Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Quella Sicilia così “caliente” di Brancati

Quella Sicilia così “caliente” di Brancati

di Marco Iacona - 24/05/2010

http://www.sindacatoscrittori.net/comunicazione/news3/brancati.jpg


Una quantità di ingegni – e talenti – da far paura. Pronta ad accendere i più bei ricordi e le migliori nostalgie. È il prologo adeguato per introdurre Il Bell’Antonio, prima romanzo di Vitaliano Brancati (1949) e poi film di Mauro Bolognini (1960), che proprio in questi giorni compie il mezzo secolo di vita. Frutto di un felice incontro fra il regista toscano morto nove anni fa e lo sceneggiatore Pier Paolo Pasolini, la pellicola vede come protagonisti una splendida Claudia Cardinale nella parte della giovane Barbara Puglisi e un serioso ma pur sempre eclettico Marcello Mastroianni nella parte del personaggio principale: Antonio Puglisi. L’indimenticabile Rina Morelli veste invece i panni della madre di Antonio.
Film bellissimo, intenso e dolente quello di Bolognini, regista di casa nostra forse un po’ dimenticato che seppe spaziare fra più generi, a cominciare dal neorealismo, passando per Totò, spingendosi, negli anni Settanta, fino alla regia teatrale (Norma, Aida, Fanciulla del west); un film culturalmente interessantissimo come d’altra parte lo era stato il romanzo di Brancati che vinse il premio Bagutta. Rivisto cinquant’anni dopo ha il gusto classico del “come eravamo” (e come in parte siamo ancor oggi…), come vivevamo quando la Sicilia era più di tutto la terra dei pubblici contrasti o dei patti d’onore e dei vizi privati (ora lo è un po’ di meno - forse); patria di comunità legate da vincoli strettissimi molto netti e da non tradire, pena la perdita o l’acquisizione di una nuova immagine gradita, ovviamente, a un gran numero di “testimoni”.
Una terra complicatissima, la Sicilia, nella quale uomini e donne risultano vittime di qualcosa che confina con l’apparenza, una terra nella quale i sentimenti si specchiano negli sguardi della gente, per uscirne eternamente perdenti. Il dramma del bell’Antonio è quello di esser stato dichiarato guarito dal suo problema, quello di non poter amare fisicamente – tutta la città lo ha saputo: è il primo pensiero della madre che scopre che la servetta Santuzza è incinta del figlio – ma di aver già chiuso con la donna di cui è innamorato, l’ex moglie Barbara, allontanatasi da un uomo che non è mai stato veramente “uomo”. La scena finale del film poi è straordinaria, vale un intero capitolo di chiacchiere sul comportamento umano (ipocrisie comprese). Antonio che parla al telefono al cugino Edoardo felice di apprendere che il “malato” è “guarito”. Felice di candidarsi a padrino di battesimo del figlio di Antonio (naturalmente maschio e naturalmente col nome del nonno il siculissimo Alfio). Ma Antonio è distrutto perché il grande amore lo ha abbandonato. Ha sconfitto il “male”, è un vincente agli occhi della comunità cui appartiene – aveva perso la stima degli altri – ma sarà costretto a vivere (probabilmente per sempre), con una ferita profonda: la perdita della moglie risposatasi con un nobile.
Situata a metà esatta fra due “mondi” diversi, fra due epoche diverse: prima e dopo i “formidabili” anni Sessanta (anche se in Sicilia i cambiamenti sono sempre stati molto lenti), la pellicola del Bell’Antonio riproduce due immagini, due stati d’animo fra loro intrecciati: la sconfitta dell’amore fra due giovani e dunque la sconfitta della loro individualità – l’amore almeno come lo intendiamo adesso, è sempre un fatto fra individui – di fronte alle convenzioni e alle regole di una comunità impermeabile alle “novità” (la città è la splendida Catania, ritratta nei suoi luoghi più belli, che peraltro anni dopo faranno da cornice al film di Franco Zeffirelli: Storia di una Capinera), e l’impossibile felicità di chi è stretto nelle spire di un’umanità che non dà scampo. Quello della piena soddisfazione amorosa è un “evento” che prescinde dal sé, lo esclude in toto per andare a posizionarsi nella sfera della personalità altrui. La mia felicità è esclusivamente la tua felicità, anzi la vostra: è questo il verdetto terribile posizionato