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Che cosa indicava quella statua equestre posta in un’isola oceanica disabitata?

di Francesco Lamendola - 20/04/2010

 


Ufficialmente l’arcipelago delle Azzorre, posto nel medio Atlantico sulla rotta fra l’America e l’Europa (e geograficamente ancora appartenente a quest’ultima), é stato scoperto nel 1427 da uno degli ammiragli al servizio di Enrico il Navigatore, probabilmente Gonzalo Velho; mentre la sovranità portoghese venne resa ufficiale cinque anni dopo, ossia nel 1432.
In realtà, una carta medicea del 1351 documenta l’esistenza di un arcipelago formato da sette isole a occidente della Penisola Iberica; e, come se ciò non bastasse, una carta catalana della fine del XIV secolo mostra  chiaramente tre isole situate in quella stessa posizione, chiamate rispettivamente Corvo, Flores e Sao Jorge.
E già qui c’è un bel mistero, per gli appassionati del genere.
Un secondo mistero è rappresentato dal fatto che, quando vi giunsero le caravelle portoghesi, l’arcipelago era disabitato; eppure vi furono trovate tracce di una presenza umana molto antica, che indussero taluni studiosi a identificarlo con  le Isole Fortunate dell’antichità classica, poste molto oltre le Colonne d’Ercole, delle quali parlano autori come Omero, Plutarco (che le colloca a 1.00 stadi dall’Africa), Diodoro Siculo e Plinio il Vecchio.
Sembra che nel 1749 i marinai di una nave inglese abbiano trovato, sull’isola di Corvo, la più nord-occidentale del gruppo, monete d’oro, d’argento, di rame e di bronzo delle città di Tiro e Sidone, risalenti al IV secolo avanti Cristo; il che significa che i Cartaginesi dovevano aver stabilito un insediamento permanente sull’isola. E, se così è stato, senza dubbio vi avevano importato anche i loro riti religiosi.
Ed eccoci arrivati al terzo e più intrigante mistero: la statua equestre rinvenuta dai Portoghesi, sempre sull’isola di Corvo, che alcuni dicono essere stata costruita in bronzo, altri nella pietra, raffigurante un misterioso personaggio con il braccio levato; e una iscrizione, altrettanto incomprensibile, incisa sul basamento della stessa, in una lingua che nessuno fu in grado di leggere e comprendere.
Chi rappresentava quel personaggio? Forse il dio fenicio Baal, come hanno supposto alcuni moderni ricercatori (Galileo Ferraresi e Claudio Piani)? Ma Baal, nelle raffigurazioni rinvenute in Libano e nelle antiche colonie dei Fenici, tra le quali Cartagine, non viene mai raffigurato a cavallo. E chi era, allora, se non lui, quel misterioso personaggio a cavallo, che tanto stupore suscitò nei primi marinai Europei?
Il fatto stesso che si trattasse di una statua equestre rappresenta un mistero nel mistero. Secondo gli studiosi di genetica, il cavallo, in Europa, fu addomesticato più di 28.000 anni fa; poi, circa 12.000 anni fa, la selezione delle razze equine s’interruppe bruscamente. Solo quattromila anni prima di Cristo, in Eurasia, si ricominciò ad allevare il cavallo (cfr. Sebastiano Fusco, «L’origine del cavallo, Atlantide e la Grande Catastrofe», su «Archeologia proibita», Roma,  n. 10, gennaio-febbraio 2004, pp.50-52).
Che cosa significa tutto questo? Chi insegnò ai nostri progenitori un’arte che essi avevano da grandissimo tempo dimenticata? È possibile che il cavallo della statua di Corvo avesse qualcosa a che fare con tale mistero; che fosse una sorta di offerta votiva nei confronti di quei lontani, sconosciuti benefattori?
Scrive Charles Berlitz nel suo libro «Il mistero dell’Atlantide» (titolo originale: «The Mystery of Atlantis», 1969; traduzione italiana di Luisa Theodoli, Milano, Sperling & Kupfer Editori, 1976, p.162):

«È probabile che cartaginesi o fenici abbiano visitato le isole, in quanto a Corvo , la più occidentale delle Azzorre, si sono ritrovate monete cartaginesi. I primi esploratori avevano rinvenuto a Corvo la statua in pietra di un uomo a cavallo, con una iscrizione indecifrabile scolpita sulla base. Purtroppo però il re del Portogallo, nel XVI secolo, ordinò di rimuoverla, e gli operai la ruppero, sottraendola alle indagini dei futuri studiosi. La statua e la sua preziosa iscrizione sono così scomparse. Ma un indizio affascinante è giunto ugualmente fino a noi, come narra A. Braghine, ricercatore moderno, nel suo libro The Shadow of Atlantis” (“L’ombra dell’Atlantide”).  Quando gli esploratori portoghesi in cerca di nuove terre giunsero per la prima volta alle Azzorre e videro la statua, notarono che il braccio levato del cavaliere  indicava l’ovest, la direzione del Nuovo Mondo.  E pare che gli abitanti di Corvo chiamassero quella statua “Catés”, parola inesistente in portoghese o spagnolo,  ma che, per una strana coincidenza linguistica, assomiglia alla parola  che nel dialetto quechua dell’antico impero inca vuol dire “da quella parte” o “va di lì”: “cati”.»

