Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Ipazia, sacerdotessa di Sophia

Ipazia, sacerdotessa di Sophia

di Vittorio Sorci - 28/04/2010

    
http://digilander.libero.it/medioevalia/ipazia.jpg


Nella sede dell’Università di Napoli un grande affresco di Vincenzo La Bella mostra, fra le colonne di una chiesa, una donna di adamantina bellezza, seminuda, sulla quale si avventa una folla di assassini, armati di clave e pugnali, benedetti da un vescovo, Cirillo di Alessandria, santo della Chiesa cattolica. È la scena della morte di Ipazia, sapiente pagana, vergine nobilissima, fiore meraviglioso della gentilezza ellenica, famosa per la insigne virtù. La sua uccisione, scrisse il Gibbon nel monumentale “Declino e caduta dell’Impero Romano”, resterà per sempre una “macchia indelebile” sul cristianesimo.
Era il marzo del 415 a.c. poco meno di venticinque anni dopo che Teodosio, imperatore cristiano, non più pontefice massimo, in quanto già il suo predecessore Graziano si era spogliato di tale carica sacerdotale con uno scellerato provvedimento teso a favorire l’assunzione nominale del titolo da parte del vescovo di Roma, aveva deciso che il cristianesimo doveva essere l’unica religione all’interno dei confini della compagine statale romana. Con infausto decreto furono proibiti i culti pubblici: “Nessuno ha il diritto di compiere sacrifici, nessuno frequenti templi, nessuno veneri i santuari”. Le misure repressive furono, poi, estese anche al culto privato: “Nessuno, con un sacrilegio più segreto, veneri il suo lare con il fuoco, il suo genio col vino, i suoi penati con profumi gradevoli, accenda lumi a essi, bruci incenso, appenda corone”. Veniva così rescissa la Pax Deorum su cui era fondato l’Imperium di Roma, avviando lo Stato privo di ogni superiore legittimazione e minato da una religione ostile, a un graduale processo di frammentazione e fatale consunzione, mentre l’Ara della Vittoria, simbolo della forza invincibile dell’Urbe, fu rimossa dalla Curia, l’aula del Senato ove era stata collocata per volere del Padre della Patria, Giulio Cesare Ottaviano Augusto. Il “pacifico” messaggio cristiano fu imposto con la persuasione delle armi ai sudditi dell’Impero, tra sistematiche distruzioni dei luoghi di culto e massacri di coloro che rifiutarono il battesimo, né più né meno di quanto accaduto con Carlo Magno nei confronti dei Sassoni e alle soglie dell’età moderna nei confronti degli amerindi nel Nuovo continente. Ipazia nasce ad Alessandria d’Egitto nel 373 a.c., sette anni dopo la morte di Flavio Giuliano, l’Imperatore che aveva consentito alla fiamma di ritornare ad ardere sulle are, mentre la radiosa nudità di Venere, hominum Divumque voluptas, nuovamente splendeva e le vergini, avvolte in candidi pepli, potevano danzare e intessere ghirlande di rose sulle soglie dei templi.
Fu il padre Teone, famoso per la sua sterminata conoscenza dell’astronomia, a impartire i primi rudimenti di filosofia e scienze esatte alla fanciulla, che già nel nome di “sublime” ed “eccelsa” recava il destino di gloria che l’attendeva. Completata la sua educazione ad Atene, Ipazia tornò in patria e per cultura, eloquenza, bellezza non ebbe pari. Qui quale astronoma, matematica, filosofa, musicologa, medico aprì una scuola in cui insegnava Aristotele e Platone, ma soprattutto a conoscere se stessi, guardando la volta stellata, coltivando la più alta contemplazione come momento di scoperta dell’ineffabile unità divina, senza trascurare i riti ancestrali. Socrate scolastico la indica, dopo Platone e Plotino, come terzo caposcuola del Platonismo, movimento spirituale fondato su tre elementi: metafisico, attraverso l’enucleazione dei piani dell’essere, filosofico, in cui il pensiero riceve la completa spiegazione del proprio ruolo, rituale, con l’esercizio delle azioni cultuali tradizionali in cui l’uomo non è uno spettatore passivo ma il custode di un “mistero” che ha interiorizzato. I neoplatonici concepirono le Deità del pantheon greco-romano come personificazioni di energie. Molteplici sono le figure divine che si dispiegano nell’armonia del mondo, quali intelligenze che presiedono all’ordine cosmico, come afferma Sallustio: ”quelli che creano il mondo sono Zeus, Poseidone ed Efesto, quelli che lo animano, Demetra, Hera e Artemide; quelli che lo armonizzano Apollo, Afrodite ed Hermes; quelli che vigilano Hestia, Athena e Ares.
