Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / James Hillman: negli archetipi c'è il futuro

James Hillman: negli archetipi c'è il futuro

di Mario Bernardi Guardi - 19/04/2010

 

http://www.archetipi.org/files/umberto/uroboros.jpg
Ci sono cose di cui non si dovrebbe parlare se non per deprecarle e condannarle: e il suicidio è il massimo dei tabù. Eppure Roberta Tatafiore, esponente di un femminismo intelligentemente militante, dunque, aperto e lungimirante, e, di sicuro, innamorata della vita e della vitalità, l'anno scorso scelse di darsi la morte. E bene ha fatto il nostro Secolo, di cui Roberta - approdata alla destra libertaria dopo un lungo viaggio attraverso la sinistra - era collaboratrice. Bene ha fatto a ricordarne la coraggiosa impertinenza intellettuale, senza alzare su di lei il ditino giudicante per l'estremo gesto del congedo (si veda, a conferma di questo rispetto, quanto l'articolo di Daniele Priori "Quelle fate ignoranti eravamo noi").

Del resto - al di là delle facili sentenze sommarie, emesse dopo aver chiamato in causa religione, morale e società, concordi nel loro verdetto di riprovazione - i "perché" cruciali di ogni suicidio restano per sempre irrisolti. Non basta davvero tirar fuori la pazzia o discettare di altre patologie: imboccata questa strada, infatti, non se ne esce più. Pensiamo a tre suicidi illustri, i cui tragici anniversari ricorrono quest'anno: Cesare Pavese (26 agosto 1950), Carlo Michelstaedter (17 ottobre 1910), Yukio Mishima (25 novembre 1970): in che senso erano pazzi? E in che senso lo erano Benjamin, Hemingway, Majalovskij, Koestler, Morselli, Drieu, Zweig, Van Gogh, Jack London, Sylvia Plath, o ancora Luigi Tenco, Dalida, Kurt Cobain, Mia Martini che così vollero "uscire dal mondo"? Ecco che, allora, il suicidio merita una diversa attenzione. È quella che gli riserva lo psicanalista junghiano James Hillman nel saggio Il suicidio e l'anima, pubblicato per la prima volta nel 1964 e ora riproposto da Adelphi (pp. 310, € 15,00), con una prefazione di Thomas Szaz, contenente un interessante excursus storico sul suicidio, e un "postscriptum" in cui Hillman meglio precisa il suo percorso. Certo, se scottante è la materia, Hillman non ha davvero timore di bruciarsi. E il risvolto editoriale, cogliendo in sintesi viaggio e approdo, ne offre immediata verifica: «Il suicidio è una delle possibilità umane. La morte può essere una scelta. Il significato di tale scelta è diverso secondo le circostanze e gli individui. Il problema analitico inizia qui, dove terminano i resoconti e le classificazioni. All'analisi interessa il significato individuale di un suicidio, che non è dato nelle classificazioni. Questo approccio è psicologico. Vale a dire, assume l'anima come sua premessa prima o metafora radicale». Ma cos'è l'anima? È un substrato mitico non solo individuale ma comunitario. Dire "anima" significa dire che «ogni nostro percorso di comprensione ha alla base una terapia con gli dei». Anatema contro il "pagano" James Hillman e la sua medicina stravagante? Be', a scandalizzare il nostro c'è abituato. E non solo parlando di suicidio. Proviamo per un attimo a inoltrarci in un'altra zona, ad alto tasso di rischio per ogni pruderie intellettuale vocata alla "correttezza", qualunque ne sia il marchio. Inoltriamoci, dunque, in "zona di guerra" e leggiamo: «C'è una battuta in una scena del film Patton, generale d'acciaio, che da sola riassume ciò che questo libro si propone di capire. Il generale Patton ispeziona il campo dopo una battaglia. Terra sconvolta, carri armati distrutti dal fuoco, cadaveri. Il generale solleva tra le braccia un ufficiale morente, lo bacia, e, volgendo lo sguardo su quella devastazione, esclama: "Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti. Lo amo più della mia vita". Se non entriamo in questo amore per la guerra, non riusciremo mai a prevenirla né a parlare in modo sensato di pace e disarmo».

Scandaloso Hillman? Certo, la sua psicologia cognitiva affonda nel mito e sul mito si fonda. Esplorando le figure archetipiche degli dèi della Grecia. Ricordandoti che il conflitto è dimensione primigenia della "storia dell'anima" e che irrompe sulla scena dalle profondità più oscure, spezzando ogni legame, tanto è vero che Zeus uccide il padre Crono.

