Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Edoardo Nesi, l'antiglobalista che ci piace

Edoardo Nesi, l'antiglobalista che ci piace

di Luciano Lanna - 19/05/2010

 http://www.provincia.prato.it/w2d3/internet/download/provprato/intranet/utenti/domini/risorse/documenti/store--20090716184121904/Nesi.jpg
 


A quattro anni dall'uscita di Gomorra, il best seller di Roberto Saviano, c'è un altro romanzo che è riuscito in breve tempo ad avviare un dibattito non di natura letteraria, ma politica, sociale ed economica. Ci riferiamo a Storia della mia gente (Bompiani, pp. 162, € 14,00) di Edoardo Nesi, un libro che a metà strada tra il romanzo autobiografico e il trattato economico ci racconta cosa si prova a sentirsi parte della prima generazione di italiani che, dopo secoli, si stanno ritrovando a essere più poveri e con meno prospettive dei propri genitori. «Io sono nato - esordisce l'autore - nel 1964, e insieme ai miei fratelli Federico e Lorenzo faccio parte di quella che avrebbe dovuto essere la terza generazione tessile della famiglia Nesi, e mi era stata promesso il mondo».
Edoardo è un rappresentante tout court della generazione di cui ha scritto il sociologo Fausto Colombo nel suo Boom. Storia di quelli che non hanno fatto il '68 (Bompiani), i baby boomer, gli oltre dieci milioni di allora piccoli italiani, che sono cresciuti in case fornite di frigorifero, lavatrice, televisore e camerette dotate di ogni comfort. «Mai mi era stato detto chiaramente, ma - spiega Nesi in questo suo nuovo libro - la realtà dei fatti lo diceva. Lo urlava. Il mondo era a mia disposizione. Se avessi avuto la capacità, il coraggio, la forza d'animo, ce l'avrei datta. Non avevo limiti che non fossero i miei. Se volevo andare a studiare in America d'estate, per esempio, bastava dirlo e sarei partito. E così, quando lo dissi, nell'estate del 1979, a quindici anni, dopo un'invernata passata ad ascoltare le canzoni di Bob Dylan e Neil Young, partii per andare a studiare l'inglese all'università di Berkeley. A San Francisco. In California. Da solo».
Ma trent'anni dopo, tutto cambia. Dopo gli studi, infatti, Edoardo Nesi si mette a lavorare presso l'azienda tessile della sua famiglia, il Lanificio T.O. Nesi & Figli di Prato. E via con più di due decenni di entusiasmo per l'attività imprenditoriale. Una realtà fondata sul valore del lavoro, qualcosa di solido e di concreto. «Tutte le aziende nate negli anni prosperi del dopoguerra - leggiamo ancora in Storia della mia gente - erano ancora condotte dai loro fondatori, quasi tutti coetanei, quasi tutti ultrasessantenni: una generazione d'imprenditori selvatici che sapevano benissimo che lo sviluppo miracoloso delle loro aziende era stato il risultato di una serie di circostanze straordinariamente favorevoli e irripetibili, una lunghissima e fortunatissima cavalcata sull'onda di una crescita epocale che era nata dalle rovine del dopoguerra e aveva trasportato tutti, capaci e incapaci, industriali e dipendenti, ben oltre i loro limiti».
Secondo Nesi, insomma, grazie al lavoro soprattutto delle piccole e medie imprese l'Italia del secondo dopoguerra era potuta risorgere dalla guerra e dai bombardamenti e ripartire alla grande, garantendo diritti e stabilendo doveri, spargendo benessere e dando lavoro a milioni di persone, pagando pensioni e ricoveri in ospedale, case e automobili, televisori e vestiti, creanndo e realizzando sogni e alimentando anche illusioni. «È questa la nostra storia», sostiene adesso Edoardo alla luce degli sconvolgimenti degli ultimi anni che hanno costretto anche lui, il 7 settembre del 2004, a vendere la sua azienda di famiglia. E lui racconta nei dettagli la crisi devastante della piccola e media impresa italiana, quella nata e sviluppatasi sul territorio grazie al sudore e ai sacrifici reali di tante famiglie. Ma Nesi va giù duro contro i responsabili: l'ideologia della globalizzazione e i suoi profeti.
