delle astrazioni - la teoria evoliana, secondo cui i cosiddetti primitivi non sarebbero che i residui degradati di popolazioni un tempo civilissime. Il che farebbe crollare tutto l’edificio che sulle lontane origine dell’umanità ha costruito, a partire dai padri settecenteschi, la scienza ufficiale.
Potrebbe allora essere verosimile che la specie umana sia effettivamente “archetipica” e anzi “provenga dall’alto”: si veda ad esempio il mito biblico dell’unione feconda degli “angeli” con donne di grande bellezza che attinge a fonti medio-orientali anteriori alla stesura della bibbia.
Ma, riferendosi a un epoca assai più tarda di quella a cui risalgono i miti raccolti nella Genesi, si potrebbero anche menzionare le teorie del filosofo greco Evemero (IV-III sec. a.C.).
Evemero era un razionalista in senso moderno e per lui gli dei del politeismo non erano che uomini superiori che avrebbero impresso il carattere all’umanità dei primordi, diventando oggetto di venerazione e come tali continuando ad esercitare la loro benefica funzione a distanza di secoli. Fatto degno di rilievo, Evemero concepiva l’ordinamento della comunità secondo il modello socialista dei regni ellenistici, a sua volta ispirato al modello dell’Egitto dei Faraoni che verrà ripreso dal cesaropapismo dell’Impero Romano dopo il principato di Augusto.
E per finire un’altra citazione dal testo di Giuseppe Sermonti: “Non dobbiamo più rappresentarci come esseri che devono fuggire la loro natura, esseri in fuga verso l’alienazione, condannati a trasformarci o a soccombere, bensì come esseri che possono rivolgere alla propria natura e alla propria ascendenza uno sguardo sereno e cercarvi il loro modello, la loro fanciullezza, una primordiale grandezza. Tutto ciò che è grande nasce grande, e ciò vale anche per la specie umana”.