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La felicità è uno stato dell'essere che giunge in premio alla vita contemplativa

di Francesco Lamendola - 10/05/2010

 

Che cos'è la felicità?
Che cosa vuol dire essere felici?
Da sempre se lo chiedono sia i filosofi sia le persone comuni, tanto che su questo argomento sono stati versati i classici fiumi d'inchiostro; senza, peraltro, che si sia giunti ad una definizione univoca e ad una prospettiva condivisa.
La felicità, dunque, sarebbe solo un concetto culturale, variabile di epoca in epoca, a seconda dei diversi contesti sociali, filosofici e religiosi?
Oppure la felicità è una aspirazione comune e universale dell'intero genere umano, dallo scienziato di Harvard al cacciatore di teste delle più remote foreste della Nuova Guinea; e, pertanto, si può parlare di essa in termini generali?
Un passo alla volta.
Prima di tentar di rispondere a queste domande, forse sarebbe opportuno porre sul tappeto un'altra questione, e cioè se la felicità si debba considerare come un fine, anzi, come IL FINE, o semplicemente come una "ricompensa" all'arte del ben vivere.
Diciamo subito che noi propendiamo per questa seconda tesi; e riteniamo che la felicità, quanto più viene perseguita con ostinazione come un obiettivo in se stessa, tanto più tenderà a sfuggirci tra le dita, come la sabbia in riva al mare.
In secondo luogo, dovremmo forse distinguere tra la felicità come stato dell'essere e la felicità come suprema aspirazione della vita umana. Generalmente si tende a confondere le due cose; ma che si tratti di cose completamente diverse appare evidente, non appena si rifletta su di esse con un po' di attenzione.
Come suprema aspirazione esistenziale, la felicità appartiene a quella categoria di sogni indistinti e indeterminati che formano l'orizzonte lontano del nostro essere desiderante, lo sfondo sottinteso della nostra tensione verso l'assoluto e l'eterno. Ma, evidentemente, per sua stessa natura, un tale concetto della felicità non può trovare alcun riscontro in qualche oggetto preciso; la sua natura, infatti, è proprio quella di essere radicalmente "altro" da ciò che esiste, da ciò che possiamo materialmente raggiungere.
Come stato dell'essere, invece, la felicità non appartiene alla categoria dei sogni, ma delle cose possibili e realizzabili, ovviamente a determinate condizioni e non per tutti gli individui. Occorre liberarsi dal pregiudizio illuminista e democratico secondo il quale qualsiasi cosa è alla portata di chiunque e riconoscere, al contrario, che solo dopo aver percorso un certo cammino esistenziale si diviene capaci di realizzare quel particolare stato dell'essere chiamato felicità.
Bisogna essere molto chiari su questo punto. Non esistono scorciatoie, non esistono tecniche di nessun genere suscettibili di permettere il conseguimento della felicità; ma, al massimo, esistono tecniche capaci di creare alcune delle condizioni necessarie, non però sufficienti, alla realizzazione di essa.
Inoltre, bisogna tener presente che la felicità non è altro da noi; non è un oggetto che noi possiamo raggiungere e conquistare, come un navigatore raggiunge e conquista un'isola lontana, dopo un lungo e periglioso viaggio attraverso l'oceano. La felicità è una modificazione del nostro stesso essere e, pertanto, è un tutt'uno con noi stessi: qualche cosa che avviene dentro di noi, nelle profondità della nostra anima, e non al di fuori.
Si obietta, in genere, a questa affermazione, che è impossibile essere felici, se vengono a mancare o se non si realizzano talune condizioni esterne, per esempio un discreto stato di salute o un minimo di benessere economico ed altre cose simili.
Anche Aristotele era di quest'ultima opinione e, pur riconoscendo che la vera felicità si trova nella contemplazione e non nella vita attiva, opinava tuttavia che la presenza di alcuni beni esteriori è condizione necessaria al conseguimento della felicità.
Noi non siamo di questa opinione, per quanto autorevole sia la fonte dalla quale proviene; e la nostra convinzione non deriva da idee o ragionamenti astratti, ma dalla pura e semplice constatazione che la realtà di fatto sta in altro modo da quanto sostiene Aristotele.
Conosciamo casi di persone che, pur ridotte in condizioni di estrema malattia, non hanno perduto la loro pace interore, la loro serenità, il loro sorriso; che sono state di valido aiuto e sostegno per altri esseri umani, confortandoli e consigliandoli con la massima benevolenza e chiarezza di pensieri: che hanno saputo conquistare e conservare, in altre parole, uno stato di benessere interiore che corrisponde a quello che, nel linguaggio comune, è il concetto di felicità.
