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Hosni Mubarak, gli Stati Uniti e le elezioni del 2011 in Egitto

di Giovanni Andriolo - 26/04/2010


 
Hosni Mubarak, gli Stati Uniti e le elezioni del 2011 in Egitto

L’Egitto e le elezioni presidenziali del 2011

Il 2011 sarà un anno decisivo per il futuro dell’Egitto, sia per quanto riguarda gli equilibri politici interni sia (di conseguenza) riguardo alla sua posizione sulla scena internazionale.

Il mandato di Hosni Mubarak, presidente ininterrottamente in carica dal 1981, giunge a scadenza e a settembre si svolgeranno le nuove elezioni presidenziali. Questo avvenimento si configura come uno dei più importanti nella storia recente del Paese e, di riflesso, per tutta l’area vicino-orientale.

Innanzitutto, sarà ammessa per la seconda volta la presentazione alle elezioni di più candidati. Infatti precedentemente il presidente in Egitto era nominato da un’apposita Assemblea Popolare e confermato dal voto dei cittadini in un referendum popolare: a partire dal 2005, le elezioni presidenziali prevedono la presenza di più candidati. Il presidente in Egitto è eletto per sei anni di mandato e non esistono limiti al numero di mandati per uno stesso candidato.

Questo ha permesso ad Hosni Mubarak di governare ininterrottamente il Paese per cinque mandati consecutivi, dal 1981 ad oggi.

Nelle precedenti elezioni, svoltesi nel settembre del 2005, il presidente Mubarak aveva conquistato la vittoria riportando l’88% circa delle preferenze e trionfando così anche nelle prime elezioni presidenziali del Paese con candidatura multipla. In quell’occasione molte proteste si erano levate poiché durante le elezioni le istituzioni elettorali e l’apparato di controllo erano rimaste sotto la tutela presidenziale, e per tutto il periodo della campagna elettorale gli strumenti di comunicazione di massa ufficiali, inclusi i tre quotidiani governativi e la televisione di Stato, si erano espressi a favore della linea politica seguita da Mubarak. Inoltre in quell’occasione si era presentato alle urne soltanto il 23% degli aventi diritto al voto.

In secondo luogo, molte polemiche aveva suscitato, dopo le elezioni, l’incarcerazione del candidato dell’opposizione Ayman Nour, accusato di aver contraffatto le firme nella petizione per la creazione del proprio partito. Questo gesto fu visto internazionalmente come un atto di intimidazione e di persecuzione nei confronti dell’opposizione al governo e l’Egitto fu richiamato dagli Stati Uniti, Paese politicamente vicino, ad onorare i suoi doveri di garanzia di libertà e democrazia all’interno del Paese.

In terzo luogo, suscita polemiche il fatto che la sola organizzazione di opposizione in Egitto capace di catalizzare un supporto popolare, i Fratelli Musulmani, è bandita dall’attività politica del Paese e non le è permesso presentare un candidato. Infatti l’articolo 5 della Costituzione bandisce qualsiasi attività o partito politico basati su fondamenti di tipo religioso. I singoli membri dei Fratelli Musulmani hanno perciò adottato lo stratagemma di presentarsi sulla scena politica come indipendenti e attualmente occupano 88 seggi su 444 in seno all’Assemblea Popolare, l’organo legislativo del Paese, ponendosi quindi come maggior gruppo di opposizione al Partito Nazionale Democratico del presidente Mubarak.

Questi elementi costituiscono dei precedenti importanti in vista delle prossime elezioni. Sicuramente le misure limitative nei confronti degli oppositori del governo stanno creando crescente malcontento, sia all’interno del Paese, sia a livello internazionale. Dalla sua elezione come presidente nel 1981, Hosni Mubarak ha intrattenuto rapporti amichevoli con gli Stati Uniti, da cui l’Egitto ha sempre ricevuto e continua a ricevere una media di 2 miliardi di dollari annui di aiuti economici e militari. L’Egitto di Mubarak, oltre a mantenere il suo ruolo di Paese guida nella regione vicinorientale sia per ragioni culturali sia per ragioni geografiche, è diventato uno dei Paesi chiave della politica statunitense nell’intera regione, con la funzione di mantenimento della stabilità politica nell’area.