Ipazia, simile a Minerva per scienza, a Giunone per virtù, a Venere per fascino, si sforzava, allora, di svelare quella divina sapienza che sola poteva consentire all’uomo di ascendere i gradi di manifestazione del molteplice mondo del divenire e risalire alle sue radici, avvicinandosi all’Uno, insondabile e inesprimibile mistero. Pallada, in un epigramma, espresse la comune ammirazione che il popolo di Alessandria le tributava:”Quando io ti vedo e odo la tua voce ti adoro, guardando la casa astrale della Vergine: poiché i tuoi atti si estendono al cielo, o divina Ipazia, ornamento di ogni discorso, stella purissima dell’arte della sapienza”.
L’insegnamento filosofico di Ipazia è andato perduto, essendo rimasti soltanto i titoli di tre suoi scritti di argomento matematico e astronomico.
Ma è soprattutto quale guida spirituale che emerge il ruolo indiscusso di Ipazia, come è lecito dedurre persino dalle parole di un vescovo cristiano, Sinesio, che fu suo discepolo, dalle quali traspare tutta l’adorazione per la maestra, al seme della cui saggezza si nutriva l’Egitto: “Salute alla donna più onorata e amata da Dio, salute o filosofia; salute a quel felice sodalizio della comunità che gode della benedizione della sua voce divina”.
Ipazia era considerata alla stregua di un oracolo per la sua saggezza, il che la portò ad essere consultata da Oreste, prefetto romano di Egitto, in ogni occasione importante. Ciò la condusse dinanzi a grandi folle di uomini, senza che fosse posta in alcun dubbio la sua virtù, come ricorda Socrate lo storico: “A ragione della sicurezza e dell’autorità che ella guadagnò con la sua cultura, a volte andava dinanzi ai giudici con singolare modestia, né ella si vergognava di presentarsi così dinanzi a una riunione di uomini, perché tutti, a causa della sua straordinaria discrezione, le mostravano a un tempo riverenza e ammirazione”.
Contro la eloquentissima Ipazia, la cui scuola diveniva sempre più fiorente, la cui parola e la cui bellezza sempre più trascinanti, esercitando un’attrazione crescente in particolar modo tra i giovani, si accrebbe l’odio dei seguaci della nuova religione di salvezza, tanto più perché la sapiente per l’indole della sua educazione e a ragione della sua cultura era naturalmente versata a stigmatizzare apertamente la bieca e cieca intolleranza che aveva condotto i cristiani nella loro evangelica ansia di propagare la buona novella ad accanirsi su Alessandria, distruggendo sia il meraviglioso tempio di Serapide, sia la più grande biblioteca del mondo, in cui è stato stimato fossero raccolti oltre cinquecentomila testi.