Dunque: ecco qui una bella storia di mistero, una di quelle storie che fanno impazzire gli appassionati di tutto ciò che è remoto, indefinito, enigmatico.
Un’isola disabitata, ma benedetta dal clima subtropicale, ricca di vegetazione, di montagne verdi innaffiate dalle piogge, persa in mezzo all’Oceano Atlantico: già lo scenario è suggestivo, fa venire in mente l’isola di Prospero ne «La tempesta» di Shakespeare (che però, quasi certamente, aveva in mente le Bermuda).
Sembra di vederlo, lo stupore, sui visi di quei primi marinai portoghesi i quali, sbarcati sull’isola, la trovano ospitale e imbandita con tutte le delizie del clima e del suolo, rigogliosa, esuberante; e tuttavia, stranamente, inspiegabilmente vuota di esseri umani. Vuota, ma come in attesa; vuota, ma come se gli abitanti se ne fossero andati per qualche inspiegabile ragione.
E poi, eccoli lì davanti alla statua, alla statua col braccio proteso verso Occidente, come ad indicare sconosciute lontananze; a tentare vanamente di leggere gli incomprensibili caratteri scolpiti sul basamento di pietra, in chissà quale lingua morta e dimenticata; a interrogarsi reciprocamente con lo sguardo, muti, assorti, forse come appaiono i pastori del famoso quadro di Nicolas Poussin «Et in Arcadia Ego».
Il gesto di indicare qualcosa - qualcosa o qualcuno - è un gesto ordinario e abituale, quasi banale allorché si vede la cosa mostrata; ma, se questo non avviene, allora quel gesto si carica di valenze misteriose e insondabili e suscita fantasie, presentimenti, inquietudini, un po’ come una luce accesa nell’ultima finestrella di una grande casa addormentata nella notte.
Ne sanno qualcosa gli ammiratori di Leonardo, i quali, davanti al suo stupendo «San Giovani Battista», da sempre si domandano che cosa vorrà mai indicare il Santo con il dito indice della mano destra, proteso verso l’alto; per non parlare di quel suo sorriso indefinibile, allusivo, dolcissimo, parente prossimo di quella della Gioconda.
Nel caso della statua dell’isola di Corvo, la figura a cavallo pareva indicare in direzione del mare, verso il tramonto del sole: vale a dire in direzione dell’America; che, però, all’epoca della scoperta delle Azzorre, era ancora “ufficialmente” sconosciuta agli Europei. Anche se, noi lo sappiamo bene, così non era in realtà: perché, anche lasciando perdere i Vichinghi (e il fatto  che, fino al XIV secolo, la Groenlandia era perfino una sede vescovile danese),  è probabile che fin dal 1399 i fratelli veneziani Zeno, accompagnati dal principe delle Shetland e delle Orkneys, Henry Sinclair, abbiano raggiunto le coste nordamericane.
Del resto, nella cappella del castello scozzese di Rosslyn, residenza dei Sinclair, costruita prima del viaggio di Cristoforo Colombo (per l’esattezza, a partire dal 1440), sono scolpite alcune pannocchie di mais: una pianta americana che gli Europei, evidentemente, non avrebbero potuto conoscere e rappresentare, se non per averne visto i frutti con i loro occhi.
Oppure la statua equestre di Corvo indicava non già la lontana America, bensì una terra che era esistita un tempo, ma che, nel XV secolo dopo Cristo, più non esisteva, essendo sprofondata negli abissi dell’oceano? In questo caso, il mistero si sposterebbe dalle lontananze dello spazio a quelle di un tempo remoto: e la statua, nel 1400, non avrebbe più indicato il presente, ma il passato: idea, questa, veramente strana e affascinante.  
Avrebbe potuto trattarsi di un continente scomparso; avrebbe potuto trattarsi dell’Atlantide di Platone, di cui le Azzorre sono considerate, da alcuni studiosi, come le ultime vestigia, insieme alle Canarie e all’isola di Madeira? Platone, però, colloca la distruzione di Atlantide in un anno corrispondente al 9.560 avanti Cristo; per cui, all’epoca dei Fenici, essa era già scomparsa da millenni; e, inoltre, il filosofo greco dice chiaramente che essa era situata nel mezzo dell’Oceano, e che, dall’altra parte di esso (vale a dire in direzione Ovest), esisteva un altro, ancor più vasto continente, circondato a sua volta dal “vero” oceano.
Atlantide! Basta pronunciare questo nome per sentirsi letteralmente invadere dalla potente suggestione del mito, anzi del Mito con la “m” maiuscola, il mito per eccellenza. Generazioni su generazioni di uomini si sono interrogate su di esso e si sono domandate, quasi spasmodicamente, se il filosofo greco, nel «Timeo» e nel «Crizia», dietro la finzione letteraria del dialogo fra Solone e il sacerdoti egiziani di Sais, si sia abbandonato alla creazione di una semplice favola o se, viceversa, abbia descritto un avvenimento da lui realmente ritenuto storico.
Se Corvo era, o piuttosto era stata,  un avamposto di Atlantide, allora quella statua voleva forse tramandare un ricordo o, anche, levare un monito.
Noi sappiamo che i sacerdoti di Baalbek solevano celebrare uno strano rito religioso, avente lo scopo di ricordare il Diluvio Universale .
Ecco come lo descrive Andrew Thomas nel suo libro «I segreti dell’Atlantide» (titolo originale: «The treasure of the Sphinx», 1969; traduzione italiana di Caterina Longanesi, Milano, Mondadori, 1969, p. 28):

