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Viaggio nel mondo della Transizione

di Ellen Bermann - 04/05/2010




Tempi di cambiamento, tempi di transizione. Continuiamo il nostro viaggio nel movimento britannico delle Transition Towns e conosciamo meglio i suoi protagonisti. Rob Hopkins è il co-fondatore del Transition Network, la rete che in Gran Bretagna sta coordinando il movimento, oltre che della Transition Town Totnes, prima città in transizione sul suolo britannico. Hopkins, padre di 4 figli, per molti anni è stato insegnante di permacultura e di costruzioni naturali, principalmente quando viveva ancora in Irlanda. E proprio a Kinsale, in Irlanda, ha iniziato a maturare le prime riflessioni sulla transizione, che poi sarebbero sfociate nel piano di discesa energetica per la cittadina che lo ospitava, e successivamente nell’idea della Transition Town (città in transizione). Attualmente vive a Totnes, nel Devon, e si dedica appassionatamente all’orticoltura. Scrive e propone conferenze sul tema della transizione. Cura il sito www.transitionculture.org ed è autore del libro Transition Handbook (Green Books, a breve Arianna Editrice per l’edizione italiana), una guida che identifica i principi e gli assunti su cui si basa l’approccio Transition Town e che racconta le diverse esperienze in atto. Rob, che ha vissuto in Italia per tre anni durante i primi anni Novanta, nutre ancora oggi una profonda passione per il nostro Paese.

Cosa rende il modello transizione così potente e coinvolgente per le persone?
Rob Hopkins: Penso che sia il fatto che il punto da cui parte non è quello di instillare sensi di colpa e paure nelle persone, ma piuttosto di favorire la riflessione su come si potrebbe articolare una sorta di ottimismo impegnato. Se si crea un modello basato su un ottimismo impegnato si fornisce qualcosa per cui le persone hanno una sete tremenda. Quando vivi in un mondo in cui sei circondato costantemente da brutte notizie, statistiche ed informazioni deprimenti, queste ti impediscono di vedere una via d’uscita. L’approccio Transition Town fornisce alle persone un percorso che possono seguire ed una serie di strumenti che permettono loro di riprendersi un minimo di controllo sui cambiamenti che avverranno nei prossimi 10-15 anni. Penso che una delle ragioni per cui il movimento stia crescendo così velocemente è data dal fatto che sta colmando una sorta di vuoto. Le principali organizzazioni ambientaliste si sono sempre focalizzate su campagne “contro” qualcosa: la distruzione globale degli ecosistemi, il riscaldamento globale, e così via. Mancava però uno sforzo per identificare una visione del “come il mondo potrebbe essere”: il modello Transition funziona o sembra di funzionare – non siamo ancora sicuri che effettivamente funzioni! – perché coinvolge veramente le persone, offrendo loro un percorso possibile e positivo. Si tratta di un invito ad essere parte di un qualcosa di grande importanza storica.
Non diciamo mai: “ecco il modello, funziona, prendilo e mettilo in atto, perché è fantastico”. È un processo di apprendimento continuo e condiviso, in cui il modello Transition e gli strumenti sono continuamente rivisti e ritoccati attraverso una serie di interazioni. Il tutto è partito dal percorso di discesa energetica elaborato per Kinsale (Irlanda) sul quale poi tantissime persone hanno fornito i propri commenti. Poi è stato redatto il “Primer” (una bozza sulla transizione) a cui nuovamente le persone hanno contribuito con utilissime aggiunte. È un percorso, un invito a contribuire con la propria creatività.

Dopo il grande successo delle Transition Towns nel Regno Unito, il modello inizia ad essere esportato. Quali sono le principali sfide ed opportunità di questo modello applicato in altri Paesi ?
Penso che una delle maggiori sfide sia quella di rettificare la percezione che la transizione si sia già compiuta al 100% in Gran Bretagna, mentre è tuttora un’idea emergente ed un movimento molto giovane. Transition in realtà significa una serie di principi, strumenti, risorse e persone di una comunità che li stanno sperimentando.
Certamente, per proporre il modello in altri Paesi, dobbiamo tenere presente la questione della traduzione, primariamente in termini di lingua, ma anche in termini di cultura. Al momento il tutto è principalmente focalizzato sul mondo anglosassone: Regno Unito, Nuova Zelanda, Australia, Stati Uniti d’America e poi sempre di più anche in altri Paesi e lingue Europee. Ora ci si potrebbe interrogare su come il tutto potrebbe essere nel contesto dei Paesi in via di sviluppo, come potrebbe funzionare e come tradurlo. Nei Paesi sviluppati abbiamo distrutto gran parte della nostra resilienza, in particolare per quanto riguarda i sistemi alimentari e quindi la produzione di cibo. Certamente noi nel Regno Unito lo abbiamo fatto in modo ancora più efficace di quanto non lo abbiate fatto voi in Italia, in Francia e così via. Se poi riflettiamo sulla Cina e l’India, dove i sistemi agricoli ed i sistemi di rifornimento locali si trovano a dover subire una pressione ed un attacco molto forti, arriviamo alla conclusione che in quei contesti il tutto dovrà essere affrontato in modo alquanto differente.



Intervista di Ellen Bermann pubblicata sul Consapevole n°18