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Gli Usa e la lezione afghana

di Fabrizio Fiorini - 26/04/2010


E’ stato reso pubblico solo di recente il contenuto – dai più ritenuto scandaloso – di una conversazione privata di Richard Nixon nella quale l’ex presidente statunitense avrebbe sostenuto che l’interruzione di gravidanza (all’epoca argomento di violenta contrapposizione all’interno della società americana) fosse cosa giusta o addirittura encomiabile “nel caso un genitore fosse bianco e l’altro negro”. L’ex presidente, scomparso nel 1994, molto probabilmente oggi rinnegherebbe questa sua presa di posizione. Senza l’apporto biologico del meticciato egli sarebbe infatti stato privato del più degno continuatore della sua politica estera,  nato nel 1961 dall’estroverso connubio di un’americana del Kansas di origine inglese e un keniota di etnia Luo: Barack Hussein Obama.

Le analogie tra l’azione politica dei due presidenti sono notevoli: a) l’apparente volontà di distensione colle altre superpotenze: ai tempi di Nixon, tuttavia, dietro l’avvicinamento alla Cina si celava una manovra di accerchiamento e contenimento della potenza sovietica, così come ai nostri giorni dietro le attenzioni “pacifiste” dell’amministrazione Obama nei confronti della Russia e della stessa Cina si nascondono le preoccupazioni relative alla preservazione per gli Stati Uniti di una posizione predominante in seno a un auspicato assetto unipolare, messo in crisi dalle pessime congiunture economiche e dal fallimento delle campagne belliche e diplomatiche internazionali; b) la messa in atto di manovre diplomatiche volte alla pubblica negazione e al camuffamento con propositi umanitari della proprie reali intenzioni guerrafondaie:  se oggi Obama mobilita la polizia politica e le strutture di intelligence per fomentare sommosse e rivolte finalizzate al regime change nelle Nazioni ostili agli Usa (vedi il caso della cosiddetta “rivolta verde” in Iran), negli anni Settanta nixoniani si era più sbrigativi: si cancellavano le insegne sugli aeroplani e si bombardavano i palazzi presidenziali (si vedano le vicende del golpe cileno del 1973); c) la politica monetaria: Nixon, già nel 1971, dismise il gold exchange standard che prevedeva la convertibilità in oro della moneta statunitense, conseguenza dell’accordo sui cambi di Bretton Woods del 1944; durante la presidenza Obama ci si è spinti naturalmente oltre, e il finanziamento della agonizzante economia americana avviene attraverso l’emissione di dollari-carta straccia con ancor minore controvalore reale e destinati a creare ulteriori scompensi nei sistemi socioeconomici degli Stati sottomessi alla dipendenza coloniale da Washington; d) il rinnovato interesse per le missioni lunari e spaziali in genere; significativo il fatto (che può, tra l’altro, portare pericolosamente acqua al mulino complottista) che tali imprese risultino oggi inficiate in partenza da un tasso di imprevedibilità scientifica e di rischio materiale che non ne permettono una fattiva realizzazione… mentre quarant’anni or sono, grazie a una tecnologia antidiluviana e all’ausilio di computer di potenza inferiore a quella che oggi ha un’agendina elettronica tascabile, l’uomo è arrivato sulla Luna, l’ha esplorata, ha trovato colà anche il tempo di dedicarsi a spiritosaggini di ogni sorta quali quella di giocare a golf, ha riacceso i motori ed è tornata indietro per raccontarcelo. Sembrerà strano, ma tant’è; e) la ratifica, in sede internazionale, di trattati di riduzione dell’armamento nucleare balistico (ABM per Nixon, New START per Obama) che, nonostante il clamore propagandistico con cui sono stati salutati, nulla hanno mutato né nei rapporti di forza tra superpotenze né nelle intenzioni imperialiste della potenza nordamericana.

Pur tuttavia, Richard Nixon sarebbe riuscito meglio di Bush jr. e di Obama a gestire la questione afghana. Il che è tutto dire. Anzi, verosimilmente tale questione non sarebbe stata nemmeno aperta. In una sua opera dei primi anni Ottanta, La vera guerra, l’ex presidente, pur comprendendo la rilevanza strategica di tale nazione asiatica (irridendo coloro che, per indicare questioni lontane dai reali interessi americani aveva coniato il neologismo “afghanistanismo”), comprendeva anche (forse si era laureato prima del “diciotto politico”… d’altronde risulta che anche George Bush figlio sia laureato in storia!) le difficoltà insormontabili con cui chi avesse tentato la conquista di Kabul avrebbe avuto a che fare; scriveva infatti che  «nel corso della storia (l’Afghanistan) è stato il crocevia di conquistatori; Alessandro il Grande, Gengis Khan e Tamerlano hanno invaso tutti le polverose colline dell’Afghanistan nella loro sete d’impero. (…) Oggi l’Afghanistan è il banco di prova di una nuova, minacciosa, impudente fase della spinta espansionistica sovietica».