Nel 412 a.c. si accomoda sulla sedia episcopale di Alessandria Cirillo, uomo di fanatismo cieco, di impulsi violenti e forsennati. Era vissuto nel deserto, di macerazioni e digiuni. Aveva predicato tenendo gli occhi sulla città. Un solo proposito lo animava: sradicare la pianta del paganesimo. La sua via fu segnata di sangue. Dapprima si volse contro la setta dei novaziani, ne proscrisse il culto e ne perseguitò i proseliti. Poi si accanì sugli ebrei, ordinando l’assalto alle sinagoghe. L’autorità civile non era in grado di porre un freno ai disordini, né di impedire gli eccidi, seppure tentò di limitare la sfera di influenza episcopale. Contro il rappresentante del potere imperiale lanciò, allora, la sfida Cirillo, incitando i monaci, che vivevano sulle montagne della Nitria, a riversarsi in città e ad aggredire Oreste, governatore di Roma, che a stento si salvò per l’intervento in soccorso del popolo di Alessandria. La reazione dello Stato, che inflisse una dura punizione ai colpevoli dell’attentato, fu il pretesto che Cirillo colse per ordire l’assassinio di Ipazia, considerata l’ostacolo maggiore all’evangelizzazione di Alessandria. Così il vescovo chiamò nuovamente a raccolta i monaci che, come riporta Eunapio, “erano sì uomini, nell’aspetto esteriore, ma porci nella loro vita interiore; essi commettevano apertamente migliaia di crimini esecrabili, indegni persino di essere nominati. Chiunque indossasse un abito nero, e fosse solito fare figure grottesche in pubblico, otteneva un’autorità tirannica: a una tale reputazione di virtù arrivavano siffatti uomini!”.
Un giorno, mentre la filosofa percorreva una delle vie della città, la turba di fanatici l’assalì e la trascinò in una chiesa del suburbio. Qui, dopo averla denudata selvaggiamente, le cavarono gli occhi, le straziarono con dei cocci aguzzi le membra, le fecero a brani e le gettarono al fuoco fino a ridurle cenere. Così morì Ipazia, “la creatura celeste – come scrisse Chateaubriand – che viveva in compagnia degli astri, che ella uguagliava per la beltà, e dai quali aveva ricevuto le più sublimi influenze”.
L’atroce crimine perpetrato con l’assassinio di Ipazia segnò il tramonto della dignità stessa della donna, nel mondo antico ispiratrice di pensieri elevati e maestra di sapere. Teano, moglie di Pitagora, era stata famosa per la semplicità austera dei suoi precetti. La bella Aspasia ebbe potente influsso su tutta la scuola socratica, conferendo un profumo di signorilità ed eleganza ai severi convegni. Giovanissima e bellissima, Arete successe a suo padre Aristippo nella direzione della scuola cirenaica. Una donna di elevata intelligenza, la leggiadra Temista, fu devota a Epicuro, che ne ammirò il sapere e la virtù. In tempi più vicini a Ipazia, Gemina e Anficlea accorsero alla scuola di Plotino. Senza dimenticare le donne eccezionali per cultura, carisma e fascino che Roma nella sua millenaria storia poté vantare, dall’etrusca Tanaquilla, consorte di Re Tarquinio Prisco, a Cornelia, la madre dei Gracchi, alle Auguste Livia Drusilla e Pompeia Plotina, entrambe divinificate al termine dell’esperienza terrena. Ipazia fu l’ultimo splendido fiore di questa primavera di pensiero e di gloria, prima che alla donna fosse concesso per sua salvezza soltanto di ritirarsi nelle ombre di un chiostro a trascorrervi una vita di macerazione e silenzio. Il persecutore di Ipazia vedeva in lei incarnato lo spirito stesso del peccato, in lei che con la forza dell’armoniosa bellezza conquistava i cuori e con la potenza della parola rendeva ancor più caro e venerabile il culto avito.
Come Osiride fatto a pezzi dal malefico Seth doveva risorgere e fecondare la terra bagnata dal Nilo, così il sacrificio di Ipazia doveva confermare l’inestinguibile forza del neoplatonismo con il suo nucleo esoterico iniziatico di origine pitagorica, che, ancora mille anni dopo, con Giorgio Gemisto Pletone, degno erede della sapienza classica, contribuì al risveglio della Tradizione patria nella Saturnia Tellus, il Rinascimento.
A ragione, allora, nel dipinto raffaelliano de La scuola di Atene compare l’immagine di Ipazia e il suo volto, nella Primavera del Botticelli è quello di Flora, che accompagna chi la venera per i verdi sentieri della realizzazione spirituale.