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Ripensare l’economia alla luce della proposta di Rudolf Steiner

di Francesco Lamendola - 28/04/2010



Il filosofo austriaco Rudolf Steiner (1861-1925), fondatore del movimento antroposofico, è - ed è sempre stato - un personaggio decisamente controverso.
Alcuni lo videro subito, e lo vedono tuttora, come un fumoso e improbabile visionario, come una specie di mistico un tantino allucinato, se non, addirittura, come un vero e proprio impostore; altri, all’opposto, lo considerano come uno dei personaggi più grandi vissuti a cavallo fra XIX e XX secolo, una mente prodigiosa, un autentico maestro spirituale, portatore di una proposta di pensiero e di vita di estrema attualità per il mondo moderno.
La prodigiosa diffusione delle scuole steineriane testimonia che i secondi non sono diminuiti di numero, nel corso degli ultimi decenni; ma che, al contrario, il numero dei suoi estimatori è cresciuto costantemente; anche, è vero, per il diffondersi di una più vasta moda di marca New Age, insieme al vegetarianismo, all’agricoltura biodinamica, alla terapia dei colori e a cento e cento altre cose; ma, se si vuole essere onesti, non solo per tali ragioni estrinseche.
Ciarlatano o profeta?
Paola Giovetti (in «Rudolf Steiner. La vita e l’opera del fondatore dell’Antroposofia», Roma, Edizioni Mediterranee, 1992, pp. 78-79) ne traccia un ritratto nettamente positivo, pur senza cadere nella tendenza acritica e apologetica di certi suoi seguaci:

«Insegnò, dandone personalmente l’esempio, a non vivre passivamente , ma nella maniera più volitiva e creatrice possibile, per progredire, crescere, arricchirsi dentro.
Nelle sue opere descrive l’uomo visibile e quello invisibile, parla della guida spirituale dell’umanità, afferma che la morte è un passaggio dalla vita terrena a quella spirituale e presenta agli Occidentali la dottrina orientale della reincarnazione, che egli considera una necessità cosmica, un meccanismo di assoluta giustizia che dà la possibilità di progredire o anche eventualmente di regredire. Prendendo le mosse dal Goethe, il cui Faust riesce alla fine a sfuggire a Mefistofele al quale aveva venduto l’anima e può salvarsi raggiungendo il Divino, Steiner indica all’uomo il modo per far emergere le proprie qualità spirituali.
Ignorando volutamente le antiche tradizioni che riservano certe conoscenze superiori a pochi eletti, Steiner afferma infatti che ogni uomo può giungere alla conoscenza dei mondi superiori purché sviluppi ali sufficientemente forti per volare fino a tali altezze.  Si veda a questo proposito il suo libro “L’iniziazione”..
Anche se certe affermazioni di Steiner in campo spirituale, per esempio quelle relative alle gerarchie celesti,  oppure quelle sui mondi astrali, possono risultare azzardare e non controllabili, non si può non riconoscere che il suo sforzo per una visione non materiale  del’esistenza fu veramente titanico.
Di fronte al gigantesco affresco in cui Steiner descrive la struttura meravigliosa dell’universo e il ruolo dell’uomo, si resta veramente sbalorditi e affascinati. Steiner parla infatti delle gerarchie esistenti nel cosmo e nella natura, delle entità creatrici di tutto ciò che vediamo crescere e svilupparsi, del ruolo dell’essere umano nell’universo, del suo essere collocato in posizione centrale tra i tre regni terrestri (minerale, vegetale e animale) e i regni superiori, partecipando in questo modo degli uni e degli altri; parla del cammino evolutivo della razza umana, del destino eterno del’uomo, della necessità di considerare questa vita terrena uno degli anelli della catena di esistenze tese a far salire sempre più in alto seguendo l’impulso e l’esempio del Cristo, figura centrale della storia dell’uomo e dell’universo.
Steiner parla inoltre della necessità per l’uomo di andare al di là delle conoscenze puramente intellettuali con cui indaga il mondo sensibile e di accedere, grazie alle potenzialità che gli sono proprie, alla conoscenza del mondo sovrasensibile: tale conoscenza deve poi dare un nuovo, più profondo significato al suo rapporto con il mondo e la vita terrena - un pensiero quindi vivente, dinamizzante,  e non l’arida lettera morta delle conoscenze soltanto orecchiate o libresche, che genera per lo più indifferenza e distacco.
Questo, al di là dei singoli, forse anche discutibili aspetti, mi sembra essere il nocciolo dell’insegnamento steineriano. Un insegnamento quindi che ha molto da dire all’uomo di oggi, che può trovare feconda applicazione in  innumerevoli campi della vita culturale, sociale e religiosa e che fa quindi di Rudolf Steiner un maestro irreprensibile, un autentico iniziato.»