Malgrado ciò, Mubarak comincia a perdere sostegni a metà degli anni ‘90, quando il Paese fu investito da un’imponente crisi economica. Malgrado le continue promesse di riforma da parte del governo, l’economia dell’Egitto rimane minata da alti tassi di disoccupazione e da una povertà diffusa tra la popolazione: una recente indagine dell’Autorità Egiziana per gli Investimenti denuncia come la media degli stipendi egiziani sia del 40% sotto la soglia di povertà prevista per il Paese. Per questi motivi, negli ultimi anni l’Egitto ha assistito ad una serie di scioperi e rivolte popolari, come quelli avvenuti nella primavera del 2008, quando gli elevati prezzi del grano fecero aumentare vertiginosamente il prezzo del pane nel Paese e in numerose città egiziane decine di migliaia di dimostranti scesero in strada e si scontrarono con le forze di polizia e l’esercito.

Appare evidente quindi che negli ultimi anni la stabilità interna dell’Egitto sembra essere in grave pericolo: questo fatto preoccupa gli Stati Uniti, poiché nel sistema di mantenimento della stabilità nel Vicino Oriente che essi hanno costruito l’Egitto di Mubarak rappresenta un importante e irrinunciabile pilastro.

Di fronte a questa mutazione della situazione dell’Egitto, come anche di fronte alle proteste che si stanno levando dall’interno del Paese, Hosni Mubarak si sta preparando per tempo ad affrontare le elezioni del 2011.

Nel 2005 ha emendato l’articolo 76 della Costituzione, rendendo possibile a più candidati la corsa alla presidenza, stabilendo però in contemporanea nuove modalità di candidatura alle presidenziali egiziane, che sanciscono di fatto l’impossibilità di candidarsi per chiunque non faccia già parte del sistema politico: il candidato infatti deve essere già deputato ed essere inoltre un dirigente di un “partito legale”. Questo esclude perciò la candidatura di molti indipendenti e soprattutto dei membri dei Fratelli Musulmani, poiché il partito non è legalizzato e i parlamentari sono eletti a titolo personale.

In secondo luogo, forte inquietudine ha suscitato tra gli oppositori di Mubarak l’ambizione politica del secondo figlio del presidente, Gamal, la cui ascesa all’interno del Partito Nazionale Democratico rende sempre più insistenti i sospetti di un piano per la sua successione alla Presidenza della Repubblica. L’opposizione interna è fortemente contraria all’elezione di Gamal come successore di Mubarak e l’attuale presidente ha negato a più riprese di voler favorire l’insediamento del figlio. Da parte sua, Gamal Mubarak non ha ancora reso note le proprie intenzioni riguardo le elezioni, lasciando così spazio alle voci che lo ritengono uno dei probabili candidati.

Tali sospetti sono aumentati nel marzo scorso, quando le cattive condizioni di salute di Mubarak lo hanno portato a subire un’operazione alla cistifelia in Germania: questo fatto, unito alla sua avanzata età (nel 2011 compirà 83 anni), fa ritenere che il presidente non possa assumersi per la sesta volta l’incarico di guidare il Paese e stia meditando piuttosto di “abdicare” in favore del figlio Gamal.

Possibili scenari post-elettorali

L’anno 2011, si diceva all’inizio, sarà fondamentale per il futuro dell’Egitto. L’attuale situazione del Paese e la composizione delle forze che si fronteggiano all’interno della scena politica rendono estreme le differenze tra i possibili scenari futuri a seconda di quale candidato risulterà vincente.

Non dimenticando che finora i nomi dei candidati ufficiali non sono ancora stati annunciati, è possibile fin da ora ipotizzare alcuni probabili candidati e delineare un quadro generale di quelle che potrebbero essere le conseguenze, a livello internazionale, dell’elezione di ognuno di questi alla presidenza.

Innanzitutto Hosni Mubarak, che malgrado le cattive condizioni di salute e l’età avanzata, non sembra ancora intenzionato a lasciare il posto che occupa da quasi trent’anni. Rientrato dalla Germania, dove è stato sottoposto ad un’operazione alla cistifelia, Mubarak ha presieduto un consiglio dei ministri, lo scorso 15 aprile, durante il quale ha stabilito un innalzamento del 10% degli stipendi e delle pensioni per tutti gli impiegati pubblici. Questa decisione giunge qualche settimana prima della festività dell’1 maggio, giornata in cui le organizzazioni dei lavoratori del Paese avrebbero manifestato pubblicamente per chiedere al governo stipendi più alti, e dimostra come Mubarak intenda giocare la carta del populismo pre-elettorale.

Se Mubarak dovesse riportare la sesta vittoria alle elezioni, è prevedibile che la situazione in Egitto rimarrà simile all’attuale, con una sempre più accentuata limitazione delle libertà interne come reazione ad un’opposizione in aumento e come arma di difesa contro la diffusione del consenso popolare nei confronti dei Fratelli Musulmani. In politica estera Mubarak continuerebbe la sua alleanza con gli Stati Uniti, mantenendo per il suo Paese il ruolo di centro di stabilizzazione della regione. Tale status quo, in ogni caso, non è destinato a durare ancora a lungo, date, ancora una volta, le cattive condizioni di salute e l’età dell’attuale presidente: una rielezione di Mubarak, quindi, non farebbe altro che procrastinare di qualche anno un processo di cambiamento che in Egitto si sta facendo sempre più inevitabile.