nel baricentro perfetto dei due grandi analisti della mente umana, due mostri sacri del Novecento: Freud e Pirandello. Il nostro Brancati certamente non ha la velleità di rivelare chissà quale “oggetto” o verità, ma ha indagato ugualmente a fondo l’animo delle genti; di quelle mediterranee, di quella Sicilia che, per dirla con Eugenio Montale, scoprirà nella seconda parte della sua vita. Ma già nella prima parte, questo siciliano di Pachino (Siracusa) morto molto più a Nord, nel ’54, nella piovosa Torino, aveva mostrato di possedere un talento indiscutibile. Intellettuale a tutto tondo, ad appena venticinque anni (ricordiamo che morirà ad appena quarantasette anni), aveva già pubblicato 6 volumi.
Già iscritto al Partito nazionale fascista e ispirato da Gabriele D’annunzio e da quella religione “laica e nazionale” che sarà per lui il fascismo (figurarsi a quali livelli potesse giungere la sua “fede”), nel 1936 Brancati incontra Mino Maccari e Leo Longanesi che ne fiuta le capacità e lo vuole a Omnibus, primo rotocalco italiano. Il dissenso dal fascismo è però maturo già dalla prima metà degli anni Trenta, anche se (o forse proprio per questo) nel 1940 l’autore siciliano è ancora parte della truppa del bottaiano Primato, riserva di caccia per antifascisti di gran merito. Nel dopoguerra arrivano le collaborazioni al Tempo di Renato Angiolillo, all’Europeo di Arrigo Benedetti, al Corriere della Sera e al Mondo di Mario Pannunzio. Trasferitosi più volte a Roma, Brancati vive a pieno l’ambiente culturale del suo tempo, ha relazioni (tanto per dire) con Alberto Moravia, Ennio Flaiano, Vincenzo Cardarelli, Ercole Patti e Sandro Penna. In Sicilia ha già conosciuto l’altro grande genio della letteratura meridionale: Leonardo Sciascia. Attratto anche dal cinema non si farà mancare le collaborazioni con Luigi Zampa, Alessandro Blasetti, Luchino Visconti, Roberto Rossellini, Mario Monicelli e Steno. L’elenco dei soggetti e delle sceneggiature che scriverà per il grande schermo supera di gran lunga quello del teatro e della saggistica. Tre anni prima di morire, infine, scandalizzerà il pubblico dei benpensanti con il dramma La Governante il cui argomento, l’omosessualità femminile, subirà la censura come nel 1934 il suo primo romanzo erotico: Singolare avventura di un viaggio. Morirà prima di terminare e veder stampato uno dei suoi più bei romanzi Paolo il caldo, autorizzandone tuttavia la pubblicazione. Il suo capolavoro resta Don Giovanni in Sicilia (1941), bel romanzo sulla Sicilia ironica e “passionale”.
Pasolini-Bolognini-Brancati: che trio delle meraviglie! Siciliano più fuori che dentro: piccolo, magro, scuro e spirito libero d’una libertà illuminista, illuminata e più di tutto illuminante, il pachinese ricorda per un realismo che ama sfociare nel grottesco anche i grandi Anton Cechov e Nikolaj Gogol l’alfiere della letteratura dello smascheramento della realtà sociale. Un siciliano tutto o quasi tutto da ridere insomma. Attenzione però. C’è sì, in lui, quel gioco di corrispondenza fra le vicende dell’Isola e la realtà nazionale (colta durante il periodo fascista), ma una lettura di questo tipo porterebbe a disconoscere la singolarità del “tipo” siciliano e a tradire l’originalità della scrittura brancatiana. In fin dei conti Il bell’Antonio andrebbe letto come un romanzo “verità” sui valori della società siciliana tout court. Il film di Bolognini potrebbe consigliare una “nuova” esegesi dato che l’azione viene spostata e resa di fatto ancor più seria. Il rapporto del maschio-siculo col sesso è un intreccio di fede, inquietudine, malattia ed eroismo: la sessualità è un complesso di avvenimenti, in sé e per sé un assoluto, e poche “cose” stanno al di là del suo orizzonte. Non dimentichiamo che in Sicilia è il valore dei valori e racchiude un universo di debolezze, stili e atteggiamenti: la vanità, l’arretratezza, l’ossessione e quant’altro. Si potrebbe girare per i caffè e le botteghe ai piedi dell’Etna per rendersene conto, basterebbe soltanto osservare e ascoltare per capire meglio: immaginando il “codificatore” di vizi e virtù meridionali, il gran catanese di Pachino, annuire e magari sorridere un po’.