«I sacerdoti di Baalbek (oggi in territorio libanese) avevano la strana abitudine di versare del’acqua in mare, attinta nel Mediterraneo, nel crepaccio di una roccia  vicina al empio, onde tener vivo il ricordo delle acque del diluvio che vi erano state inghiottite; contemporaneamente questa cerimonia serviva a commemorare il salvataggio di Deucalione. Per procurarsi quell’acqua i sacerdoti dovevano fare un viaggio di quattro giorni fino alle rive del Mediterraneo, e altri quattro giorni ci volevano per tornare sino a Baalbek.»

Il collegamento tra la fine di Atlantide e la vicenda del Diluvio Universale, presente nella memoria di moltissime civiltà antiche, è, naturalmente, ipotetico; ma che cosa vi è di sicuro e accertato, in tutto questo mistero?
Un’altra ipotesi è che, ponendo gli antichi il soggiorno dei morti in qualche lontana isola al di là delle Colone d’Ercole, quella statua e quel gesto indicassero non solo e non tanto una direzione geografica, bensì una direzione metafisica. Quando parlavano dell’Isola dei Beati, infatti, gli antichi la ponevano ad Ovest del Mediterraneo, nell’Oceano, per il semplice fatto che quella era la direzione del sole al tramonto: si trattava, quindi, di un simbolo.
Il regno dei morti non è un luogo materiale, ma un luogo dell’altra dimensione, un radicale “altrove”. L’uomo (o, piuttosto,  il dio?) a cavallo del’isola di Corvo voleva forse alludere all’al di là, alla dimensione della vita dopo la morte?
Il fatto che il re del Portogallo volle far rimuovere la statua non si spiegherebbe se non con il fatto che i Lusitani avessero compreso trattarsi di un simbolo religioso del paganesimo, e, perciò, ai loro occhi, “diabolico” e meritevole di essere allontanato, se non addirittura distrutto. Difficile pensare che si sia trattato di un gesto “politico”, volto a eliminare qualsiasi rivendicazione da parte di altri Stati, dato che si trattava chiaramente di una statua antica e che l’arcipelago, all’arrivo degli Europei, era disabitato.
Insomma, potrebbe essere stata una decisione ispirata dal fanatismo religioso, come quella che, nella seconda metà del XVI secolo spinse il vescovo dello Yucatan, Diego de Landa, a far ricercare e distruggere tutti i simboli religiosi dei Maya, ivi comprese opere in terracotta, piccole pietre lavorate, pietre d’altare e, soprattutto, tonnellate di codici con geroglifici. De Landa aveva detto testualmente: «Troviamo tutti i libri scritti nella loro religione e, dato che in essi non v’è cosa che non sia corrotta da superstizione e falsità diabolica, bruciamoli indistintamente!»; e, anche se poi era sembrato pentirsi e si era messo a studiare il poco che rimaneva di quei manoscritti, ormai un danno irreparabile era stato compiuto.
Probabilmente non sapremo mai chi fosse il personaggio raffigurato nella statua equestre di Corvo; non sapremo mai che cosa indicasse con il braccio levato; non sapremo mai perché i Fenici, i Cartaginesi o altri si siano dati la pena di erigerla su un’isola in cui non avevano costruito alcun tempio e alcuna città, per poi ripartirsene all’improvviso, così com’erano venuti. Né sapremo se aveva qualcosa a che vedere con la mitica civiltà di Atlantide.
E allora? Non tutti i problemi, diceva Gabriel Marcel, si possono ridurre a dei semplici problemi… non tutto si può spiegare, catalogare, archiviare.
Vi sono delle domande che restano aperte, che lo resteranno per sempre.
Ed è giusto che sia così: perché si tratta di domande che potrebbero trovar una risposta solamente nel più profondo di noi stessi…