Ora, a parte il fatto che sentire un presidente degli Stati Uniti d’America pontificare su “sete d’impero” nonché su minacciose e impudenti spinte espansionistiche è cosa che urla vendetta davanti a dio e agli uomini e che mette a dura prova la tenuta gastrica anche dei più divezzati, è doveroso constatare che le nuove amministrazioni insediatesi a Washington hanno nuovamente peccato di presunzione e arroganza a scapito di un elementare apprendimento che avrebbero dovuto recepire dagli eventi storici passati. E non c’è bisogno di scomodare il ricordo di Tamerlano, sarebbe stato sufficiente aver letto i giornali ai tempi dell’invasione sovietica della nazione afghana.

La prima lezione che non sono stati buoni d’imparare è che un popolo libero ha il diritto e il dovere di combattere l’invasore della sua patria sia che questo scorrazzi per le vie della capitale e sia che si annidi in ridotte di montagna; ma di ciò hanno almeno la scusante che per ogni invasore è sempre stato così, perché ogni invasore reputa di poter occultare la propria vera natura in caso di sortita dall’esito positivo: potrà così fregiarsi del titolo di liberatore. La stessa spavalderia di norma non li accompagna quando vengono ricacciati indietro: allora si prodigano in piagnistei di ogni sorta e si lamentano di non essere stati compresi, che “andavano a portare la pace”.

Restando nello specifico del contesto afghano, alla soldataglia atlantica è risultata di difficile comprensione addirittura la più elementare prassi militare. Al pari dei loro predecessori sovietici, infatti, gl’invasori americani e Nato dell’Afghanistan  hanno sviluppato le loro incursioni sul territorio prevalentemente lungo l’asse viario che collega i principali centri abitati del Paese, riconducibile essenzialmente alla direttrice Herat-Farah-Kandahar-Kabul-Kunduz, e da lì hanno con scarso risultato tentato di prendere il controllo del territorio interno contando esclusivamente su sporadici e prezzolati elementi collaborazionisti e su azioni militari campali di tanto materialmente devastante quanto militarmente inutile portata. I sovietici agirono oggettivamente meglio: oltre a porre in essere una pur embrionale struttura sociale e istituzionale nel Paese, riuscirono gradualmente a entrare nelle campagne afghane, da cui tuttavia si ritirarono conseguentemente alla progressiva perdita di slancio di cui la missione risentiva a causa del deterioramento delle retrovie e quindi della disgregazione dello Stato sovietico della seconda metà degli anni Ottanta.

Le truppe Usa-Nato, invece, in quasi un decennio di presenza militare nel Paese non sono riuscite a conseguire il benché minimo obiettivo in termini di popolarità, non sono state in grado neanche di garantire una pur blanda sicurezza sul territorio per la quale sarebbero bastate delle pattuglie di vigili urbani e hanno incentrato il loro operato su una pervasiva violenza e sul calpestamento del morale e dei più basilari diritti del popolo. Ciò li sta inesorabilmente conducendo verso la prima fase della loro totale sconfitta: il graduale ritiro dal territorio.

Da un certo punto di vista, non c’è da rallegrarsene troppo: se gli americani decidono per una diminuzione delle loro truppe ciò può essere anche dovuto dal fatto che reputano di poter ormai controllare il Paese da remoto, affidandosi ai collaborazionisti e ai mercenari locali. Dall’altro è però comunque un segnale di crisi, che li condurrà a breve all’amara constatazione che è impossibile avere il controllo militare di un territorio restando chiusi nelle green zone, nelle caserme, negli aeroporti e sulle autostrade. E’ notizia recente, infatti, che le truppe atlantiche stanno abbandonando intere aree dell’Afghanista interno che spesso vengono semplicisticamente definite “rurali”  ma che nella realtà sono altamente strategiche. Si tratta, nella fattispecie, delle zone di Sangin, di Helmand e, non ultime, di aree della provincia di Kunar prossime al confine pakistano, queste ultime definite esaustivamente dagli stessi occupanti nei termini di “valle della morte”, nelle quali si sono registrate svariate decine di perdite di uomini sotto i colpi inferti dalla resistenza. I vertici militari collaborazionisti di Kabul sono stati gettati nello sconforto dalla notizia, e più dei loro mentori hanno intuito che le vicende militari volgono ineluttabilmente al peggio.

Il “copione sovietico” si ripropone con puntualità sconcertante per i nuovi occupanti. Sia nei termini di guerra sul campo sia nei termini di logoramento nelle retrovie, in quegli Stati Uniti che al pari dell’Urss si avviano verso una crisi strutturale irreversibile per portata economica e per ridimensionamento politico.

Le buone notizie non vanno oltre: le vittorie della resistenza dei popoli oppressi, in Afghanistan come altrove, si susseguono; ma la strada da percorrere sarà purtroppo lastricata di tanti, troppi patrioti che ancora sacrificheranno la loro vita per la libertà. Anche per la nostra. Ricordarli, omaggiarne il coraggio, è il minimo che possiamo fare