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Contro la famiglia moderna

di Alessio Mannino - 26/04/2010

 



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C’è una bella usanza nel rituale della laurea universitaria: dopo aver conquistato il fatidico alloro, il fresco dottore viene accompagnato fuori e fatto passare in un tunnel preparato da due file di amici e parenti. Lui, chino e ancora eccitato, deve correrci dentro prendendosi una raffica di calci nel sedere e di pacche sulla schiena. Un modo simbolico per incitarlo a buttarsi nella vita vera, quella fuori dalle aule e dalle sale studio: datti una mossa, bamboccio! Ecco, alla cultura italiana della famiglia-chioccia, che per un verso è un tesoro inestimabile di affetti e sicurezze preziose, ad esempio, in questo drammatico periodo di crisi economica, serve proprio questo: la scoperta delle virtù benefiche della pedata nel culo. Sono prima di tutto i genitori - i padri assenti perchè privi di nerbo e di valori forti, e le madri asfissianti e ingozzatrici – sono loro i primi colpevoli del “bamboccismo” divenuto regola. Essendo il prodotto di una generazione, quella del benessere, cresciuta a pasti abbondanti e televisione dilagante, i cinquantenni e sessantenni di oggi hanno educato i propri figli all’attaccamento nevrotico alla comodità e al tutto e subito. Cioè non li hanno educati (e-ducere: estrarre, far venire fuori le potenzialità del figlio). Altrimenti li avrebbero tirati su a forza di rinunce, di sacrifici, di paletti, persino di qualche sganassone ma anche, certamente, a ciò che più di ogni altra cosa porta ad essere uomini e donne: ai sentimenti. Niente di tutto questo, a livello di massa.
La famiglia è diventata una sciagura. Deleterio quel suo soffocante grembo materno che, salvando i figli senz’arte né parte a trent’anni suonati, li perde in una vischiosa, eterna adolescenza. E’ il nuovo “familismo amorale” – da madre che divora la prole. Coccolati, vezzeggiati, viziati, i ragazzi crescono imbranati, paurosi e supponenti. Psicologicamente e socialmente castrati. Completa l’opera l’altra Grande Madre, la macchina schiavistica del mercato e del consumo, che uccide ogni slancio vitale attraverso quel crimine collettivo che è la precarietà lavorativa e quella sua suadente pedagogia fatta di frigoriferi pieni e giornate vuote. E’ in atto la svirilizzazione di un’intera generazione maschile, e una corrispondente de-femminilizzazione delle ragazze fra le quali è raro trovare una che sappia cucinare, che abbia voglia di attendere alle faccende domestiche, che intenda i figli non soltanto come una necessità biologica (la natura si fa sentire più forte nelle femmine) ma come progetto di vita a lungo termine.
Ed è proprio questo il nucleo del problema. Con la famiglia-tana, la famiglia-gabbia, la famiglia-albergo, un giovane non acquisisce le doti per progettare un’esistenza autonoma: la capacità di prevedere e affrontare i rischi, la tenacia della volontà, l’assunzione di obbiettivi di fondo, la sopportazione di sacrifici e privazioni. E, a coronare e irradiare d’energia il tutto, la fede – la fiducia – nel senso che ciascuno attribuisce alla propria vita. Un senso che il bamboccio ostaggio di mamma e papà fa fatica a mettere a fuoco, se ogni fatica sudata per sé e da sé gli viene sottratta dall’amorevole, malefico, aiuto dei genitori. La sola speranza, a questo punto, può venire da chi proviene da paesi non ancora appestati dal nostro castrante “benessere”: gli immigrati. Ha scritto lo psicanalista e scrittore Claudio Risè: «lasciare il giardino dell’Eden dove stendi una mano e cogli il frutto (la ragazza nel letto, il calzino lavato dalla mamma, il buffetto del papà che rimedia al capufficio villano), è il passaggio necessario perché il bamboccio diventi uomo. Ciò avviene, anche, imparando il valore della fatica, della solitudine, del «farcela» (…). È anche questo che sentiva, istintivamente, l’albanese o il macedone buttandosi nel canale d’Otranto pur di arrivare sulle nostre coste; le laureate dell’est che si propongono come badanti o cameriere; ed anche gli africani (che tu hai giustamente difeso) che vengono a fare lavori che i nostri ragazzi più o meno imbambocciati non farebbero mai. Questi «disperati» (così chiamati da noi), sono molto più vitali, più forti, e quindi spesso anche più intelligenti, di quanto siano i nostri coccolatissimi figli. Tanto è vero che molti di loro, quelli che sono qui già da più di un decennio, hanno messo su le loro aziende, le loro famiglie per niente imbambocciate, e hanno una vita più di slancio, più ricca, più sicura, di quella (spesso in bilico tra agiatezza e sfinimento) delle nostre» (Il Giornale, 23 gennaio 2010). Perciò, prima di piangere sul lavoro perduto, o che non c’è, o che non ti dà di che vivere dignitosamente, si pensi alle tare culturali e psicologiche ereditate da genitori altrettanto infantili e impotenti. E poi ci si può incazzare di brutto contro lorsignori politici, industriali e banchieri che santificano la flessibilità, impongono contratti inumani e strozzano sul nascere ogni progetto di vita. Ma tanto, bambocci come sono, gli adolescenti di 30-40 anni non sono neppure capaci di ribellarsi.
Dice: ma senza la "sacra" famiglia, questi ragazzi farebbero i barboni in mezzo alla strada, o ben che vada vivrebbero come topi in bugigattoli, soli, in ristrettezze, senza il conforto degli affetti. A parte che l’esplosione dei cosiddetti “single” va fatta discendere dalla diseducazione sentimentale di cui è colpevole proprio la famiglia iperprotettiva, il fatto, di per sé incontestabile, che senza i familiari i precari, disoccupati e cassintegrati di questi anni farebbero la fame, merita un grazie e basta. Un grazie amaro, che sa di sconfitta. Qui non c’è da imitare i modelli anglosassoni e scandinavi del diciottenne che se ne va di casa per poi sprofondare nei gironi della solitudine intermittente, degli psicofarmaci come caramelle, della delinquenza giovanile e dell’alcolismo. Da noi, l’àncora familiare a cui si aggrappano i ragazzi e le ragazze insicure è lo stesso male ma al rovescio: se là si cresce in mare aperto spesso troppo presto, qui si smette di restar rinchiusi nella stiva, grufolando fra le provviste, troppo tardi. In entrambi i casi, il senso di responsabilità e la gioia del traguardo rimangono chimere, immagini deboli e incerte, segnate dall’infantilismo. Venticinque anni sarebbe un’età più che sufficiente per fare i bagagli e buttarsi nella mischia. Dopo, è solo una penosa riedizione della famiglia matriarcale (perché i padri, quelli veri, sono assenti da quel dì), che andava bene nel neolitico, ma che oggi è decisamente fuori tempo. E fuori da ogni vero amore per il futuro. Maledetta famiglia.