Scandaloso Hillman perché parla di queste cose senza sentirsi gravato dal peso dello scandalo? Non è un caso, nota Hillman, che la letteratura occidentale nasca con un poema dove Efesto fabbrica armi, dove Ares guida le truppe in campo aperto, dove Apollo lungisaettante porta la guerra nelle città, dove Atena è signora delle strategie. «Il guerreggiare è padre di ogni cosa», diceva Eraclito. Eppure, spiega Hillman, nonostante la guerra sia con ogni evidenza l'elemento primario di ogni filosofia dialettica, i maggiori filosofi non hanno sondato abbastanza questo "universale fantastico" dell'uomo: il "terribile amore per la guerra" che dà il titolo al libro ("Hillman spiega perché la guerra è un orrore ma anche un amore", Il Foglio, 15 marzo 2005). Noi e la guerra. Gli dei in guerra come noi, insieme a noi, contro di noi. Calligrafismi letterari? Bizzarrie? Suggestioni/fascinazioni pericolose che spiazzano e strapazzano ogni "pensiero forte", o sedicente tale, costringendolo ad affrontare le mille pulsioni che abitano in noi e obbligandoci a chiedere da dove vengono, dove vanno e come possiamo controllarle? Noi non crediamo ai manifesti, e del resto Hillman non ne propone. Né crediamo che le sue argomentazioni siano oro colato. Eppure, il suo "andare in guerra" è un appello a conoscere - e a conoscersi - in profondità. Non sappiamo se in termini pratici serva. Serve, comunque, la buona causa della verità, della sua cerca, se vogliamo, della sua approssimata visione. Tornando al suicidio non solo come «una via d'uscita dalla vita, ma anche una via d'ingresso nella morte» e pur senza affrontare gli impervi camminamenti dello studioso per stabilire se esso, oltre che con l'Io, abbia a che fare anche il Sé e con le idee archetipiche («non dimentichiamo che quella dell'individualità è un'idea archetipica sostenuta da un mito»), troviamo suggestiva - dunque capace di suggerire, di evocare, di proporre modelli simbolici - l'immagine di un'anima mundi come corte comunitaria che non ha «la facoltà di autorizzare o proibire, e nemmeno di facilitare o dissuadere», ma ha un compito rituale, «consistente cioè nel rappresentare dinnanzi al pubblico l'idea del suicidio, nel formalizzarne il significato, nell'onorarla come valore, nel farne sentire la potenza, in modo che la morte non sia privatizzata» (Il suicidio e l'anima).

Lo scandalo nelle anime belle e un po' meschinelle cresce: il suicidio può avere valenza pubblica, addirittura esemplare? Orribile a dirsi... Anatema sit! Sì, ma a questo punto l'anatema dovrebbe colpire non soltanto Hillman e magari tutti i «desolanti prodotti della funerea casa editrice Adelphi» (l'ipse dixit appartiene al roboante inquisitore conservatore Piero Vassallo - in Cattocomunismo e cattoadelphismo: la padella del conformismo e la brace della stupidità - che da anni fa a pezzi tutte le destre libertarie e eretiche possibili e immaginabili, salvando solo la sua vecchia destra), non soltanto lo stoico Seneca che si dette la morte da magnanimo per non legittimare gli arbitrii del potere, ma Dante che pone a guardia del Purgatorio il pagano e suicida Catone, addirittura considerato, nel suo sacrificio, figura - e cioè "prefigurazione" - di Cristo. Eppure Dante, in perfetta rispondenza alla dottrina cristiana, nell'Inferno aveva condannato duramente i suicidi, trasformati in piante dal colore oscuro, i cui rami, spezzati dalle Arpie, versano sangue e le cui foglie danno alimento ai mostruosi uccelli che «ali hanno late e colli e visi umani». Ma il suicidio può anche essere esempio di fortezza morale e di disprezzo della morte e dunque avvenire per divina ispirazione, come attestano Sant'Agostino (De Civitate Dei, I 17, 20 e 26) e San Tommaso (Summa Theologiae). Un "mistero sacro"? In ogni caso, per dirla con un libertario onesto e inquieto come l'Albert Camus de Il mito di Sisifo, «un problema filosofico veramente serio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta è rispondere al quesito fondamentale della filosofia. Il resto viene dopo. Questi sono giochi: prima bisogna rispondere».