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Il “dunque” cartesiano e il divenire

di Alessandro Cappelletti - 24/05/2010


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L’era moderna della filosofia nasce con il famoso assunto cartesiano: cogito ergo sum (Io penso dunque sono) nel quale il soggetto (Io) compie un gesto meccanico (penso) che lo trasforma in oggetto (dunque? Sono) della propria azione. L’esperienza biologica viene così rappresentata in negativo da un’arbitraria osservazione dall’interno del soggetto che si pensa e si definisce, rispetto a ciò che dall’esterno si suppone che sia (l’oggetto “Io” che viene pensato e dunque “è” ed “è oggetto” dell’azione compiuta da se stesso) creando una relazione etica fra la causa (l’Io pensante) e l’effetto (l’Io pensato) in cui è solo il singolo che definisce a sua propria somiglianza le coordinate spazio-temporali nell’ambiente in cui agisce.

Con questa rappresentazione “umano-centrica”, che nasconde un certo retrogusto nichilista e materialista, Cartesio introduce nella modernità il concetto di  relativismo etico di ispirazione rigidamente razionalista che giungerà a compimento con Hegel nel diciannovesimo secolo il quale, sostenendo che non esiste alcun pensiero che non sia basato sulla ragione per cui: «tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale», nega qualsiasi attinenza che si possa riferire alla Volontà, alla Creatività, all’Irrazionale, circoscrivendo alla relazione biunivoca fra ragione e materia il campo di indagine sulla conoscenza. Questa coniugazione del pensiero con la razionalità, portò Hegel a sostenere la coincidenza di Divenire ed Essere, ovvero del relativo con l’assoluto, che arrivò a definire attraverso l’utilizzo estremo della dialettica, unico strumento in grado di dimostrare l’esistenza di un soggetto che, poggiandosi sulla propria negazione, trova la sua conseguenza logica nell’oggetto che si viene a determinare dal reciproco confronto. Il contrasto di una Tesi con la sua negazione in Anti-tesi, può infatti realizzare una Sin-tesi logica capace di avvalorare qualsiasi ipo-tesi che sia coerente con il principio di ragione sopra esposto, anche quando dovesse violare palesemente i principio di non contraddizione. Si tratta dell’idea che è alla base del moderno pensiero liberale e progressista, il quale pretende di interpretare la realtà solo attraverso una sterile contrapposizione dialettica che sottintende un relativismo etico che nulla giudica ma tutto definisce, partendo dall’io pensante che definisce se stesso per arrivare al materialismo razionale dell’idealismo hegeliano.

Questo assurdo trova una giustificazione se e solo quando venga imposto un dogma morale che neghi ogni dimensione trascendente in grado di mettere in discussione la Ragione. Il pregiudizio che si viene a formare, quindi, suppone e presume la centralità dell’uomo a misura di ogni cosa, e dunque non l’Assoluto, né il Valore (inteso come ciò che Vale e per sempre), né tanto meno la Creatività, ma l’individuo singolo è il solo che può esprimere un giudizio sugli oggetti con la propria valutazione relativa e particolare, imponendo uno schema auto-referenziale che darà a ciascuno l’illusione di avere una propria libera opinione. Eppure quando confrontiamo questo modello con l’esperienza quotidiana, notiamo che la complessità del reale genera tutta una serie di contraddizioni che si scontrano con l’ordine supposto dalla ragione. Avendo confutato la diversità fra Essere e Divenire, la Ragione non riesce più neanche a distinguere l’unità dal molteplice schizofrenico e produce un cortocircuito dialettico in cui tutte le opinioni hanno comunque un valore, poiché sono la manifestazione dell’Io pensante, anche quando contraddicono e negano se stesse, poiché sono l’espressione del reale razionale.

