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Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì, ma cosa?

di Mario Grossi - 10/05/2010

È un sintomo di questo periodo di crisi, quando tutto si fa più insicuro e tutti quanti tendiamo a non avere le idee chiare. È Il timore di esserci infilati in un tunnel di cui non si vede la fine e che temiamo si concluda come il più classico dei cul de sac. Un bel muro che ti sbarra la via d’uscita davanti e hai troppa strada, impercorribile a ritroso, alle spalle. È tipico di questo periodo il proliferare d’improbabili guru che tendono a dare spiegazioni che vorrebbero essere rassicuranti ma che invece accentuano ancora di più la nostra insicurezza. Accanto alle teorie su come uscire dalla crisi, spuntano in numero crescente libri che tentano di analizzare la situazione e provano a identificarne le cause.

Ho comprato uno di questi libri, edito da Laterza, scritto da Antonio Pascale, dal titolo Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì ma cosa?, che racchiude sin dal titolo tutta l’incertezza che si percepisce sempre più spessa in questi giorni di crisi che tutti definiscono terminale (non so bene se quel terminale vada interpretato come se la crisi sia agli sgoccioli o se agli sgoccioli sia il modello di società che l’ha partorita).

In genere compro libri simili per curiosità, poi li leggo e mi convinco che era meglio non averli acquistati e letti.

La delusione che segue la lettura è cocente. Dell’intero libro salvo solo il titolo, naturalmente maledicendo i titolisti che, pur di far vendere una copia in più di una schifezza, arrotano il loro cervello per scovare qualcosa di intrigante, evocativo, per far cadere nella trappola l’ennesimo pollo lettore che se ne fa irretire.

Eppure l’inizio non era malaccio. Il libro prende le mosse da quello che i teorici della narrazione hanno definito come il “modello a tre atti”, un modello canonizzato nientemeno che da Aristotele che modernizza l’altro grande modello narrativo: il viaggio dell’eroe, nel quale il protagonista, intelligente e astuto affronta una serie di prove dalle quali esce vincitore superandole appunto con intelligenza e astuzia.

Il modello a tre atti invece cambia un po’ le regole del gioco. Nel primo atto il protagonista si sceglie un obiettivo, nel secondo fallisce, si deprime, rinuncia, poi ci riflette torna alla carica e nel terzo atto solitamente vince.

Esempio didascalico è la favola di Cenerentola, la cui narrazione può essere rappresentata come una linea in un sistema di assi cartesiani, in cui le ascisse sono l’asse della sfortuna, le ordinate l’asse della fortuna.

Cenerentola nel primo atto della narrazione comincia la sua storia sotto l’asse della sfortuna, fa la sguattera delle sorellastre e della matrigna. Ma anche lei andrà al ballo di corte, trasformata in una fantastica dama per i buoni auspici della Fata, e la linea della narrazione s’impenna, scavalcando la linea della sfortuna, entrando nel quadrante della fortuna.

Nel secondo atto scocca la mezzanotte, Cenerentola deve abbandonare il ballo, perde la scarpina e viene reclusa nella torre dalla matrigna quando si scopre che un messo reale sta cercando chi potrà calzare la scarpina perduta. La linea della narrazione ripiomba sotto l’asse della sfortuna. Nel terzo atto, sempre grazie alla Fata e ai suoi amici animali, Cenerentola potrà indossare la scarpina e convolare a giuste e felici nozze con il Principe che di lei si era invaghito al ballo. La linea della narrazione schizza nuovamente verso l’alto e continuerà, così si presuppone, anche se la favola finisce.

Che cosa c’entri tutto questo con il libro è presto detto. Se applichiamo il “modello dei tre atti” alla situazione italiana dal dopoguerra a oggi, possiamo rappresentare anch’esso allo stesso modo.

Nel primo atto l’Italietta del dopoguerra, depressa, povera, sfigurata dalle bombe è sotto la linea della sfortuna. Poi, con il Boom economico, la linea della narrazione storica schizza nel quadrante della fortuna. Nel secondo atto, a seguito di questa crisi profonda, la linea della narrazione sprofonda nuovamente sotto la linea della sfortuna. Nel terzo atto, che ancora deve arrivare, un nuovo impulso positivo ci riporterà nel quadrante della fortuna, dispensandoci quel benessere che credevamo perduto e che invece recupereremo.

Che cosa accomuna le due narrazioni oltre allo schema in tre atti? La presenza della Fata che risolve i problemi di Cenerentola e la presenza dello Stellone italiano nella seconda.