Sotto accusa, in particolare, «il dogma bambinesco che la totale liberalizzazione degli scambi commerciali avrebbe portato al mondo, a tutto il mondo, senza distinzioni, molto più vantaggi che svantaggi». E la contrapposizione diventa netta: da una parte l'economia reale, il lavoro della produzione, l'opera degli straordinari artigiani, più che industriali, «lontani pronipoti dei maestri di bottega medievali»; dall'altra «un mondo governato dai dogmi e dall'arroganza intellettuale degli economisti». Qualche anno fa Edoardo si rivolse al suo collega, nel senso di scrittore, americano Richard Ford, chiedendogli cosa pensasse della stretta ferrea che le leggi di mercato, dopo averci vezzeggiato per decenni, stavano ora esercitando sull'Italia della piccola e media impresa e dell'artigianato: «Edoardo - gli rispose Ford - sono certo che alla fine, in qualche modo, l'economia soccomberà a un atto dell'immaginazione».
Di questa offensiva economicista contro il lavoro e l'economia reale, Edoardo Nesi individua alcuni protagonisti precisi nel quadro italiano. L'ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco, ad esempio, quale creatore della tassa «che porta il nome di Irap e a Prato è stata ribattezzata Iraq per la similare devastazione creata, un'invenzione infernale che ti costringe a pagare non in base all'eventuale utile conseguito, ma in base al fatturato che realizzi e al numero dei dipendenti e agli interessi che paghi alle banche e persino alle perdite sui crediti che ti tocca sopportare». L'altro nemico del lavoro italiano è, ancora, l'economista Francesco Giavazzi, vero e proprio ideologo della globalizzazione, «colui che più di ogni altro nei suoi secchi articoli puntuali come la morte sprezzava l'incapacità di grandissima parte dell'industria italiana di adattarsi alle nuove regole del mercato imposte da quella che lui considerava la grande panacea dell'apertura mondiale degli scambi commerciali».
Pochi scrittori sono riusciti a esprimere come Nesi il volto incivile e disumanizzante dell'ideologia globalista: «Per anni ci era stata raccontata una favola bella - scrive - dai giornali, dalle televisioni, dalle radio, la quale voleva il mondo ormai spiegato, risolto, uno: il mondo di Bono Vox, un incubo distopico in cui le differenze tra le persone e gli stati si sarebbero stemperate prima e dissolte poi in una dorata utopia in cui tutti gli abitanti del mondo sarebbero stati cittadini di un unico impero, sedati dalla pubblicità e imboniti dalla televisione, clienti perfetti del paradiso delle multinazionali perché indottrinati ad avere gli stessi gusti, consumatori felici di mangiare ovunque lo stesso hamburger senza sapore, di vedere gli stessi film senza storia e di sentire la stessa musica di plastica, di passare le giornate a chiacchierare di nulla su internet e di non leggere neanche un libro».
Il 28 febbraio del 2009 Nesi è sceso in piazza per la prima volta nella sua vita per una manifestazione a sostegno del tessile pratese. Davanti a tutti uno striscione tricolore tanto lungo da finire sul Guinnes dei primati con la scritta "Prato non deve chiudere". È la battaglia che Nesi oggi avverte come necessaria, come il cuore stesso della politica dei nostri giorni. «Il bello è - ha scritto su Libero Francesco Borgonovo - che Nesi, non certo un intellettuale "di destra", racconta per esperienza diretta, ma condivisa da tanti, ciò che il ministro Giulio Tremonti spiegò nel suo libro Rischi fatali». Tutto giusto, ma stiamo anche attenti a fare dello scrittore pratese una sorta di cripto-leghista, com'è un po' suggerito sul quotidiano diretto da Maurizio Belpietro.
Non significa niente, ma ci limitiamo a ricordare che in un suo precedente romanzo - Figli delle stelle, del 2001 - Nesi, da vero anticonformista, raccontò la fine degli anni '70 attraverso i ricordi di un militante di destra. È il 1978 e siamo a Firenze: più di cento tra ragazzi e ragazze «che incarnavano sfacciatamente il sogno fitzgeraldiano di gioventù, si ritrovavano nella "loro" Piazza Papini». E allora, raccontava, «sul piedistallo della statua del Papini cominciarono ad apparire scritte tipo "Contro il sistema la gioventù si scaglia, boia chi molla è il grido di battaglia", e in poche settimane Piazza Papini diventò una piazza fascista, il cui primo atto ufficiale fu la cacciata dei gagà». E se quei gagà fossero la prefigurazione degli ideologi della globalizzazione?