Analogamente, sappiamo di persone le quali, pur vivendo in uno stato di estrema indigenza, peraltro assunta volontariamente, hanno realizzato in se stesse quello stato dell'essere che corrisponde alla felicità, manifestandolo perfino a livello fisico, in una maniera tale che non può non essere percepita da quanti stanno loro intorno, esseri umani e perfino animali. Non è una leggenda quella delle belve feroci che si accucciano mansuete ai piedi di un santo uomo o degli uccelli che si posano sui rami per ascoltarne la voce soave.
E questa non è retorica: sono fatti, fatti corposi e verificabili; i fatti tanto cari a ogni filosofia positivista ed empirista.
Si obietterà che sono fatti, sì, ma eccezionali e rarissimi; che riguardano solo una percentuale minima, anzi, infinitesimale degli esseri umani e che, pertanto, la loro trattazione è un capitolo a sé stante, che non riguarda la comune condizione umana.
Rispondiamo che ciò sarebbe come affermare che una cosa, per il fatto di essere rara, è come se non esistesse: cosa evidentemente assurda.
La felicità è uno stato dell'essere molto raro, così come rare sono le persone capaci di realizzarlo: e questo è tutto. Stiamo parlando della felicità, non di una cosa banale, di tutti i giorni: è perfettamente logico che conseguirla sia riservato a pochi. Proprio per questo abbiamo messo in guardia contro l'equivoco pseudo democratico, secondo il quale tutti hanno "diritto" alla felicità. È  vero, infatti, che tutti ne hanno, teoricamente,  "diritto": ma alla condizione ben precisa di esserne degni, di sapersela meritare.
La felicità è una ricompensa grande, immensa, per coloro che possiedono i requisiti necessari a conseguirla: non la si può avere gratis; anzi, non la si può avere se non si è disposti a mettersi in gioco sino in fiondo, con tutto il proprio essere, senza ripensamenti o riserve mentali. Nessun trucco, nessun paracadute, nessuna uscita di sicurezza. La felicità è il premio riservato ai coraggiosi, non alle persone da nulla.
È una concezione aristocratica, quella che stiamo esponendo? Certamente; ma è basata sulla rigorosa osservazione dei fatti, non campata su astratte teorie. E quando i fatti non collimano con  le teorie, sono queste ultime che devono essere riviste, non il contrario.
D'altra parte, per completare il nostro ragionamento, riteniamo sia cosa utile riportare i passi salienti di Aristotele relativi alla concezione della felicità che ebbe il filosofo greco; e, in particolare, quelli dai quali traspare una certa qual concezione ragionieristica della felicità, come se essa si possa programmare e catalogare debitamente e come se la si possa conseguire con una strategia basata sul buon senso, sulla prudenza e sul ragionamento.
Scrive, dunque, Aristotele ne libro X dell'"Etica nicomachea"  (traduzione di Franco Amerio, Brescia, La Scuola Editrice,  1960, pp. 103-04, 108-16):

"Dopo aver trattato delle virtù, dell'amicizia e dei piaceri, rimane ora da dire qualche cosa sommariamente della felicità, poiché l'abbiamo posta come fine delle cose umane. Il discorso sarà più breve se ci rifaremo a quanto ne abbiamo già detto [I, 7-10]. Abbiamo detto che non è un abito, perché in tal caso si troverebbe anche in chi passa tutta la vita dormendo a guisa di un vegetale, e in chi è oppresso dalle più grandi disgrazie. Se questo non piace, e, come abbiam detto prima, dobbiamo piuttosto collocarla in un'attività, e se delle attività alcune sono necessarie e scelte per cagion di altro, alcune invece per cagion di loro stesse, è manifesto che la felicità è da riporsi in qualcuna delle attività scelte per se stesse e non di quelle scelte per altro. La felicità, infatti, non manca di nulla, ma è a sé bastante. Vengono scelte per se stesse quelle attività dalle quali nulla si chiede all'infuori della stessa attività. Tali sembra siano le azioni conformi a virtù, poiché il compiere cose belle e oneste è una delle cose desiderabili per se stesse. […]
Se la felicità è attività conforme a virtù, è logico che lo sia secondo la virtù più eccellente, che è quella della parte migliore dell'anima. Sia essa l'intelletto o qualcosa d'altro, che per natura appare avere il comando e la direzione e aver notizia delle cose belle e divine, e sia una cosa divina o quanto di più divino c'è in noi, la sua attività , secondo la virtù a lei propria, costituirà la perfetta felicità. Che tale attività sia quella contemplativa si è detto; e ciò va d'accordo sia con le cose dette prima, sia con la verità.
