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I veri nemici dell’Europa

di Ernesto Galli Della Loggia - 23/05/2010




  Le sagge proposte contenute nel rapporto presentato qualche giorno fa da Mario Monti — miranti da un lato ad accrescere la coesione sociale dei Paesi dell’Unione europea, dall’altro a promuovere il loro sviluppo — sono il massimo che oggi il progetto europeistico può chiedere alle capacità di un intellettuale di valore ed al suo sapere specialistico, il massimo che quel progetto può chiedere all’economia. Per tutto il resto, ed è il più, dovrebbe essere la politica a farsene carico. Ma è proprio qui, invece, che le classi dirigenti del continente continuano a manifestare la latitanza più completa e rovinosa


È una latitanza ormai congenita. Se ne è avuta la prova più evidente, a mio giudizio, in tutti gli anni scorsi con la disinvolta superficialità che ha fatto sì che in nessun Paese si alzasse una voce — una sola voce politica autorevole e significativa — per gettare l’allarme e avvertire di quanto andava inevitabilmente preparandosi. Che l’euro non avrebbe avuto vita facile, ed anzi prima o poi difficilissima, non ci voleva molto a prevederlo, infatti. Come poteva resistere a lungo sugli oceani tempestosi della globalizzazione finanziaria una moneta priva dello scudo della statualità, affidata unicamente alla gestione tecnica di una banca, ma per il resto in balia delle politiche economiche di un gran numero di governi, preoccupati come è ovvio solo del proprio consenso elettorale? Eppure non c’è stato alcun importante esponente politico di destra o di sinistra, che io ricordi, il quale abbia richiamato l’attenzione delle opinioni pubbliche sul pericolo imminente e per molti versi inevitabile.

L’Italia non ha fatto certo eccezione, anzi semmai è stata un esempio della superficialità di cui dicevo. Qui da noi, infatti, non solo nell’ambiente politico propriamente detto ma più in generale in quello giornalistico, accademico e culturale, è sembrato che si facesse a gara da parte di tutti (o quasi) nel chiudere gli occhi, nell’ostentare un vacuo quanto volenteroso ottimismo, e naturalmente nel bollare sprezzantemente di «euroscettico» quanti esprimevano un punto di vista diverso. Adesso sì che finalmente si vede dove conduceva invece la lungimiranza degli europeisti di professione!

In realtà, nulla come il discorso sull’Europa ha mostrato, in Italia e fuori, la pochezza che caratterizza ormai da almeno due decenni le classi politiche e i governanti del continente. Una pochezza che non solo in questo caso ha preso due forme. Da un lato l’incapacità di andare controcorrente, di affrontare magari una temporanea impopolarità pur di testimoniare un valore di verità politica e ideale. Non credo, infatti, che l’eurottimismo fosse davvero così condiviso e generale come esso sembrava. Generale è stata però la volontà di non rischiare, di non apparire isolati. Come se la routine e il conformismo intellettuale fossero ormai il solo orizzonte possibile. La seconda forma della pochezza delle classi dirigenti europee è apparsa in tutto questo tempo la perdita da parte loro precisamente del significato della politica, del valore della decisione politica nel senso più alto e più pieno del termine. Della sua inevitabile necessità quando le cose sono giunte al punto in cui erano (e sono) giunte nel processo di costruzione europea. Chi oggi ancora non lo capisce, o non ha il coraggio di dirlo, o magari dice che le priorità sono altre, è in realtà il vero nemico dell’Europa.