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Slow Food è di destra o di sinistra?

di Gigi Padovani - 28/04/2010


Quando nacque, nel 1986, si chiamava ArciGola ed era una costola dell’associazione culturale più di sinistra. Poi, crescendo, ha avuto da Enzo Ghigo i primi finanziamenti per lanciare il Salone del gusto al Lingotto. Quindi Letizia Moratti, da ministro dell’Istruzione, ha appoggiato la nascita dell’Università di Scienze gastronomiche a Pollenzo, nel 2004. Infine, i ministri dell’Agricoltora di centro-destra Alemanno e Zaia ne hanno sempre sostenuto le idee, fino a diventare amici personali di Carlin Petrini (nella foto) 

Il  movimento Slow Food, dunque, è di destra o di sinistra? È aperto all’innovazione e alle nuove idee della «green economy» obamiana, sostiene il saggio di un giornalista inglese, Geoff Andrews, da pochi giorni in libreria con il Mulino (Slow Food, una storia tra politica e piacere). No, è un movimento «intrinsecamente antiprogressista, antiscientifico, idolatra delle società tradizionali, delle piccole comunità statiche e immutabili», replica il pamphlet di Luca Simonetti, pubblicato da Pagliai editore, che critica radicalmente (per la prima volta) il movimento della chiocciola, con il suo Mangi chi può, meglio, meno e piano.
 
Per il movimento sorto tra Langhe e Roero negli Anni 80, diventato mondiale grazie all’idea di Terra Madre, assemblea che si ripeterà a novembre a Torino, c’è un’attenzione che va dunque a scavare le radici di un’ideologia che - come scrive Simonetti, docente di diritto alla Sapienza di Roma - ormai è condivisa «da buona parte dell’opinione pubblica e delle forze politiche italiane»: un fatto che secondo il giurista è un sintomo dell’«inarrestabile e gravissimo degrado della cultura, della politica e della discussione pubblica nel nostro Paese». Lo stesso Manifesto che rivendica la lentezza come ragione costitutiva dei seguaci di Petrini per Simonetti è chiaramente ispirato a quello di Marinetti sul futurismo, tanto che banalizza persino un grande maestro della storiografia progressista come il francese Fernand Braudel, perché «identifica la civilisation matérielle con i piaceri della vita». Ma c’è di più: è sbagliato dire, come fa Slow Food, che la «gastronomia è scienza», mentre l’idea delle «comunità del cibo» viene identificata come un «guazzabuglio di vaghezze» che prende più spunto da un utopista ottocentesco come l’inglese John Ruskin che da Karl Marx, che anzi ne criticava le idee.

Tutt’altro il tono di Andrews, docente alla Open University inglese, il quale pensa che la chiocciola abbia saputo offrire un’alternativa credibile alla globalizzazione e alla «fast life» e racconta degli intellettuali  new left americani che hanno seguito il pifferaio magico di Bra. Come Alice Waters, la cuoca californiana che è riuscita a far impiantare un orto nella Casa Bianca a Michelle Obama, ricordando come nel Congresso di Puebla del 2007, in Messico, Petrini per prima cosa difese i contadini dello Stato di Tabasco colpiti da un’alluvione: secondo lo scrittore inglese, un tipico atto da «globalizzazione virtuosa», di un movimento che ha saputo mettere radici in Paesi con tradizioni e culture tanto diverse, come gli Stati Uniti, la Germania, la Romania post-comunista o la Gran Bretagna. 

E Petrini come reagisce di fronte a questo dibattito ideologico? Ribadisce, come ha sempre fatto, che le «categorie della vecchia politica non sono applicabili» al suo movimento, mentre di fronte alla critica di sostenere tesi «anti-scientifiche» replica che ci deve essere dialogo tra scienza e saperi contadini, non contrapposizione. Se poi però si scava un po’, ecco che emerge forse un Carlo Petrini con simpatie sempre più «right wing», vicine al centro-destra. Così rivendica gli orti ecosostenibili dell’Expo 2015 di Milano, che «guarda caso - dice - sono stati varati da una governance non certo di sinistra, dalla Moratti a Formigoni, sulla base della nostra proposta». E ricorda un viaggio in Gran Bretagna, dove ha incontrato il conservatore Cameron. «L’ho visto in un “farmer market” londinese e mi ha fatto un’ottima impressione. Anche la rivista Ecologist ha evidenziato che su questi temi il guerrafondaio Blair è stato assente. Devo dire che questo libdem, questo Clegg, mi piace molto... chissà, sarà che sono diventato conservatore anche io?».