Tale attività è la più eccellente, poi ché l'intelletto è la più eccellente delle cose che sono in noi, e tra gli oggetti conosciuti i più eccellenti sono quelli intorno ai quali versa l'intelletto. Ed è anche l'attività è più continua: possiamo infatti durare nella contemplazione nella maniera più continua che in qualunque altra attività. Riteniamo, inoltre, che ala felicità debba esser congiunto il piacere, e conveniamo che tra le attività conformi a virtù debba esser piacevolissima quella conforme alla sapienza: la filosofia invero arreca, come sembra, piaceri mirabili per purezza e stabilità; ed è logico che questo modo di vivere, più che a coloro che ancora ricercano, debba essere dolce a coloro che già sanno.
Anche quella dote che abbiam nominata autosufficienza si riscontra soprattutto nell'attività contemplativa.  Delle cose necessarie per vivere hanno bisogno il sapiente e il giusto e gli altri; ma una volta che ne siano provvisti a sufficienza,  il giusto ha bisogno, inoltre, di persone verso cui e di cose con cui esercitare la giustizia; e similmente il temperante, il forte e ciascuno degli altri. Il sapiente, anche stando da solo, è in grado di esercitare la sua attività contemplativa, e tanto più quanto più è sapiente. Sarebbe forse meglio se avesse dei collaboratori, ma anche solo è pienamente bastevole a sé. Sembrerebbe anche che soltanto la contemplazione venga amata per se stessa, poiché nulla proviene da essa tranne che il contemplare, mentre dalle attività pratiche ricaviamo sempre, più o meno, qualche vantaggio oltre l'attività stessa.
Sembra, inoltre, che la felicitò consista nella tranquillità: infatti sbrighiamo le faccende per potersene restar tranquilli, e facciamo la guerra per goderci poi la pace. L'attività propria delle virtù etiche si esplica  nelle faccende dello stato e della guerra; ma le azioni che vi si riferiscono non si accodano con la tranquillità, soprattutto quelle di guerra. Nessuno poi sceglie di far la guerra per far la guerra, né vi si prepara; e sembrerebbe addirittura  sanguinario uno che si rendesse nemici gli amici per far sorgere battaglie e uccisioni. Anche l'attività dell'uomo di stato è senza tranquillità, poiché, oltre alle faccende proprie della politica, è intento a procurare potenza e onori o anche, per sé e per i cittadini, quella felicità che è diversa dalla politica e che, evidentemente, anche noi ricerchiamo come diversa dalla politica.
Se, dunque, tra le azioni conformi a virtù quelle politiche e quelle guerresche eccellono per bellezza e per grandezza, ma sono però senza tranquillità e vengono perseguite non per se stesse ma per qualche cosa d'altro, e se, invece, l'attività dell'intelletto, che è la contemplazione, risulta superiore per pregio e non mira a nessun fine fuori di se stessa e ha un suo piacere proprio che ne accresce l'attività ed è autosufficiente e senza inquietudine alcuna e, per quanto è dato all'uomo, continua, e tutte le altre doti che si attribuiscono all'uomo beato sembrano esser congiunte con tale attività., allora essa proprio sarebbe la perfetta felicità dell'uomo, se raggiunge una durata perfetta di vita. Nulla di imperfetto può, infatti, ammettersi in ciò che appartiene alla felicità.
Ma una vita di tal sorta sarebbe superiore all'umana natura.; poiché non già come uomo gli sarà possibile vivere così, ma solo in quanto vi è in lui qualche cosa di divino. E di quanto tal cosa eccelle sul composto umano, di tanto eccelle la sua attività sulle attività conformi a ogni altra virtù. Se, dunque, l'intelletto è qualcosa di divino in confronto con l'uomo, anche la vita secondo l'intelletto sarà vita divina in confronto con la vita umana. Non conviene dunque seguire l'esortazione di coloro che dicono che deve attendere a cose umane chi ha natura umana e a cose mortali chi è mortale. Al contrario: conviene, per quanto possibile, farsi immortali e far tutto per vivere secondo quella parte che in noi è più eccellente: se anche piccola per mole, sopravanza di gran lunga tutte le altre per potenza e per dignità. E se essa è davvero la parte sovrana  e migliore, si potrebbe anche dire che ciascuno si identifica con essa. Sicché sarebbe assurdo che uno scegliesse non già la vita che gli è propria, ma un'altra.