Sotto questo punto di vista, appare più lungimirante la teoria che ipotizza un progetto, da parte di Mubarak, per insediare il proprio figlio Gamal a capo del Partito Nazionale Democratico e a capo del Paese.

Un’eventuale elezione di Gamal Mubarak garantirebbe una certa continuità con la politica seguita dal padre e, probabilmente, ancora più strette relazioni con gli Stati Uniti: Gamal infatti ha studiato all’Università Americana del Cairo e ha lavorato per 11 anni alla Bank of America. Inoltre la sua relativamente giovane età, 46 anni, gli permetterebbe di mantenere il potere per diversi altri mandati a venire.

Non mancherebbero, tuttavia, alcuni elementi di rottura con il passato. Innanzitutto Gamal non proviene, come tutti i presidenti dell’Egitto dal 1952 ad oggi, dall’ambiente militare, bensì dall’ambiente accademico ed economico: per questo motivo è possibile ipotizzare che l’alleanza con gli Stati Uniti potrebbe subire, in caso di vittoria di Gamal, una transizione maggiormente orientata agli affari rispetto alla passata partnership di carattere principalmente militare. In secondo luogo appare probabile che le forze di opposizione in Egitto mal tollererebbero un passaggio di poteri di padre in figlio, simile a quello avvenuto in Siria nel 2000, e i movimenti di protesta tenderebbero ad aumentare esponenzialmente, mettendo così Gamal nella posizione di dover attuare una sempre maggiore limitazione delle libertà all’interno del Paese.

Un altro possibile candidato alla presidenza dell’Egitto sembra essere Mohamed el Baradei, già direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (IAEA). Rispetto ad Ayman Nour, il candidato dell’opposizione nelle precedenti elezioni, Mohamed el Baradei gode di grande fama in Egitto e all’estero, ha 67 anni, un’età né troppo avanzata, né troppo giovane, è un moderato, pronto ad intrattenere buoni rapporti con gli Stati Uniti, ma capace di far sentire la propria voce al potente alleato (nel 2003 si oppose alle accuse statunitensi di detenzione di armi di distruzione di massa nei confronti dell’Iraq), sostiene il dialogo con Israele e soprattutto vuole riformare, non cambiare, il sistema. In una recente intervista, Baradei ha aspramente criticato la mancanza di democrazia e la diffusione della povertà in Egitto e ha affermato di essere pronto ad entrare in politica se saranno garantite elezioni giuste e se gli sarà data la possibilità di partecipare, alludendo in questo modo all’emendamento dell’articolo 76. Baradei infatti non è un deputato né appartiene a un partito legale, per cui non potrà candidarsi facilmente come indipendente. Tuttavia Baradei si sta già muovendo per scuotere lo status quo che blocca il Paese: Baradei infatti ha creato nel febbraio 2010 un nuovo movimento politico non partitico, il “Fronte nazionale per il cambiamento”, che chiede riforme generali nella vita politica del Paese e si indirizza principalmente contro l’articolo 76 della Costituzione. Questo suo attivismo da un lato costituisce per l’attuale governo un imbarazzante messaggio, mandato da una figura di peso internazionale nel tentativo di spingere il governo stesso a rivedere il processo di passaggio di potere in Egitto; dall’altro vi si può scorgere una promessa da parte di Baradei di impegno reale per riformare e aprire la vita politica egiziana, come preludio ad un imminente annuncio di candidatura.

Un’eventuale vittoria di Baradei, quindi, potrebbe avere molteplici conseguenze. Sicuramente Baradei porterebbe nel Paese maggiore apertura e trasparenza a livello politico, e agirebbe nella direzione di un aggiornamento e di una revisione dell’apparato politico, militare e amministrativo del Paese. Proprio questa tendenza all’apertura e al cambiamento, però, potrebbe condurre un Egitto sclerotizzato da decenni di immobilità politica a conseguenze difficilmente prevedibili, soprattutto in campo internazionale.