Un altro studioso di occultismo che ha dedicato una ricerca specifica alla vita e alla dottrina di Rudolf Steiner è stato l’inglese Colin Wilson, autore di numerosi e apprezzati saggi nel campo del paranormale e del sapere esoterico.
Nel suo libro «Rudolf Steiner» (titolo originale: «Rudolf Steiner. The Man and his Vision», 1985; traduzione italiana di Leone Diena, Milano, Longanesi & C., 1986, e poi TEA, 1998, pp. 168-170), egli traccia questo bilancio conclusivo, che sicuramente non piace agli steineriani odierni, perché da esso emerge che egli fu quasi costretto a legarsi alla Società teosofica, per ragioni meramente “tattiche”; e che fu grande a dispetto di una certa tendenza a mescolare sogni e fantasticherie con le proprie visioni autentiche.

«Pensiamo ora di capire ora la tragedia vera di Rufdolf Seiner, che è stato uno dei personaggi più grandi del secolo ventesimo, senza esagerare l’importanza di ciò che aveva da dire.  Ma per farsi ascoltare (“Posso ancora tacere?”) ha dovuto compiere il passo pericoloso di farsi profeta e “leader spirituale”. È stato come prendere a nolo una carrozza trainata da una dozzina di cavalli possenti e incontrollabili. Anche un esperto uomo politico troverebbe difficoltà a impedire che si mettano al galoppo. Un “leader spirituale” è già fortunato se può impedire che lo trascinano nella direzione opposta a quella  verso la quale vorrebbe andare. […]
Il grande compromesso di Steiner è stato quello di unirsi alla Società teosofica. Non si può biasimare per questo. Fino allora era un oscuro accademico, che pateticamente si era sentito grato quando un gruppo di operai gli aveva offerto cento marchi per un corso di lezioni. Poi, di colpo, ebbe un pubblico scelto che pendeva dalle sue labbra a ogni sua parola. Nel giro di un decennio, i suoi insegnamenti raggiunsero gli angoli più remoti del mondo. Sulla collina di Dornach si eresse il Goetheanum, simbolo del massimo trionfo dello spirito.  Steiner fece quel che doveva fare, e sarebbe assurdo fargliene una colpa.
Certo il Goetheanum è anche il simbolo di tutto ciò che separa Steiner dal suo potenziale pubblico  odierno. La chiesa visibile dell’antroposofia e le sue scritture comprendono “Dalla cronaca dell’Akasha”, “Considerazioni esoteriche sui nessi karmici”, “Il cristianesimo come fatto mistico”, “La saggezza dei Rosacroce”, “L’avvento del Cristo nel mondo eterico” e centinaia di altri volumi con titoli strani e contenuti stupefacenti.  Per gli antroposofi, e anche per le persone scettiche ma di mente aperta,  sono pieni di visioni importanti. Tuttavia, la loro stessa quantità costituisce un enorme ostacolo tra Steiner e il lettore intelligente.  La straordinaria operosità di Rudolf Steiner è stata autodistruttiva. La montagna di libri, la valanga di idee oscurano la chiarezza e la semplicità della sua visione di base.
Nondimeno, per il lettore che non si lascia scoraggiare, la ricompensa è enorme. »Una volta afferrata la visione di base, possiamo incominciare a capire  la fonte di questa inesauribile energia mentale, e l’ampiezza assoluta della visione di Steiner.  Che importa se ne troviamo una gran parte inaccettabile, o addirittura repellente? Quello che ci attrae è di essere stati in contatto con una mente capace di questa straordinaria qualità di esperienza interiore.
Steiner aveva scoperto un segreto importante. I suoi libri sono affascinanti perché gettano continui lami di luce su questo segreto. Possiamo leggerli criticamente, distinguendo dove Steiner “amplificava” dalle intuizioni genuine, e dove invece amplificava i suoi sogni e le sue immaginazioni. Possiamo concludere che Swedenborg, Blake e Madame Blavatsky avevano tutti sviluppato la stesa facoltà di amplificazione, e che le visioni di Steiner delle gerarchie angeliche  non son più vere delle visioni celesti di Swedenborg, o di quella delle figlie di Albione di Blake. O dei giganti di Atlantide di madame Blavatsky. Ma tutto ciò esula dalla vera questione, che questa visione è un nostro diritto di nascita, e che chiunque riesce ad impadronirsene ha imparato ad attraversare  la soglia dell’universo interiore, altrettanto facilmente quanto superare l’entrata del British Museum.»

