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Disarmo guerrafondaio. O della pax americana

di Fabrizio Fiorini - 20/04/2010


Chi ha paura della bomba atomica? La canzone d’autore degli anni Sessanta del secolo scorso, nell’ambito di un rinnovato slancio maudit che ha come da copione accompagnato la crescita economica del tardo dopoguerra, proponeva modelli nichilistico-pacifisti secondo i quali solo chi nulla avesse da perdere avrebbe potuto amare la bomba, solo chi non avesse “più nessun amore” o una “casa da difendere”.

Ma la politica internazionale è altra cosa. E in seno a questa è bene avere ben chiara la distinzione tra la realtà (spesso sfuggente, per numerosi motivi: dalla censura alla propaganda, dalla fumosità della diplomazia alla oggettiva complessità delle relazioni internazionali) e le apparenze. Parlando di queste ultime, non si può non ravvisare la loro funzionalità al camuffamento dei giochi di potere dietro una enigmatica maschera di moralità, di ostentata e mendace ricerca della pace e di spesso vaghi e monodirezionali concetti di umanitarismo.

La parola chiave che ha contraddistinto il lato esteriore dei processi politici degli ultimi decenni relativamente alla gestione dei rapporti tra le Nazioni della Terra è stata disarmo. Dietro tale concetto si è spesso annidata la più perniciosa e fallace retorica pacifista, dagli alati appelli pertiniani affinché fossero svuotati gli arsenali e colmati i granai giù giù fino a “mettete dei fiori nei vostri cannoni”. L’assolutistica affermazione di tale principio ha avuto delle nefaste conseguenze: a) l’impoverimento culturale dei movimenti di opposizione alla violenza dell’imperialismo, che si trovavano a ravvisare il male nel solo possesso delle armi, e non nella natura e nelle intenzioni di coloro che di queste erano detentori; b) la perdita del cognizione di uso legittimo della forza, primario spartiacque tra lo Stato e la barbarie; c) la possibilità, per i governanti delle potenze imperialiste e guerrafondaie, di fare proprio tale teorema nelle affermazioni di principio, celando – attraverso una combinata azione di occultamento e propaganda – le reali intenzioni volte alla conservazione dello status quo; d) ha agevolato, quindi, le manovre di mistificazione e di messa al bando dalla comunità internazionale nei confronti delle Nazioni libere che erano riuscite a tutelare la propria sovranità anche attraverso una consolidata potenza militare.

Nei giorni scorsi la grande informazione – compressa nel suo allineamento e nella sua mediocrità – ha gioito per le conquiste e per i progressi compiuti dall’umanità tutta dopo la ratifica di un trattato internazionale che impone una riduzione del numero delle armi atomiche concordata tra la Federazione Russa e gli Stati Uniti d’America. Il mondo è diventato quindi un posto notevolmente migliore in cui vivere? Non è propriamente così, e – se ne deduce – non è divenuto migliore neanche il giornalismo internazionale che tutto ciò ha preso per buono.

C’è innanzitutto da considerare il fatto che i trattati relativi alla riduzione delle armi atomiche consentono una sorta di pulizia e ammodernamento degli arsenali, sproporzionati anche nell’ottica della distruzione  reciproca e il cui mantenimento poteva risultare economicamente troppo oneroso per la potenza nordamericana in un periodo di profonde recessione e stagnazione. Un altro aspetto nascosto, o comunque meno discusso dai puntigliosi analisti e dai grandi strateghi della libera informazione, è quello – già esposto con larga evidenza sulle pagine di questo quotidiano – della cosiddetta contabilità truccata in riferimento al numero delle testate nucleari: il testo del trattato fa infatti riferimento ai sistemi d’arma nel loro complesso, e quindi, parlando per sommi capi, un sottomarino nucleare armato con quattro missili sarebbe considerato come unico armamento, e come tale trattato nei programmi di riduzione e smaltimento. Quattro al prezzo di uno, neanche si trattasse di scatole di ceci. C’è poi l’atteggiamento statunitense secondo cui le regole loro le scrivono e gli altri devono rispettarle; e – vista la fatica fatta nello scriverle – magari ti puntano anche la pistola alla tempia, così da essere certi della tua correttezza. Per lungo tempo questo sistema ha funzionato. Solo che, come si suol dire, la ruota gira, e capita che a un certo punto gli “altri” siano la Russia e l’Iran.

