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Suicidi di guerra

di Michele Paris - 06/05/2010


Al già cospicuo numero di soldati caduti in combattimento nella “guerra al terrore” inaugurata nell’autunno del 2001, le forze armate statunitensi devono aggiungere un’altra drammatica statistica che si sottrae spesso all’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. A preoccupare i vertici politici e militari di Washington c’è, infatti, il numero sempre crescente di suicidi commessi dai reduci dei conflitti in Afghanistan e in Iraq. Nonostante i ripetuti tentativi di negare il nesso tra il disagio che conduce a gesti estremi e i metodi di addestramento e le esperienze traumatiche vissute sul campo di battaglia, appare evidente come sia proprio lo sforzo bellico degli USA a produrre conseguenze devastanti sulla psiche di migliaia di giovani americani e sui destini delle loro famiglie.

Secondo le cifre ufficiali, a partire dall’invasione dell’Afghanistan fino all’estate del 2009, l’esercito americano ha perso 761 soldati in combattimento. Nello stesso periodo, il numero dei militari in servizio che si sono tolti la vita ammonta invece a 817. Più nel dettaglio, come ha rivelato un recente articolo del settimanale Army Times basato sui dati del Dipartimento degli Affari per i Veterani, in media i reduci che tentano il suicidio ogni mese sono 950. Questo numero, peraltro, considera esclusivamente quei veterani che ricevono una qualche assistenza psicologica dallo stesso dipartimento governativo. Ancora, il sette per cento dei tentativi di suicidio vanno a buon fine, mentre l’undici per cento di quanti non riescono e togliersi la vita la prima volta, riprovano nuovamente entro nove mesi. Complessivamente, sono 18 i reduci delle guerre americane che si suicidano ogni giorno.

A sottolineare la gravità della situazione e l’inutilità dello sforzo delle alte gerarchie dell’esercito per porre un freno a questa strage silenziosa, c’è poi il progressivo aumento del numero dei suicidi negli ultimi anni. Il tasso di suicidi tra i militari dal 2001 al 2006 è addirittura raddoppiato, malgrado tra la popolazione civile sia rimasto invariato. Nel 2009, 160 militari in servizio attivo si sono tolti la vita, contro i 140 del 2008 e i 77 del 2003. L’accesso alle cure del Dipartimento dei Veterani sembra avere una certa incidenza sul contenimento del numero dei suicidi. Anche tra di essi, però, lo scorso anno si sono registrati oltre 1.600 tentativi e la hotline dedicata, istituita dal Dipartimento, riceve qualcosa come dieci mila richieste di aiuto ogni mese.

Uno dei fattori scatenanti questo malessere diffuso è senza dubbio il ripetuto invio dei soldati nei teatri di guerra e il conseguente accorciamento del periodo di riposto (“dwell time”) di un esercito interamente composto da volontari. Per la maggior parte della durata dei conflitti in Afghanistan e Iraq, la smobilitazione momentanea dei soldati impiegati al fronte è stata di un anno, mentre attualmente è stata estesa a poco meno di due anni. Secondo gli psicologi, tuttavia, sarebbero necessari almeno tre anni per alleviare lo stress prodotto dal servizio in una zona di guerra. L’unica soluzione - a parte il ritiro di tutte le truppe - sarebbe dunque quella di aumentare ulteriormente il numero dei soldati inviati al fronte, una strada difficilmente percorribile vista l’impopolarità delle due guerre attualmente sostenute dagli Stati Uniti.

La risposta all’ondata di suicidi da parte della autorità militari e politiche si è finora limitata, nel migliore dei casi, all’impiego di una schiera di psicologi. In molti casi, però, si continua a fare ricorso soltanto a massicce prescrizioni di farmaci che stanno creando numerosissimi casi di dipendenza. Una delle vicende più sconcertanti è stata portata alla luce da un articolo del New York Times, nel quale venivano descritte le condizioni in cui versavano i reduci ospedalizzati presso una struttura dell’esercito a Fort Carson, nel Colorado. Qui, come in altre strutture, i soldati venivano praticamente lasciati a loro stessi, trattati a psicofarmaci e liberi di accedere ad alcool e sostanze stupefacenti.

Se la connessione tra lo svolgimento del servizio in situazioni di fortissimo stress in zone di guerra e l’alto tasso di suicidi appare sufficientemente chiaro, non così sembra ai comandanti militari. In una audizione al Senato a marzo, infatti, il responsabile della sanità per l’esercito americano, generale Eric Schoomaker, aveva attribuito il fenomeno in gran parte alle precedenti situazioni familiari problematiche dei soldati stessi. Situazioni che effettivamente ricorrono molto spesso nei casi di suicidi, ma quasi sempre create proprio dall’impatto psicologico dovuto allo svolgimento del servizio in una zona di guerra.

Le difficoltà dei vertici militari a riconoscere pubblicamente le ragioni di una tale situazione traspaiono anche da molte altre dichiarazioni ufficiali. Tra di esse, quelle del numero uno dell’esercito, generale George Casey, di fronte ad una commissione della Camera dei Rappresentanti, e del Segretario dell’Esercito, John McHugh, al Senato. Il primo non riusciva a capacitarsi del fallimento dei provvedimenti messi in atto per prevenire il dilagare dei suicidi, mentre il secondo faticava a comprendere le ragioni di questi gesti disperati. Per entrambi, c’è da credere, i motivi vanno infatti ricercati in una condizione “patologica” precedente all’arruolamento piuttosto che nelle condizioni estreme in cui i soldati vengono addestrati ed impiegati sul campo.

Proprio le tecniche di addestramento sono state prese in considerazione da uno psicologo dell’Università del Texas ed ex ufficiale dell’aeronautica americana. Secondo il professor Craig Bryan, i militari si troverebbero cioè vittime di una situazione senza via d’uscita. “Addestriamo i nostri combattenti all’uso controllato della violenza e dell’aggressività, a reprimere qualsiasi reazione emozionale troppo forte di fronte alle avversità, a sopportare il dolore fisico ed emotivo e a superare la paura delle ferite e della morte”, ha affermato Bryan in un’intervista a Time.

Queste cosiddette qualità, mentre risultano necessarie in combattimento, “sono associate al rischio di suicidio. Esse non possono essere rimosse senza avere conseguenze negative sulle capacità dei nostri militari in guerra”. Il suicidio, in sostanza, per i militari non sarebbe altro che un inevitabile inconveniente del loro stesso mestiere. L’esperienza della guerra, inoltre, contribuisce a diminuire la paura della morte. E il facile accesso alle armi può risultare fatale.

Per quanto sia la più drammatica, il suicidio non è l’unica conseguenza negativa che attende i veterani dell’Iraq e dell’Afghanistan una volta rimpatriati. Per molti di essi, il trauma della guerra si traduce in enormi difficoltà di reinserimento nella società civile. Tra i reduci americani, ad esempio, la percentuale di disoccupati è di circa il 50% superiore a quella ufficiale. Centinaia di migliaia sono anche i senza tetto costretti a vivere per strada.

Queste, in definitiva, sono le conseguenze nascoste che gli strati più deboli della società sono costretti a pagare e che si nascondono dietro la retorica di una guerra “giusta”, combattuta per la democrazia e contro la minaccia terroristica in paesi lontani.