«L’uomo nuovo è l’erede dei grandi sconvolgimenti che hanno cambiato il mondo negli ultimi cinquant’anni. (…) Nato nel mezzo di queste forze, egli è ora l’uomo del destino. Ma quale destino? L’uomo nuovo non lo sa. L’uomo nuovo, a differenza di suo padre e dei suoi avi, non ha salde convinzioni. Non c’è un’autorità alla quale possa chiedere una guida, poiché ha negato qualsiasi autorità. Non ha una fede assoluta perché non trova prove che lo convincano su un qualsiasi dogma della fede. Diffida di tutti gli ideali perché teme che possano risultare falsi e di tutte le leggi perché teme posano rivelarsi tiranniche. Egli si pone continuamente domande alle quali non sa dare risposte. Nella mente dell’uomo nuovo è un eterno questionare. Egli non accetta nulla per garantito. Mette in discussione le leggi della vita. E’ alla ricerca di esperienze e procede a tentoni verso nuove avventure morali e sociali. Nulla gli sembra giusto e nulla gli sembra sbagliato. Su tutto è agnostico.» (Philip Gibbs. The New Man. A portrait study of the latest type. Londra, 1913.)

Di fronte a questo collasso, la Ragione si guarda attorno disorientata e confusa, con le vesti strappate, incapace di trovare un luogo di riferimento, inadeguata a quello sforzo creativo di potenza che potrebbe sollevarla al di sopra del molteplice per raggiungere una visione d’insieme delle cose.

Così come successe a cavallo tra il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo, anche oggi le lancette del tempo girano vorticosamente, diminuendo lo spazio e il tempo per la valutazione e la misurazione degli eventi, e ci costringono necessariamente ad una riflessione che vada oltre la parzialità di un ragionamento basato sulla visuale di un oggi che prelude a un domani indefinito: per avere una visione del tutto è necessario sintetizzare i frammenti della complessità in un’unità di forma superiore che rovesci l’orizzonte prospettico razionale.

Lo scorrere furibondo ed impetuoso del tempo è una sfida entusiasmante che ci pone di fronte a nuove scoperte, nuove macchine, nuovi strumenti, nuovi lavori, nuovi ritmi di vita, nuove distanze geografiche reali e virtuali, nuove capacità, nuove medicine e quindi  per non finire travolti dal flusso degli eventi, bisognerebbe non aver paura di smarrire per strada le proprie certezze consolidate, ma porsi di fronte alle nuove conoscenze con il coraggio del viandante che intraprende un nuovo cammino, consapevole di dover affrontare pericoli sconosciuti e di poter contare solo sulle proprie forze.

«La grandezza dell’uomo sta in questo. Che egli è un ponte e non uno scopo. Ciò che può farlo amare è il fatto che egli è un passaggio e un tramonto». (Friedrich Nietzsche – Così parlò Zarathustra. Chemnitz, 1885.)

Avendo perso le coordinate spazio-temporali verso l’Assoluto e non avendo più nient’altro che dubbi e domande, ciò che resta dell’eredità cartesiana e del razionalismo hegeliano è il “dunque”, ovvero un interrogativo sospeso nel vuoto esistenziale. L’Essere Uomo si trova oggi a vivere nel futuro pur essendo rimasto nel passato e così, nella sua inconsapevolezza, avanza, restando prigioniero del lato oscuro della libertà che limita l’esperienza biologica ad una malinconica successione di stimoli elettro-chimici e lo riducono a essere una parte anonima di un sistema meccanico predisposto, incapace di disporre del proprio destino. Per riscoprire il proprio ruolo nel Cosmo, avrebbe bisogno di separare nuovamente il Divenire dall’Essere ma, avendo ripudiato gli strumenti adeguati a questa ricerca, egli si limita a simulare una totalità artificiosa, dispotica nell’imporre le sue superstizioni, senza riuscire a comprendere la pluralità degli elementi.

Per questo motivo occorre rovesciare lo stucchevole tabù moralista del materialismo razionale e spezzare le catene che impongono il rapporto meccanicistico di causa-effetto ad ogni aspetto della vita, per scoprire nuovamente un Sapere che sia creativo, tradizionale e futurista.

Per questo motivo, bisogna chiedersi se siano ancora adeguati, come piattaforma di partenza, i concetti elaborati da Nietzsche (volontà di potenza, eterno ritorno dell’uguale, oltre-uomo) circa un secolo fa, agli albori di quella rivoluzione filosofica che ancora oggi domina il pensiero.

Questo è l’interrogativo, il “dunque”, cui l’avanguardia culturale del terzo millennio deve dare una risposta.