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Il dramma ellenico e l’Europa spezzata

di Lucio Caracciolo - 04/05/2010

   
 
 
 
 
 
La crisi economica della Grecia rappresenta l’occasione per interrogarsi sul significato attuale dell’identità e dell’unità europea.
La Grecia era un tempo considerata, con i Balcani, la porta dell’Europa, anzi fu proprio in Grecia che il concetto di Europa vide la luce. In seguito a svariate vicende storiche di cui gli altri paesi europei non sono certo estranei, la Grecia e i Balcani vengono considerati oggi come un’area marginale, quasi al di fuori del continente europeo. Anche per questo i problemi economici di questo paese sono percepiti in maniera distaccata e non vengono sentiti come propri dagli altri stati europei.


In principio Europa erano i Balcani. O meglio, ciò che noi chiamiamo oggi Penisola Balcanica. Nella mitologia degli antichi popoli che solcavano l’Egeo, “Europa” era infatti il nome delle terre a occidente del Bosforo, “Asia” di quelle a oriente.
Nel tempo, Europa e Balcani sono diventati, da sinonimi di fatto, termini culturalmente antitetici. Con il primo a significare ogni virtù morale e civile, il secondo a evocare un rompicapo di etnie irrequiete e solipsiste, destinate a combattersi in guerre infinite per le quali poi chiameranno a pagare il conto gli europei “veri”: l’Europe européenne cara ad alcuni intellettuali francesi, ben distinta dalla Turquie d’Europe, ossia dai Balcani – Grecia inclusa – marchiati dalla plurisecolare dominazione ottomana. Accade così che i cittadini dell’odierna Repubblica Ellenica, che non cessano di proclamarsi eredi di coloro che inventarono il magico nome “Europa”, occupino nelle mappe mentali degli europei che contano (tedeschi innanzitutto) un angolo alquanto periferico. Quasi extraeuropeo. Molto balcanico. […]
Il caso greco è un eccellente rivelatore della disunione dell’Unione Europea. Dei pregiudizi – o postgiudizi, a seconda dei punti di vista – che continuano a segnare i rapporti fra i popoli e i paesi che la compongono. Come in qualsiasi crisi, nessuna esclusa, la nostra Unione si divide. È accaduto in (non) risposta alla crisi prima finanziaria, poi economica e sempre più sociale, tracimata da Wall Street verso il resto del mondo nell’estate-autunno 2008. Ancor più in queste settimane di eccitata discordia intorno a come impedire che il malato greco diffonda il suo morbo ad altri pazienti, dal Portogallo alla Spagna all’Irlanda o financo all’Italia (i famigerati “Piigs”).
Dieci anni dopo il suo lancio, l’euro affronta un incerto futuro all’insegna dell’epidemia che potrebbe diffondersi dal fallimento di Atene. Default da impedire, o almeno rinviare, con un pacchetto di aiuti intorno al quale si affannano gli altri Stati dell’Eurozona e il Fondo monetario internazionale – un’umiliazione per gli europeisti doc.
Eppure, malgrado il dramma ellenico in pieno corso, nessuno intende affrontare il problema alla radice: una moneta senza Stato non è mai esistita, e per ottime ragioni. La disomogeneità anche geopolitico-culturale dell’area economica e monetaria su cui l’euro insiste è destinata prima o poi a riprodurre gravi crisi, che alla lunga potrebbero mettere in discussione l’esistenza stessa della divisa partorita a Maastricht. Si pensi inoltre alla latitudine di manovra che hanno oggi la Banca centrale britannica piuttosto che quella americana, abilitate a battere moneta per finanziare i rispettivi deficit statali, rischiando una prossima inflazione, ciò che alla Banca centrale europea è espressamente impedito.
Peggio: la crisi greca tocca un’economia che non ha serie prospettive di crescita. I mercati lo sanno benissimo, così mettendo a repentaglio le risorse europee e internazionali che saranno devolute a impedire il collasso dei conti pubblici di Atene. Uno scenario che i critici dell’euro, a cominciare dai vertici della Bundesbank, avevano prefigurato già negli anni novanta. Senza però convincere i leader politici, Kohl in testa, che scommettevano sulla “moneta unica” in base ai loro criteri, non propriamente tecnici.
Se cancellerie e mercati avessero la memoria lunga, ricorderebbero poi come la Grecia moderna non sia nuova alla tutela finanziaria delle potenze continentali. Fin dalla sua nascita come Stato nazionale, favorita dalle infusioni di denari britannici e non solo dai sacrifici eroici di Lord Byron (1821) o Santorre di Santarosa (1825). A coronare il senso della tutela esterna, il primo monarca della Grecia redenta dalla presa ottomana era il bavarese Ottone di Wittelsbach. E nel 1898, dopo la disastrosa sconfitta subìta l’anno prima per mano turca – che seguiva la bancarotta annunciata in Parlamento il 10 dicembre 1893 dal primo ministro Charìlaos Trikoupis con le celebri parole «Purtroppo, siamo falliti» – s’installarono ad Atene i messi della Commissione internazionale di controllo. Austria, Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Russia assoggettavano così alla loro sorveglianza le finanze pubbliche greche.
Ancora una volta i denari stranieri significavano influenza straniera. Peraltro, sia pur ridenominato, il controllo esterno sulla Grecia sarà formalmente abolito solo nel 1978, tre anni prima dell’ingresso di Atene nella Comunità Europea, ventitré prima dell’ammissione fra gli eletti dell’euro.
Oggi i tedeschi e altri europei “virtuosi” chiedono misure draconiane alla Grecia, sull’onda di opinioni pubbliche più che mai attente al particulare. Frau Merkel sarà rigida, come lamentano non solo i greci, ma è difficile pretendere da un leader democratico dei nostri tempi di trascurare il sentimento dei quattro quinti dei suoi elettori, indisponibili a sborsare un soldo per Atene. Viene solo da chiedersi, in questo contesto, che cosa significhi oggi la parola “Europa”. Se significa qualcosa.