Si accorda ciò che abbiam detto prima con ciò che ora diciamo: che a ciascuno è ottima e piacevolissima quella cosa che gli è insita per natura; per l'uomo, dunque, la vita conforme all'intelletto, se, appunto, l'uomo  è, soprattutto, intelletto.. E questa sarà anche la vita sommamente felice. […]
In secondo luogo viene la vita conforme alla virtù etica, poiché le attività ad essa conformi sono appropriate alla natura umana. Cose giuste e coraggiose e altre secondo virtù operiamo scambievolmente nelle reciproche relazioni, nei servizi, nelle azioni di ogni genere e nelle passioni, rispettando ciò che compete a ciascuno. Ora queste cose sono tutte, evidentemente,  cose umane. La virtù etica sembra anche che, per certi aspetti, derivi dal corpo, e che, per molti lati, sia quasi connaturata alle passioni. La prudenza poi si congiunge con la virtù etica e questa con quella, dal momento che i principi della prudenza sono conformi alle virtù etiche, e la rettitudine di queste si misura secondo quella. Essendo poi le virtù etiche tanto connesse con le passioni, vuol dire che son proprie del composto umano; ma le virtù del composto sono tipicamente virtù dell'uomo. E tale sarà pure la vita ad esse conforme e la felicità che ne consegue. La vita dell'intelletto invece è separata. Ma di ciò basti il già detto: un più accurato esame eccede l'argomento attuale.
Si potrebbe osservare che la virtù dianoetica  ha poco bisogno delle cose esteriori, certo meno che la virtù etica. delle cose necessarie abbisognano entrambe e, poniamo pure, in egual misura, quantunque l'uomo di stato si cura assai di più del corpo e di simili cose. Ma non è tanto in ciò la differenza, quanto, e assai più, nell'esercizio stesso dell'attività. All'uomo liberale occorreranno ricchezze per liberalmente operare e all'uomo giusto per ricambiare il debito(le intenzioni non si vedono e anche quelli che non sono giust riescono a simulare di voler agire con giustizia); l'uomo coraggioso avrà bisogno della forza se vuol mandare a effetto qualche azione conforme alla sua virtù; e l'uomo temperante di abbondanza. Come, altrimenti, potrebbe dimostrarsi virtuoso in un modo piuttosto che in un altro? Si discute se sia più importante per la virtù il proponimento o l'esecuzione, giacché essa può trovarsi nell'uno e nell'altra. Ma è chiaro che la virtù perfetta risiede in ambedue.
Le azioni hanno certo bisogno di molte cose, e di tante più quanto più grandi e belle sono le azioni. A chi contempla, invece, non è necessaria nessuna di tali cose per la sua attività; si potrebbe dire, anzi, che esse gli sono di impedimento nella contemplazione. Però, in quanto egli è uomo, e vive insieme con gli altri, vuole agore secondo virtù, e avrà perciò bisogno anche dei beni esterni per vivere, appunto, da uomo."
Che la perfetta felicità risieda in un'attività contemplativa può apparire anche da ciò. Noi stimiamo che gli dèi, soprattutto, sono beati e felici.  Orbene, quali attività si dovranno loro attribuire? Forse quelle della giustizia? Ma  non sembrerebbero ridicoli se commerciassero, restituissero depositi e facessero altre simili cose?  Forse le azioni coraggiose, affrontando paure e pericoli, perché così è bello? Forse azioni di liberalità? Ma a chi largiranno i loro doni? Assurdo pensare che anch'essi usino moneta e simili cose.  E in che cosa mai starebbe la loro temperanza? E non sarebbe sconveniente dar loro lode perché non hanno cattivi desideri? A chi ben considera, tutto quanto riguarda le azioni parrà ben ridicolo e indegno degli dèi. Eppure tutti ritengono che essi vivano e però siano attivi, non già addormentati come Endimione. Ora,se a chi vive si toglie l'agire, e ancor più il produrre, che cosa gli resta se non il contemplare? Sicché l'attività propria della divinità, sopra ogni altra beatificante, sarà quella contemplativa. Anche per gli umani, dunque, l'attività a questa più affine sarà quella che rende massimamente felici.
