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Quel trio in totale autonomia

di Roberto Zavaglia - 23/05/2010

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Soltanto pochi anni fa, la scena svoltasi lunedì scorso a Teheran sarebbe apparsa surreale. Nessuno avrebbe creduto che il presidente del Brasile si sarebbe messo in viaggio verso il lontano Iran per trovare un accordo con il regime locale su una delle più spinose questioni mondiali, coinvolgendo anche il capo del governo turco. Eppure, lo strano terzetto Lula-Erdogan-Ahmadinejad ha firmato un’intesa per risolvere la lunga disputa sul programma nucleare iraniano. E ciò senza interpellare né gli Stati Uniti, che sulle questioni  “globali” sono ancora considerati il decisore ultimo, né alcuna delle altre potenze tradizionali.
  L’accordo ricalca in parte alcune delle proposte precedenti, prevedendo che Teheran, entro un anno, depositi in Turchia 1.200 dei suoi 1.500 chili di uranio al 3,6%, per riceverne in seguito 120 chili arricchiti al 20% da usare per scopi civili. Se Ahmadinejad tenesse fede al patto, avrebbe compiuto gran parte di quello che, da anni, gli chiede la cosiddetta comunità internazionale. Lascia intuire una certa stizza il fatto che, il giorno seguente, il segretario di Stato Clinton abbia annunciato un’intesa con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza per nuove e più severe misure contro l’Iran. La nuova risoluzione Onu, che dovrebbe essere votata in giugno, rafforza i provvedimenti contro il sistema finanziario ed economico di Teheran. Verrebbe, inoltre, istituito un regime di ispezioni internazionali per le imbarcazioni sospettate di trasportare carichi che, in qualche modo, possano contribuire al programma nucleare iraniano. Vedremo, comunque, nei prossimi giorni il dettaglio del pacchetto di “punizioni” stabilito.
  Il Brasile, che è membro temporaneo, insieme alla Turchia, del Consiglio di Sicurezza, ha fatto sapere che non intende nemmeno discutere il contenuto della nuova risoluzione, perché prima si deve valutare l’accordo sottoscritto a Teheran. E’ possibile che ciò serva alla Russia e, soprattutto, alla Cina, per prendere tempo rispetto alla risoluzione Onu. Questi due Paesi, forse, sono stati un po’ troppo frettolosamente ingaggiati dalla Clinton nello schieramento “punitivo”, ma è possibile che abbiano concesso solo un assenso di massima per mostrare, come sempre gli viene chiesto, una “responsabilità internazionale” degna del loro ruolo. Comunque vada a finire con l’accordo di Teheran –c’è pure l’eventualità che non venga rispettato da Ahmadinejad, il quale usa la partita del nucleare per affermare il ruolo di potenza del suo Paese- si tratta del passo ufficiale più clamoroso di un mondo multipolare allo stato nascente.
  La forte tendenza degli anni ’90 a un “unipolarismo imperfetto”, con Washington più o meno egemone in tutti gli scacchieri internazionali, è in crisi da tempo. Quando oggi si parla di nuove potenze emergenti, ci si riferisce per lo più al BRIC, l’acronimo che racchiude Brasile, Russia, India e Cina. Questi Paesi non rappresentano una realtà omogenea, ma la loro capacità di incidere collettivamente sulle decisioni internazionali è in forte aumento. La dichiarazione finale della loro ultima riunione, svoltasi a Brasilia il mese scorso, chiede una riforma del sistema finanziario internazionale, con una nuova ripartizione dei voti e delle quote nella Banca Mondiale e nel Fondo Monetario Internazionale. Sono istanze che non possono essere ignorate poiché la somma di queste nazioni produce una fetta considerevole del Pil mondiale e, soprattutto, rappresenta, in una fase di stagnazione delle economie occidentali, il 50% circa della sua crescita.
  A sorpresa, dopo decenni di raccomandazioni neomalthusiane sulla limitazione delle nascite, scopriamo che la forza del BRIC consiste soprattutto nelle sue enormi masse: 2,8 miliardi di abitanti, il 40% circa dell’umanità. Considerata l’ascesa politica di quegli Stati, dove è in forte crescita la domanda interna di consumi, potremmo ancora dire che il “numero è potenza”. Bisogna però aggiungere che l’alta quantità di popolazione causa ancora una forte diffusione della miseria e  uno sfruttamento dei lavoratori intollerabile. Nella classifica del Pil in miliardi di dollari, comunque, la Cina (8511) è seconda dopo gli Usa (14.033), l’India (3469) è quarta prima della Germania e la Russia (2146) precede la Francia. Le proiezioni indicano che nel 2014 la Cina incalzerà più da vicino gli Usa, l’India supererà il Giappone, la Francia sarà sorpassata dal Brasile. Le statistiche si spingono oltre, al 2020, quando il Pil dei BRIC diventerebbe doppio di quello odierno. Delle statistiche non bisogna però abusare perché non dicono tutto, perché possono mutare e perché, come sosteneva Keynes, nel lungo periodo saremo tutti morti.
  Non è opportuno dunque seguire i politologi attratti dalla futurologia, ma nemmeno possiamo ignorare come gli equilibri mondiali stiano cambiando. La presenza del capo del governo turco Erdogan alle trattative per l’accordo sottoscritto a Teheran  conferma, per esempio, il mutamento della politica estera di Ankara. Probabilmente, ha contato parecchio la frustrazione per l’infinita anticamera cui l’ha costretta la Ue, ma è chiaro che la Turchia, da qualche tempo, non guarda più solo ad Occidente. Infrangendo il dogma kemalista, che imponeva una completa occidentalizzazione come strumento per la modernizzazione e il ripudio dell’islam in politica, ora il governo di Erdogan sembra individuare nel mondo arabo la “profondità strategica” necessaria.  Non ci sono rotture con lo storico alleato statunitense, ma alcuni fatti hanno incrinato l’ortodossia occidentalista. La clamorosa sfuriata di Erdogan contro Shimon Peres, durante un convegno a Davos nel gennaio dell’anno scorso, provocata dallo sdegno per l’attacco a Gaza, dimostra come anche i rapporti con Israele siano stati riconsiderati.
  Il governo del partito islamico moderato Akp procede, però, sul filo di una lama che già in passato ha tagliato di netto le aspirazioni dei suoi sostenitori. Dopo l’arresto, qualche settimana fa, di una cinquantina di ufficiali accusati di preparare attentati per provocare la caduta del governo, ora la tensione tra gli uomini di Erdogan e i militari è di nuovo alta. E’ in gioco la convocazione di un referendum per confermare la legge che aumenta il numero dei magistrati di nomina parlamentare nella Corte Costituzionale e sottopone gli ufficiali accusati di tentato colpo di Stato al giudizio del tribunale civile e non più a quello militare.
  Quelle che sembrerebbero norme di “garanzia democratica” sovvertono, però, la geografia politica in Turchia e anche fra i giornali occidentali che seguono la questione. I laici e la sinistra, infatti, sono tutti schierati a favore dei privilegi, di casta e di potere, dell’esercito e della magistratura, considerati da sempre il baluardo contro l’islamizzazione del Paese. Il risultato di questo tesissimo confronto ci darà indicazioni sul futuro di uno dei Paesi chiave nella ridefinizione degli assetti internazionali.