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Cina & Capitale

di Fabrizio Fiorini - 17/05/2010

 

Forse Il Sole 24 Ore, trattando sulle sue pagine il tema dell’economia cinese, dovrebbe talvolta prendere lezioni di stile dai compagni de Il manifesto che usavano titolare la loro rubrica economica quotidiana “Capitale e lavoro” e non, come invece è loro consuetudine, “economie emergenti”.  Anche perché ciò che emerge, nell’anno di grazia 2010, rimane piuttosto la putativa e altezzosa centralità euro-americana dell’economia capitalista, ormai soppiantata nei fatti dalla crescita economica della grande nazione asiatica la quale è ormai già bella che “emersa”.

Il buro-capitalismo di Pechino negli ultimi due decenni conseguenti la rottura dell’isolamento economico maoista, si è barcamenato tra due dottrine economiche complementari che solo apparentemente si rivelano coincidenti ma che sono in realtà le due leve su cui il capitalismo cinese esercita congiuntamente la forza del suo dominio planetario dei mercati in concorrenza con gli Stati Uniti d’America. Dottrine che stanno inoltre a dimostrare la veridicità della malsana e letale affinità tra capitalismo e teoria economica marxiana, che tuttora può essere valida categoria in cui inserire il parasocialismo di Pechino.

La prima di queste dottrine politico-economiche è il cosiddetto socialismo di mercato, quintessenza della perversa natura dell’homo oeconomicus, mostruosa creatura partorita dalla congiunzione tra la visione strutturale marxista dell’economia e l’accumulazione patologica di ricchezza del capitalismo classico. In seno a tale visione lo Stato conserva un apparente potere di indirizzo della sfera economica, forte di strutture di dominio e di controllo novecentesche quali l’apparato burocratico del partito unico; nella realtà sono invece proprio i mercati a direzionare la politica sociale del Paese, né più né meno di quanto avviene nei Paesi retti da un sistema politico capitalista e liberale. La differenza (e il punto di forza, almeno tale è stato per la Cina) risiede nella conservazione dell’elemento “socialista” in forza del quale il plusvalore (per restare nella terminologia marxista) generato non va – unicamente – a ingrassare il ventre di una borghesia classicamente concepita, ma viene re-investito dallo Stato (appunto: social-capitalista) in quei campi che i moderni Paesi occidentali tendono a sottovalutare, quali le infrastrutture, l’istruzione, la ricerca. Attraverso questo sistema (tecnicamente e istituzionalmente definito paraculo) la Repubblica Popolare ha potuto: a) conservare il potere per la nomenklatura del Pcc, trasformandolo convenientemente in una high school of economics; b) contrastare l’altrimenti pervasiva potenza americana sul suo stesso campo, la finanza internazionale, usando gli stessi sporchi trucchi come e meglio di questa; c) evitare, almeno temporaneamente, il collasso economico e l’immane carestia che avrebbe colpito la nazione in seguito a una immediata conversione turbocapitalista dell’economia in stile elciniano.

Nel corso degli ultimi anni il questo socialismo[1] di mercato è stato integrato con la seconda dottrina fondamentale della gestione economica cinese: il capitalismo di Stato. In sintesi: le grandi società finanziarie, di servizi, commerciali e industriali partecipate o semi-pubbliche cinesi, forti di bilanci costantemente attivi e in crescita, non pagano i dividendi allo Stato, o almeno lo fanno in misura ridotta. Lo Stato, infatti, ha delle riserve smisurate di liquidità, e quindi – anche per contrastare eventuali spinte inflattive -  preferisce lasciare i fondi nella casse delle imprese; si tratta di cifre vertiginose, nell’ordine di centinaia di miliardi di dollari liquidi e disponibili, che permetterebbero di eliminare vastissimi segmenti di concorrenza senza oscure manovre finanziarie  di indebitamento, ma semplicemente staccando assegni. Tutto ciò in contrapposizione alle imprese d’occidente (in particolare europee) fondate invece sul debito e sulla scarsa liquidità.

Tali società sono quindi utilizzate da Pechino come divisioni corazzate con riserve pressoché infinite di benzina e munizioni, e mandate in giro per il mondo a caccia di mercati e materie prime. In contrasto all’imperversare di Pechino – e quindi in soccorso della concorrenza nordamericana – si sprecano gli interventi della Banca Mondiale, che continua a esortare la Cina ad aprirsi ai mercati esteri. Apertura che permetterebbe agli Stati Uniti di riappropriarsi di parte dei mercati caduti in mano cinese e della liquidità conservata nei forzieri di Pechino.

Anche il capitalismo cinese, suo malgrado, avrà modo di scoprire che si fonda sul nulla, e che la montagna di denaro accumulato si sbriciolerà in men che non si dica. Finita la spinta propulsiva di crescita, fondata, ricordiamolo, sulla conservazione di elementi di economia pubblica e di economia reale (capannoni e cantieri), ci si accorgerà che tutta quella cartamoneta altro non è che titolo di debito, linfa vitale delle banche e sciagura per il benessere dei popoli.

Senza aver imparato nulla dalla rovinosa caduta al suolo conseguente l’assalto al cielo della Rivoluzione culturale, si prepara a una ben più grave precipitazione in cui porterà con sé gli Stati Uniti, coi quali si sono avvinghiati in una lotta per l’egemonia sul mondo. E il mondo non sentirà la loro mancanza. 


[1] Il termine “socialismo”, accostato a “mercato” o comunque relativo alla realtà cinese, risulta cacofonico e tecnicamente scorretto. Ne facciamo ricorso unicamente per comodità espressiva e per sottolineare alcuni aspetti collettivistici e pubblicistici che possono caratterizzare anche visioni diametralmente antitetiche alla vera dottrina economica socialista.