Un indizio di ciò si ha anche nel fatto che gli altri animali non partecipano della felicità., perché sono del tutto privi di tale attività. Per gli dèi tutta la vita è beata; per gli uomini solo in quanto vi è in essi qualche cosa di simile a tale attività. Degli altri viventi nessuno è felice, perché in nessun modo partecipa della contemplazione. Quando dunque si estende la contemplazione, tanto si estende la felicità: e in coloro nei quali maggiore è la contemplazione, maggiore è anche la felicità. Così succede non per una ragione accidentale,, ma in forza della contemplazione stessa, la quale ha in sé il suo valore.
E, dunque, in conclusone, la felicità consiste in una sorta di contemplazione…"

Ora, a parte il fatto che l'ultima affermazione è gratuita, perché noi umani, a rigore, nulla possiamo dire di ciò che provano gli altri esseri viventi, e pertanto non possiamo escludere che anche per essi esista uno stato dell'essere equiparabile al concetto di felicità, rimane il fatto che, se si ammette la necessità dei beni esteriori per il conseguimento della felicità, si viene a minare alla base la tesi secondo cui quest'ultima risiede nella contemplazione.
Perché mai la contemplazione dovrebbe essere ostacolata o resa impossibile dalla mancanza dei beni esterni, dal momento che essa è, per se stessa, chiarificazione e illuminazione interiore e, pertanto, la sfera alla quale afferisce non si interseca con quella della realtà materiale?
Non vogliamo, tuttavia, aver l'aria di semplificare eccessivamente il problema e riconosciamo di buon grado che, per qualunque essere umano, la contemplazione è un faticosa punto di arrivo e non già una condizione della mente che possa venire evocata a piacere, in qualunque momento e senza alcun percorso preparatorio.
Ma che cosa dobbiamo ricavare da questa precisazione, se non la verità tautologica che, per giungere alla vita contemplativa che dà accesso alla felicità, bisogna distaccarsi da ogni legame con la realtà contingente, sia esso costituito dalle brame oppure dai timori? Se la felicità è il premio degli uomini forti e coraggiosi, anche la contemplazione è il modo di porsi delle nature capaci di dispiegare una forte volontà e in possesso di un alto spirito di sacrificio.
Dicevamo, all'inizio, che la felicità si può considerare come una sorta di ricompensa all'arte del ben vivere; ne deriva, per necessità logica, che, se è vero che essa si consegue mediante la vita contemplativa, allora l'arte del ben vivere è l'arte di apprendere a vivere in maniera contemplativa, vale a dire distaccata dalle brame e dai timori.
Questo, e non altro, è ciò che si intende per vita contemplativa. E la condizione esteriore dell'individuo non ha nulla a che fare con l'atteggiamento contemplativo, equanime, benevolo e non giudicante nei confronti della vita. Si può essere contemplativi anche in mezzo al caos di una grande città o nella fatica del lavoro quotidiano; mentre si può essere travolti dall'attaccamento verso le cose (sia esso nella forma della brama o in quello del desiderio) anche se ci si ritira in cima a un eremitaggio sperduto sui monti.
Si obietterà, di nuovo, che è più facile assumere l'attitudine contemplativa in un eremitaggio e più difficile, invece, nei ritmi febbrili e dispersivi della vita moderna. Rispondiamo che si tratta di una osservazione non pertinente: perché, se l'anima non è predisposta da un lungo e faticoso cammino di purificazione, la solitudine dell'eremitaggio le riuscirà insopportabile e, non che favorire il conseguimento della felicità, lo allontanerà irrimediabilmente.
È ben per questo che le folle della società di massa si stordiscono volontariamente nel rumore e nel disordine affannoso di mille cose inconsistenti: per esse,  sarebbe letale la medicina che fa bene al'anima ben disposta sul sentiero della chiarificazione interiore.
Perciò, da qualunque parte si consideri la cosa, si giunge sempre alla medesima conclusione: che la felicità non si consegue per se stessa, ma che essa ci viene data in premio allorché siamo capaci di vivere in maniera contemplativa: distaccata, serena, benevola e compassionevole; e che non dipende dal possesso dei beni esteriori ma, anzi, questi ultimi potrebbe esserci di ostacolo, se pensiamo di poter essere felici senza pagare il prezzo del sacrificio, della solitudine e della prova.