È noto che la posizione degli Stati Uniti è assai sensibile alla situazione dell’Egitto: gli Stati Uniti infatti hanno investito molte risorse, negli ultimi decenni, sia a livello finanziario sia a livello politico affinché l’Egitto mantenesse la sua stabilità interna e contribuisse a mantenere la stabilità nell’intera regione. Pertanto, qualsiasi evento che possa minacciare le relazioni con l’Egitto è visto a Washington con grande preoccupazione. Nonostante la natura autoritaria del regime di Mubarak, gli Stati Uniti non sembrano avere interesse a spingere il Paese verso un processo di rapida democratizzazione che, al contrario, potrebbe risultare addirittura controproducente. I timori degli Stati Uniti, rafforzati da eventi come la vittoria elettorale di Hamas in Palestina, riguardano il fatto che, data la popolarità dei Fratelli Musulmani all’interno del Paese, un’improvvisa apertura dei processi democratici in Egitto potrebbe portare al potere membri dei Fratelli Musulmani, i quali sicuramente non sarebbero disposti a proseguire l’alleanza economica, politica e militare costruita da Mubarak. Non mancano poi le visioni più pessimistiche, secondo cui un eventuale governo islamista potrebbe arrivare a ritrattare l’accordo di pace sottoscritto dall’Egitto con Israele e aprire un nuovo fronte contro lo Stato ebraico.

In realtà anche la situazione all’interno dei Fratelli Musulmani è complessa e il movimento sta attraversando una fase di cambiamento. Una grave crisi interna ha creato due correnti in accanita lotta fra loro: un’ala “modernista” che vorrebbe coniugare precetti islamici, democrazia e un’apertura agli occidentali, e una più dura e intransigente, che vorrebbe in Egitto l’applicazione della sharia. L’ala modernista sembra voler favorire processi di cambiamento all’interno della Fratellanza Musulmana, attraverso la conquista di sempre maggiore potere politico. Tuttavia, l’ala conservatrice continua a mantenere il controllo della Fratellanza, anche se si vedrà costretta, secondo alcuni, a cedere sempre più spazio alla nuova guardia per evitare una spaccatura troppo profonda del movimento.

D’altra parte, a Mubarak stesso e all’attuale governo torna maggiormente utile descrivere e dipingere i Fratelli Musulmani come un gruppo prettamente fondamentalista ed estremista, dedito alla lotta armata, antioccidentale e antistatunitense. Fintantoché l’opinione pubblica internazionale, e soprattutto gli Stati Uniti, saranno spaventati da questo interlocutore, continueranno a giungere al Cairo gli aiuti e il supporto necessari al mantenimento dello status quo. Inoltre, la presenza dei Fratelli Musulmani nel Paese diventa per Mubarak una valida giustificazione nelle occasioni in cui gli Stati Uniti o altri attori internazionali richiamano il governo egiziano ad adempiere ai suoi impegni di maggiore libertà e democrazia. Anche la presenza dei Fratelli Musulmani, insomma, si configura come una pedina fondamentale per il mantenimento dello status quo e degli equilibri che hanno caratterizzato l’Egitto negli ultimi 30 anni.

Le elezioni presidenziali del 2011, quindi, saranno di fondamentale importanza non soltanto per il futuro dell’Egitto, ma anche per l’equilibrio dell’intera regione vicino-orientale e per la posizione degli Stati Uniti al suo interno. Le elezioni egiziane del 2011 metteranno alla prova le tendenze dell’amministrazione Obama nei riguardi della diffusione della democrazia nel Vicino Oriente: l’atteggiamento del Presidente statunitense, infatti, potrà essere orientato verso l’approvazione dell’attuale regime di Mubarak e dell’attuale status quo nel Paese e nella regione, a prescindere dalle attitudini autoritarie dell’attuale governo, oppure potrà insistere per un cambiamento e una maggiore apertura all’interno del Paese. In quest’ultimo caso, l’amministrazione Obama potrebbe spingere il governo egiziano affinché crei le condizioni per una riforma democratica in Egitto che garantisca una corretta competizione politica.

Le conseguenze di una tale apertura, come è già stato detto, non sono facilmente prevedibili e sicuramente porterebbero a cambiamenti radicali nell’intera regione, con risvolti che potrebbero essere non più governabili.

D’altra parte, lo status quo finora perseguito in Egitto da Mubarak e dal suo governo non sembra aver portato miglioramenti apprezzabili nelle condizioni di vita dei cittadini e anzi sembra aver accresciuto il sostegno popolare a gruppi di opposizione, primo fra tutti i Fratelli Musulmani.

Pertanto, nel 2011 l’Egitto sarà chiamato a decidere le sorti non soltanto del proprio apparato politico, ma anche dell’intera regione vicino-orientale. Il risultato di questa scelta, in ogni caso, sarà determinato dall’atteggiamento del Governo stesso e dal grado di libertà che quest’ultimo vorrà fornire al proprio popolo.

* Giovanni Andriolo è dottore in Relazioni internazionali e tutela dei diritti umani (Università degli studi di Torino)