Sia come sia, la grandezza di Steiner è tale che nemmeno gli scettici si rifiutano di riconoscerla, pur avanzando - e con pieno diritto - più o meno ampie riserve a proposito di singoli aspetti della sua dottrina spirituale.
C’è tuttavia un aspetto del suo pensiero che non è stato, ci sembra, sufficientemente considerato, almeno da parte degli studiosi che hanno fatto da tramite fra l’opera di Steiner (immensa, come rileva Colin Wilson, e quindi letta da pochissimi al di fuori della cerchia dell’antroposofia) e il grande pubblico: quello economico e, di riflesso, sociale.
Per Steiner, il concetto-chiave per accostarsi al mondo del’economia è “fratellanza”, intesa non nel senso, retorico e astratto, in cui la intendevano gli uomini dell’89, ma in senso concreto e fattivo, come la intendevano, forse, le gilde medievali e le associazioni di mestiere, aventi lo scopo di porre dei limiti all’egoismo degli interessi individuali e a tutelare, attraverso varie forme di intervento sociale e di regolamentazione della produzione e del commercio, l’esigenza suprema del bene comune, ispirandosi al principio della fratellanza evangelica.
Allo stesso modo, il concetto-chiave per comprendere la posizione di Steiner verso la sfera della politica è quello di “uguaglianza”, mentre il concetto-chiave per la sfera della cultura è quello di “libertà”.
Abbiamo aggiunto questa osservazione perché, nella visione di Steiner, l’agire economico, quello politico e quello culturale sono strettamente interrelati e non sarebbe possibile considerarli separatamente, se non operando una forzatura rispetto alla realtà concreta. Il mondo sociale, nella visione olistica di Steiner, è infatti triarticolato:  economia, politica e cultura non sono ambiti separati e distinti, ma tre aspetti di un’unica realtà.
Ciò detto, torniamo alla sfera dell’attività economica e ai suoi inevitabili riflessi sociali; senza dimenticare che Steiner, avendo iniziato la sua brillante carriera di conferenziere per conto di una organizzazione operaia, sapeva che cosa vuol dire rivolgersi ai lavoratori e non solo al pubblico selezionato delle persone colte e nutriva una istintiva fiducia nella possibilità di far comprendere il proprio messaggio anche alle persone semplici e meno istruite.
Così riassume questo aspetto del pensiero di Steiner, in maniera sintetica ma efficace, Raffaello Zonin («Tra patologia e risanamento sociale», in: «Corte all’Olmo notizie», Verona, n. 10, gennaio-marzo 2010, p. 9):

«Quando nella comunità umana una parte della ricchezza prodotta dalla sfera economica non viene consumata e nemmeno reinvestita – in: processi di produzione, dotazione di infrastrutture e servizi sociali o in processi di sviluppo culturale -, prende “altre strade”, che di frequente non sono legate al perseguimento del bene comune. Spesso a prendere le mosse sono, infatti, processi di concentrazione della ricchezza inevitabilmente connessi a spreco di risorse umane e inutile distruzione di risorse naturali, non di rado accompagnati a forme di prevaricazione sociale. Questa affermazione potrà apparire troppo “netta”, tuttavia può essere argomentata senza difficoltà e così pure sviluppata.
Per concorrere alla costruzione di un organismo sociale sano, i soggetti che operano nella sfera economica devono porsi un principio di riferimento guida - non nuovo alla cultura civile europea - che è la fratellanza. Principio secondo il quale nel processo produttivo ogni soggetto economico è chiamato a perseguire un proprio margine di guadagno attraverso l’utilizzo dei fattori produttivi di cui dispone allo scopo di soddisfare esigenze umane reali, che si manifestino sotto forma di una “domanda solvibile” (il fabbisogno di chi è disposto a pagare).
In questa visione, laddove si creano “eccedenze” di denaro - rispetto a quello necessario a consumo e reinvestimento diretto -, queste, affinché non siano fonte di impoverimento sociale vanno messe in circolazione. La forma di utilizzo del denaro, alternativa a consumo e reinvestimento diretto, tuttavia - diversamente da quanto siamo abituati a osservare e pensare - non è solo quella del risparmio (ovvero del prestito effettuato in funzione del tasso di interesse ricavato). Non è detto, infatti, che la valorizzazione del denaro risparmiato e prestato dia origine ad attività favorevoli al bene comune (e quindi al principio di fratellanza) né, nel medio-lungo periodo, favorevoli al bene dello stesso risparmiatore. Molte attività di speculazione finanziaria ne sono un esempio, laddove in funzione di una massimizzazione del tasso di interesse esse inducono al sostegno di attività - quasi sempre sconosciute al risparmiatore - che spesso si rivelano socialmente dannose e talvolta illecite, o concorrono al crollo di iniziative imprenditoriali socialmente utili.
Allo scopo di consentire un processo di sviluppo sociale sano, il denaro “eccedente” le esigenze di consumo diretto e reinvestimento in attività produttive utili deve essere donato, attraverso modalità rivolte ad alimentare quel processo di valorizzazione del talento individuale che è la vera fonte di arricchimento della vita sociale e quindi la vera fonte del bene comune.
Questa indicazione potrà apparire paradossale, ma in realtà trasferisce su un piano più ampio quanto già avviene nel nucleo sociale elementare su cui si fonda la nostra società, la famiglia. In ogni famiglia sana le nuove generazioni vengono sostenute attraverso “il dono” dei genitori, che consente loro di scoprire, coltivare e maturare le proprie “qualità”, i propri “talenti”, fino al punto da poterli tradurre in competenze da riversare nella collettività, per arricchirla arricchendo al contempo se stessa.
Si intuisce come, prefigurando l’applicazione del principio di Fratellanza alla sfera economica, emergano implicazioni sul nostro sistema sociale che andrebbero analizzate e sviluppate, per scoprire probabilmente che esso non sia di facile e immediata applicazione; è tuttavia altrettanto intuibile come questo principio consenta di prefigurare una nuova “direzione” verso cui orientare il nostro sentiero di sviluppo economico.»