La Russia ha opposto alla furbizia atlantica la considerazione secondo cui altri sistemi d’arma ritenuti convenzionali pur se di enorme portata distruttiva e di natura strategica, leggasi il cosiddetto “scudo spaziale” che gli Usa sono in procinto di installare in Europa orientale, non rientrano nelle quote di riduzione e dismissione del trattato Start, ma potrebbero comunque avere conseguenze pesanti sulle potenzialità dell’armamento russo. La convenzione quindi potrebbe essere inficiata sul nascere. Gli Stati Uniti, da parte loro, oppongono il diritto alla “difesa”: come dire che quelle non sono armi vere, “non contano” (come direbbe un bambino di quattro anni). Perché, a dar retta ai loro proclami, non servirebbero a mantenere il controllo dei cieli di un’ampia sezione dell’emisfero boreale, no, ci mancherebbe: servono a proteggere l’Europa nel caso in cui l’Iran un giorno decidesse di lanciare un missile contro la Lituania o, chissà, l’Ungheria. Non è meraviglioso che da Washington proferiscano queste parole: ne siamo ampiamente avvezzi. E’ meraviglioso che (quasi) tutti gli organi di stampa le riportino come verità, e a nessuno scappi da ridere, o da piangere.

L’Iran si trova in una situazione ancora più complessa. Non occorre ricordare come si continui quotidianamente a mistificare la realtà e si affermi – da parte americana – che la Repubblica Islamica sia intenzionata alla messa a punto di armi atomiche, con  cui – naturalmente – attaccherebbe immediatamente l’Occidente e Israele (che di missili atomici ne ha cento, nascosti, armati e puntati; ma cosa volete, hanno subito l’Olocausto: gli si vuole negare questo elementare diritto?). Il fatto che gli ispettori internazionali inviati a Teheran non ne abbiano rinvenuto traccia e il fatto che basterebbe un’analisi imparziale di un ingegnere della Scuola Radio Elettra per dimostrare inoppugnabilmente che il programma  nucleare iraniano è indirizzato verso utilizzi civili di tale fonte di energia, sono insignificanti dettagli, o peggio propaganda degli ayatollah. Su una cosa gli Stati Uniti e Israele non mentono: temono davvero la possibilità che l’Iran entri a far parte delle potenze atomiche; e ne hanno ben donde. Le armi nucleari, per loro natura, si caratterizzano per una potenza distruttiva di tale spaventosa entità che – nel gioco della deterrenza reciproca – annullano i rapporti aritmetici di numero di ordigni posseduti, soprattutto in un contesto bellico non planetario. In sintesi: possedere trenta bombe o trecento, non cambia un granché: la deterrenza è comunque garantita. Con  buona pace dei pacifinti nostrani e internazionali, quindi, un Iran atomico garantirebbe una infinitamente maggiore possibilità di pace nella regione vicino e medio orientale, arginerebbe le crescenti minacce israeliane, garantirebbe a una libera nazione – e alle libere nazioni sorelle – una sorta di copertura militare che indurrebbe a più miti consigli la dilagante violenza degli Stati Uniti. Non è un bel gioco, chiaramente. E l’Iran, la più pacifica tra le nazioni, ne è consapevole. Ma occorre anche ribadire, per tornare alla domanda iniziale di questo articolo, che le cento bombe di Tel Aviv hanno motivo di incutere terrore in tutta l’umanità e rappresentano una minaccia di una tale portata che, pur di contenerla, i veri pacifisti di tutto il mondo devono essere intellettualmente pronti anche all’ipotesi di una deterrenza nucleare reciproca.

Parlare di armi atomiche è avvilente: i destini di tutta la Terra potrebbero essere a loro cagione compromessi. Per ricacciare indietro anche il solo pensiero che tali formidabili strumenti di distruzione possano essere nuovamente usati contro l’uomo da parte dei soliti liberatori, potremmo chiudere con un (pur amaro) sorriso. Anche questa volta ce ne offre l’opportunità l’Amministrazione presidenziale degli Stati Uniti d’America. Ai tempi di Bush jr., il presidente stesso e gran parte degli squilibrati che costituivano il suo entourage erano candidamente espliciti: in caso di conflitto contro l’Iran si sarebbero utilizzate armi atomiche. Poi è arrivato Obama e ha voluto dare un segnale di rottura con l’atteggiamento violento del suo predecessore: le armi atomiche saranno impiegate solo in contesti estremi, e solo contro quegli Stati che non rispettano le regole internazionali che ne disciplinano l’uso. Quindi: solo in caso di guerra, e solo contro l’Iran. Hanno davvero perduto anche il senso della decenza.