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Identità palestinese. La costruzione di una moderna coscienza nazionale

di Antonio Caracciolo - 11/05/2010



Ho già detto che queste non sono recensioni in senso proprio ma note in corso di lettura su libri che suscitano in vario modo il mio interesse. È la volta di un libro non recente e di cui mi sono accorto dai cataloghi di una delle biblioteche da me frequentate. Si tratta di un’opera di Rashid Khalidi da non confondere con Walid Khalidi, di cui ci siamo già occupati e che è autore di un repertorio di fondamentale importanza: All That Remains. The Palestinian Villages Occupied and Depopulated by Israel in 1948. Invece, Rashid centra un problema fondamentale che sempre ricorre nella propaganda israeliana e sionista: l’identità palestinese e la sua esistenza come popolo e nazione. Il discorso che faremo sarà lungo e richiederà non poche sedute al computer, dove adesso stiamo scrivendo direttamente online. Qui fornisco alcune anticipazioni ancora prima di procedere nella lettura sequenziale del libro in tutte le sue pagine, cosa che questo libro a differenza di altri certamente merita.

Monitorando la propaganda sionista ci si imbatte con frequenza in un luogo comune, del quale in altra occasione faremo una silloge. Si dice che quando iniziò l’insediamento coloniale sionista, nel 1882, con successive ondate immigratorie, che ricostruiremo con pazienza, la terra che loro signori andavano ad occupare – per comando divino – era “senza un popolo”: praticamente disabitata. Naturalmente, è del tutto falso, ma non ci soffermiamo su questo aspetto facile da documentare.Il pensiero razzista sionista va oltre. Ragionano nel modo che segue. I palestinesi erano sotto dominio ottomano e mai hanno avuto entità statuale: se per questo, meno ancora l’avevano su terra altrui i coloni che sbarcavano in Palestina, espropriando e massacrando gli “indigeni”. Insomma, l’idea qui sottesa è quella delle popolazioni primitive e selvaggie su cui e di cui si può fare ogni cosa senza dover rendere conto a nessuno: né agli uomini né a dio (che si invoca come un dio di parte, istigatore di furti, omicidi, saccheggi, strupri, massacri, genocidi).

Abbiamo poco tempo per questa prima seduta e ci preme giungere rapidamente ad alcuni concetti iniziali da approfondire in corso di lettura. Intanto, non si ha diritto di rubare ai poveri, per così dire, con la motivazione che non sanno difendersi. Il delitto è ancora più ignobile. In pratica, nella seconda metà dell’Ottocento, quando iniziò il processo coloniale si pensavo di poter imitare la “gloriosa” epopea della frontiera americana che portò ad un genocidio per il quale non è mai stato istituito un Tribunale per crimini contro l’umanità: la più “antica” democrazia del mondo poggia su questi fondamenti: genocidio, tratta dei negri, schiavitù, Hiroshima, Nagasaki, Israele. In una polemica online un avversario ha riconosciuto l’analogia con gli indiani d’America dicendo che i palestinesi sono altrettanto stupidi e selvaggi. Dunque, razzismo nella sua forma più grave, cioè non come mero pregiudizio, ma come prassi concreta discriminatoria e omicida.

Devo qui richiamare brevemente il pensiero politico-giuridico di Carl Schmitt, non a caso denigrato e attaccato in questi ultimi anni, in Israele e in Francia. Egli spiega che dalla contrapposizione amico-nemico sorge l’identità politica in una complessa gamma di interdipendenze dove sarebbe fuorviante il nesso cronologico causale. In pratica, sono proprio i sionisti con i loro attacchi, le usurpazioni, le pulizie etniche, i massacri e genocidi, le Sabra e Shatila e i loro “Piombi”, con le loro menzogne sistematiche, ecc., a produrre sempre più quel senso di identità politica e di aggregazione politica di cui prima i palestinesi, nell’ambito di una più vasta unità ottomana o araba potevano non aver bisogno. I popoli nascono e scompaioni nel tempo: di eterni non ne esistono. E non è certo eterno il popolo ebraico che dalle steppe della Russia o da altri angoli delle terra si è lanciato in un’avventura coloniale anacronistica sulla base di un’ideologia pseudoreligiosa.

Dunque, anche fossero stati i palestinesi una “moltitudine” non ancora organizzata in entità statale, non per questo si può avanzare il diritto a privarli del loro villaggi, delle loro case, delle loro vite, della loro dignità di uomini. Anzi, il fare ciò è ancora più grave e chiama in causa direttamente la nostra coscienza di uomini della nostra epoca sotto i cui occhi si svolgono gli eventi coperti da una stampa quanto mai ignobile e bugiarda, sostanzialmente dipendente dai governi che si sono resi responsabili dei crimini. Ma è anche vero che la violenza cieca produce una sempre più viva e ferma reazione della coscienza che acquista identità e consistenza politica. Appunto, dall’aver eletto qualcuno come proprio nemico da sterminare, cioè il palestinese, cioè la vittima aggredita e molestata in casa sua, gli si offre quella identità di cui non avrebbe avuto altrimenti bisogno. Ed è un’identità che si trasmette alla propria progenie e passa da generazione in generazione di “sopravvissuti” al processo scientifico di scomposizione di una comunità da “popolo” in “moltitudine”. Questa distinzione hobbesiana fra popolo, cioè un’entità organicamente politica con una vasta gamma di istituzioni, in una “moltitudine” di gente dispersa in campi profughi o in giro per il mondo è assolutamente trasparente nella politica israeliana e corrisponde ad un vero e proprio genocidio, più profondo ed efficace rispetto ai meri massacri alla Sabra e Shatila o a Piombo Fuso.

Approfondiremo questi concetti che abbiamo qui appena abbozzati. Aggiungo ancora che il “caso” palestinese non è senza riflessi e conseguenze sulla nostra consapevolezza di popoli europei, la cui identità politica subisce un processo di decostruzione e distruzione a partire dalla disfatta bellica del 1945. La strategia in Medio Oriente ha come suo chiaro modello l’Europa di Yalta e di Norimberga. In altri termini, il movimento di resistenza e di liberazione del popolo palestinese e della causa araba coinvolge direttamente l’indipendenza e la liberazione dell’Europa, ridotta a deposito di munizioni e di atomiche americane. Se l’Italia è popolata da rampe di lancio per testate atomiche, è però anche un corrispondente obiettivo da parte di coloro verso i quali le rampe vengono puntate. Nella follia sionista si legge talvolta che saremmo sotto il tiro delle 200 testate atomiche israeliane. Sarebbe ora di chiederne lo smantellamento, invece di preoccuparsi dei falsi armanenti di Saddam ieri e di Ahmadinejad oggi.