L’idea centrale, dunque, della proposta economica di Steiner, è che l’economia non dovrebbe procedere in totale libertà, alla ricerca del massimo profitto individuale (come vorrebbe il liberismo), ma dovrebbe essere subordinata al perseguimento del bene comune. Analogamente alla dottrina sociale cattolica, con la quale presenta notevoli analogie, tale idea non si spinge, però, fino a teorizzare un intervento diretto dello Stato, ma lascia all’educazione e alla cultura il compito di abituare gradualmente le persone a guardare un poco più lontano della punta del proprio naso e a ricordarsi che non si vive per accumulare denaro, ma per perseguire il proprio benessere, prima di tutto spirituale, in armonia con se stessi e con il mondo.
E come in una famiglia i genitori investono tempo, lavoro e sacrifici per promuovere il futuro dei propri figli, mettendoli in grado di studiare per farsi una posizione e per dispiegare il proprio talento, così la società nel suo complesso e specialmente le persone detentrici del capitale, dovrebbero farsi carico di promuovere opere di pubblica utilità e di assicurare un sistema scolastico capace di portare avanti i giovani dotati di talento, anche se privi di mezzi, e questo per il perseguimento del bene collettivo.
Per Steiner, dunque, il grande male è l’accumulo di capitale che non viene impiegato né per migliorare la qualità delle merci, né per essere reinvestito in altre attività produttive; accumulo di capitale che prende la strada della speculazione finanziaria o che finanzia, sotto forma di prestiti ad alti tassi di interesse, le grandi banche, le quali, a loro volta, invece di assicurare condizioni favorevoli ai piccoli risparmiatori, lo utilizzano per operazioni di dubbia trasparenza, perseguendo esclusivamente un ulteriore, illimitato accumulo di capitale.
Non si tratta di una generica, moralistica diffidenza verso il denaro in quanto tale, ma della consapevolezza che, specialmente con i meccanismi finanziari del mondo moderno, una economia così impostata finisce per imboccare il circolo vizioso che renderà i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, nello stesso tempo in cui verranno favoriti gruppi e società senza scrupoli, che operano con il denaro delle persone comuni (il risparmio bancario) per rafforzare illimitatamente le proprie posizioni di potere e creare condizioni di monopolio che si ripercuotono negativamente sul mercato stesso.
Anche se non parlava in termini di signoraggio, Steiner, evidentemente, aveva compreso gli aspetti degenerativi legati allo strapotere delle Banche nazionali riguardo all’emissione della moneta, al sistema dei prestiti e alla sostanziale truffa per cui, in cambio del denaro buono dei piccoli risparmiatori, che è il controvalore di beni e servizi reali, le banche rilasciano titoli e azioni che sono soltanto pezzi di carta legati alle oscillazioni borsa e, quindi, espressione di un’economia artificiale e speculativa.
Sia per questo, sia per la sua ferma convinzione che l’economia non può autoregolamentarsi, ma deve essere posta in stretta relazione con le esigenze della società e del mondo della cultura, ossia con i bisogni spirituali profondi dell’uomo, ci sembra che la proposta economica di Rudolf Steiner abbia ancora qualcosa da dire agli uomini d’oggi, pur a un secolo di distanza da quando venne concepita e formulata, in circostanze così diverse da quelle attuali.