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Crisi dopo crisi

di Gianfranco La Grassa - 29/04/2010



Per l’ennesima volta si acutizza la crisi finanziaria; si leggono sfilze di segni negativi delle borse, più o meno eguali a quelli di molte altre volte; si parla dei soliti tot (ieri 160 miliardi) volatilizzati. Si fanno di nuovo vivi i soliti “esperti” (fra cui gli economisti, che un anno fa Tremonti smerdò in una riunione, se non ricordo male, all’Aspen; oggi mi sembra che anche lui se ne sia scordato) che blaterano, cianciano, spiegano come hanno finalmente scoperto l’acqua calda; le solite litanie già udite mille volte, ivi compresi i rimedi che bisogna prendere se non si vogliono avere sorprese ancora più spiacevoli. Tutte cose già fritte e rifritte mille volte. Non voglio atteggiarmi ad esperto, anzi desidero nascondere anche quelle poche nozioni che ho su certi temi per non confondermi con questi “geni”. Nemmeno voglio sottovalutare la nuova fiammata della crisi.
A me pare comunque di avere detto più volte che l’impressione è quella di entrare in una delle epoche di “grande trasformazione”, dolorose quant’altre mai se qualcuno ricordasse la storia. Nessuno si sovviene più del periodo di quella che Marx chiamò “accumulazione primitiva del capitale”, della “prima rivoluzione industriale”, della “seconda rivoluzione industriale”, che in realtà fu l’epoca policentrica del declino inglese e dell’ascesa di Usa, Germania e Giappone, con il loro prolungato scontro per la supremazia. Si tirano solo in ballo le disfunzioni finanziarie dovute a banchieri imbroglioni; i critici critici (i peggiori dei quali sono purtroppo i residui putrefatti del marxismo dottrinario) parlano ancora una volta di collasso del capitalismo; una banalità tira l’altra, nessuno che tiri fuori un’idea meno peregrina, nessuno che sappia ripensare il passato guardando ai connotati nuovi secondo cui esso si presenta.
Scontiamo ancora due colossali imbecillità, entrambe prodotte da gentucola che si è presentata come “progressista”, come lanciata verso il futuro. La prima è stata quella della fine degli Stati nazionali. Oggi, si dice, sono tornati. Tornati un c….; non erano mai spariti, solo soffocati dall’altra idiozia: l’europeismo di una Europa amorfa, senza più identità. L’unico proposito che non annullasse la nostra area sociale ed economica fu bollato – da una massa di perfetti cretini, di cui feci parte anch’io, ma solo fino ad un quarto di secolo fa o giù di lì – come reazionaria, quasi fascista. Era l’Europa delle patrie di De Gaulle, che almeno prendeva atto che l’unità europea non doveva prescindere dal mantenimento e valorizzazione degli aspetti più vitali delle diverse formazioni nazionali, con la loro lunga storia alle spalle.
Il crollo del falso “socialismo” fece si che una nuova parte d’Europa venisse annessa ad un organismo senza storia e nato già spento, forse addirittura morto. Con la solita mentalità di tecnici privi di cultura, di vero spessore politico – che riconosce il valore stimolante della competizione e della composizione degli interessi, non fingendo un’unità di pura facciata; lasciando invece che essi possano esprimersi perfino nei loro toni a volte accesi – si è creduto che formare un’area monetaria comune fosse già un gran passo avanti, da corredare con organismi detti unitari di stampo solo burocratico, pienamente anonimi, piatti, ottusi. E’ ovvio che tale appiattimento consentisse l’emergere di gruppi di vertice totalmente distaccati dalle effettive realtà nazionali, vero tramite quindi dell’influenza predominante dell’unico Stato nazionale, che funzionò secondo i suoi caratteri reali di potenza; evidentemente gli Usa.
Non cerco di sostenere che la crisi nasce da questa Europa invertebrata. Constato semmai una semplice coincidenza: l’inversione della tendenza geopolitica all’inizio del secolo (tra il 2001 e il 2003) – caratterizzata soprattutto dal ritorno (questo, si, un ritorno) della Russia quale potenza, sia pure ancora di secondo piano, con l’avvio di una nuova fase multipolare (non ancora veramente policentrica) – ha di poco preceduto la crisi, esplosa nel 2008 (dopo un periodo non breve di incubazione) e che continua a ripresentarsi perché mai riconosciuta come espressione di un’autentica epoca di trasformazione della struttura politica (dei rapporti di forza) a livello mondiale. Data questa situazione internazionale, la crisi è occasione da sfruttare. E la deve sfruttare soprattutto l’Europa, in cui i vari Stati nazione (i principali ovviamente) hanno l’opportunità di ripresentarsi per quello che sono. Qualche sussulto esiste in alcuni paesi; qualche sussulto si nota perfino in Italia.
E’ ormai necessario parlare sempre più chiaramente. I tecnici devono essere messi a cuccia; chi insiste – e non a caso è oggi soprattutto Obama; et pour cause – nel parlare di economia e finanza vuole semplicemente protrarre la piattezza e assenza di caratteri specifici della sedicente Europa Unita, per continuare a dominarla tramite le torme di parassiti che ivi allignano; come sempre in un’epoca di “grande trasformazione”. Bisogna rimettere la politica al posto di comando. Termini che furono di Lenin e di Mao. Non dico questo per banale orgoglio di appartenenza, ma solo perché c’è gentaglia che si finge erede di quel passato, e tuttavia sbava per dimostrare che tutto è legato agli andamenti della crisi economica. Sono quelli della “sinistra”, sia “progressista” sia “anticapitalistica e antimperialistica”, che usano le loro liturgie menzognere – la prima ossequiosa ai propositi di riforma della finanza, di nuova etica, ecc., la seconda fingendo il fallimento del capitalismo – per sostenere la predominanza del fattore economico, con ciò appoggiando il predominio statunitense sull’Europa anonima priva di storia e cultura.
La situazione è complessivamente pessima. Tuttavia, si tratta anche di un’occasione – se prevale l’opzione politica – per cominciare a giostrare, seguendo anche propri interessi, nel conflitto multipolare solo all’inizio. Devono però essere spazzate via le organizzazioni dell’europeismo livellatore, “progressista”. La crisi dovrebbe essere motivo per scatenare una lotta accanita contro di esse, che assicurano soltanto il nostro asservimento con definitiva perdita di identità. Lotta culturale, certo; con la consapevolezza, però, che la svolta arriverà solo quando si formerà una forza politica capace di potenza, da opporre a quella dei sicari degli Usa: gli europeisti “progressisti” (termine usato sempre ironicamente, spero lo si sia capito). In ogni caso, vi è un preciso segno indicatore della direzione che verrà presa nell’ambito dei vari paesi europei, una volta che essi ritrovino la vocazione nazionale: la politica estera nei confronti delle potenze in crescita a est, ma soprattutto verso la Russia.
E che ciancino pure i banditi dell’antimperialismo indifferenziato e unico, che invitano a mettere tutti sullo stesso piano – ma poi sputano speciale veleno sugli incontri tra Berlusconi e Putin – perché sono solo dei piccoli imbroglioni del gioco delle tre carte. Appoggiano in realtà gli Stati Uniti, molti di loro sono pagati dalle fondazioni e organizzazioni varie di tale paese; sono sicari e banditi, di piccolo taglio, ma non per questo da ignorare del tutto.