Da qui parte l’intero libro (in realtà nel libro c’è solo l’esempio di Cenerentola ed io ho ricostruito il secondo sull’ipotesi di Pascale).

Quello cui assistiamo è una narrazione in cui la risoluzione dei problemi è concentrata su un fattore esterno, magico come la Fata in Cenerentola o come lo Stellone italico nel mio esempio.

Ci siamo adagiati sulla falsa convinzione che possa sempre accadere qualcosa che miracolosamente ci riporti in carreggiata.

Siamo concentrati sul primo e sul terzo atto della nostra narrazione e trascuriamo costantemente il secondo. Così facendo siamo vittime da un lato della nostalgia, dell’eccessiva enfasi che dedichiamo al passato, del costante piagnisteo del “ah, i bei tempi andati…..”.

Dall’altro siamo in attesa di un miracolo che ci faccia tornare all’Eden dorato mai tanto rimpianto.

La nostalgia del primo atto della narrazione e la speranza messianica del terzo si saldano così intimamente che dalla narrazione espungiamo il secondo atto.

Ed è proprio nella riscoperta del secondo atto che Pascale individua una possibile via d’uscita. Questo dobbiamo fare: concentrarci sul secondo trascurato atto della narrazione.

È nella disperazione della crisi, nella macerazione fatta di silenzi e studio che può nascere una risposta razionale che permetta di superare la situazione di depressione in cui ci troviamo. È dallo studio analitico del problema, dalla misurazione razionale e apolitica dello stesso che nasce una via non messianica al nostro problema.

È dunque nello studio scientifico del problema che sta la soluzione, ed è affidandoci al pensiero nitido, alto, incontaminato della scienza che possiamo trovare una via d’uscita.

Gli uomini di scienza che si affidano solo a considerazioni analitiche e avulse dal contesto politico sono per Pascale i nuovi sacerdoti di una religione pura che può salvarci.

Qui sta la soluzione. Battere il secondo atto della narrazione con sobrietà, frazionando il problema in tanti sottoproblemi da affrontare con raziocinio al di là e al di fuori della corrotta politica e della pigra soggettività di tutti noi, abbandonando le facili nostalgie del “come si stava meglio ieri” (il maggior responsabile di tale mortifera nostalgia, sarebbe per Pascale, Pasolini), ripudiando qualsiasi messia urlatore e televisivo, imbonitore e spacciatore di false aspettative.

Sta tutta qui la parabola scientista di Pascale, troppo facile, semplicistica e ingenua che non può convincermi.

Pascale, il grande oppositore di tutte le Fate e di tutti gli Stelloni, costruisce una via d’uscita che si aggrappa agli stessi appigli negativi da cui voleva districarsi.

Sostituire la Fata Buona con degli scienziati maghi dell’analitico non è altro che sostituire un idolo con un altro, compiendo lo stesso percorso da cui ci si voleva distanziare, con quella spocchia tipica degli scientisti che credono di poter superare l’oscuro tempo dei maghi con il luminoso tempo della misurabilità asettica dei laboratori.

Pascale, come tutti i ciechi credenti, sostituisce i suoi sacerdoti e i suoi idoli a quelli del passato, ma in nulla è migliore dei fedeli di tramontate fedi oscurantiste.

Non si accorge poi che la presunta alterità della scienza nei confronti della politica, del mondo, della vita e la sua presunta purezza incontaminata non esiste e che la scienza è sempre frutto, talvolta perverso, del tempo, e dell’ambiente in cui si muove.

Non esiste scienza pura. Esiste invece una scienza che è sempre al servizio della società che ne è fondamento. È per questo che l’indirizzo scientifico ne è sempre, almeno in parte, influenzato.

La scienza non è mai al di sopra della politica, ne è al servizio.

Fa guai enormi se tenta di sovrapporsi al politico, diventa totalitaria, anteponendo al tutto variegato un unico monocolore.

Ne sono testimonianza molti esempi del passato ed anche dell’oggi. Quando i tecnici si sostituiscono, nel governo, alla politica, nascono quei mostri che sono poi alla base di quella “crisi sistemica” di cui si paventano gli orrori.

Quando tutto si riduce ad analisi e a misura un nuovo germe del totalitarismo è stato piantato.

Ed allora è meglio, se la via d’uscita è quella ventilata da Pascale, lasciare inevasa ancora la domanda: “Qui dobbiamo fare qualcosa. Sì ma cosa?” piuttosto che cedere alle facili scorciatoie ipotizzate in questo volumetto.

O è meglio tornare al sano anarchismo di Einstein che ammoniva: «Non tutto quello che conta è misurabile e non tutto quello che è misurabile conta».