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Accogliere il reale senza giudicarlo lasciandosi portare dal flusso della vita

di Francesco Lamendola - 26/05/2010

 

A volte, camminando lungo le strade del nostro apparente benessere, mi trovo a fissare un portone, una finestra, un terrazzo e a domandarmi che cosa ci sarà dietro quelle pareti ben verniciate, quegli scuri perfettamente spolverati, quelle mattonelle scelte con cura dal ceramista: una famiglia serena oppure lacerata dalla sofferenza?
Anche se la grande ipocrisia vuole che di certe cose non si parli ad alta voce, la realtà è che un numero sempre crescente di persone cade nelle buie spire della depressione, della nevrosi, dell’esaurimento, instaurando dinamiche distruttive per sé e per quanti stanno loro intorno; persone che conducevano una vita apparentemente normale e che, da un giorno all’altro, si trovano sprofondate in un incubo ad occhi aperti, straziate da un malessere che non riescono a controllare, oppresse da un’angoscia che non dà loro tregua neanche per un attimo.
Già, chi lo avrebbe detto? Parliamo di uomini e donne, specialmente donne, che vivevano all’insegna del decoro, della precisione, dell’ordine; che non facevano entrare in casa gli amici, se prima non era tutto perfettamente lucidato e spolverato; che non andavano nemmeno alla bottega all’angolo,  se prima non erano state dal parrucchiere e se non avevano indossato uno dei vestiti migliori.
Quanta pulizia; quanta puntigliosità; quanta ipocrisia.
E adesso eccoli lì, quegli uomini e quelle donne: pare che il mondo sia crollato loro addosso, non osano mettere il naso fuori di casa perché l’ansia li piega in due e il terrore di non guarire, di diventare matti, li tortura ventiquattr’ore su ventiquattro. Erano così preoccupati della loro automobile nuova, la lavavano tutti i sabati come se fosse stata un essere umano, una figlia prediletta; e ora non sono in grado di badare a se stessi e vagano da uno psichiatra all’altro, lasciandogli somme astronomiche in cambio di qualche parola generica che qualunque amico, se l’avessero, saprebbe dire meglio, con più buon senso e con più realismo. Oppure si affidano a quantità sbalorditive di farmaci chimici che attutiscono, sì, la coscienza, e quindi anche la sofferenza, ma non risolvono il problema e creano assuefazione.
È la Nemesi della nostra civiltà consumista e senz’anima, basata sull’avere e non sull’essere, sull’apparire piuttosto che sul sentirsi. La Nemesi di un progresso che non è progresso, ma solo uno stupidissimo accumulo di beni materiali, per quanto sofisticati.
C’è un contrasto fortissimo tra la facciata, sazia e soddisfatta, della nostra società opulenta, e il malessere nascosto che la rode dall’interno, come un verme dentro la mela, e che essa ha la spiacevole abitudine di spingere sotto il tappeto perché non si veda, alla maniera di un padrone di casa un po’ cialtrone, preoccupato più delle apparenze che della sostanza. Un contrasto che nasce dalla cattiva coscienza di un modo di vivere che rimane sordo e cieco alle reali esigenze dell’anima e si preoccupa solo di bisogni fittizi ed esteriori.
Se vogliamo spezzare il cerchio di questo malessere esistenziale, dobbiamo in primo luogo trovare il coraggio e l’onestà intellettuale di confessare i nostri errori, di riconoscere la furbizia da quattro soldi che ci ha spinti a preferire l’involucro delle cose alle cose stesse, magari solo per fare un po’ di invidia al prossimo e per baloccarci con gingilli costosi; e confessare apertamente che abbiamo agito in questo modo perché sapevamo di essere pigri e vuoti, di non volerci bene per davvero, di non avere molta stima di noi stessi e pochissima fiducia nella nostra capacità di affrontare virilmente i passaggi importanti della vita.
In secondo luogo, dobbiamo imparare a porci in maniera equanime, serena e non giudicante di fronte al reale, lasciandoci portare dal flusso della vita universale di cui siamo parte, invece di fare continuamente resistenza e di opporci ad esso, in nome di un presuntuoso e sconsiderato senso di autosufficienza.
Ciò significa che dobbiamo abbandonare la tendenza a emettere continuamente giudizi; anche se ciò - è bene chiarirlo una volta per tutte - non equivale a una sorta di relativismo etico. A tale proposito, è necessario fare una distinzione fra il piano del relativo e quello dell’assoluto.
La nostra vita ordinaria si svolge nella dimensione del relativo e, in essa, il bene e il male esistono, eccome; dunque, è doveroso che noi compiamo delle scelte sulla base di tale distinzione. La nostra vita contemplativa, al contrario - quando preghiamo, quando siamo in meditazione, quando contempliamo le meraviglie della natura - possiede la facoltà di spalancarci una finestra sull’assoluto: e, in tale dimensione, non esistono la polarità e la contrapposizione, ma vi è solo l’armonia degli opposti; armonia alla quale siamo chiamati a partecipare.
Ora, mettersi in armonia con il Tutto significa aprirsi alla dimensione dell’assoluto, abbandonarsi al flusso della vita universale e accogliere con animo spassionato, benevolo ed imparziale ogni aspetto del reale: l’ombra e la luce, la gioia e il dolore, il passato e il presente.
Facciamo un esempio pratico.
Nella vita ordinaria, incontrare un santo uomo, oppure un mafioso assassino, non è esattamente la stessa cosa. Verso il primo proveremo, istintivamente, rispetto e venerazione; nei confronti del secondo, paura e disprezzo. È giusto che sia così; ed è giusto che noi assumiamo un atteggiamento di umiltà e di ascolto verso il santo, mentre faremmo bene - se appena lo possiamo - ad adoperarci perché l’assassino venga fermato e posto in condizione di non nuocere più. 
Nella vita contemplativa le cose, però, stanno altrimenti. Nella vita contemplativa, estatica, affacciata sull’assoluto, il santo che si vede venire incontro l’assassino non prova né paura, né disprezzo: non lo giudica affatto; anche se, ovviamente, pregherà per lui e potrà anche consigliarlo di convertirsi, di costituirsi, di lasciar morire in sé l’uomo vecchio e malvagio. Ma non si mostrerà disgustato davanti a lui: lo guarderà con rispetto, compassione e imparziale benevolenza, come si dovrebbe guardare ogni creatura vivente.
Lo guarderà sino in fondo all’anima, ignorando le circostanze accessorie della sua condizione di bandito: perché un uomo può diventare assassino senza essere veramente malvagio, ma solo sfortunato; e, viceversa, può essere veramente malvagio, pur senza aver mai infranto la lettera delle leggi umane. Lo guarderà come padre Zosima guardò Dimitrij Karamazov, con profonda partecipazione umana; ma non giudicherà l’uomo.
E ciò non per altra ragione che questa: che il santo, il mistico, l’uomo veramente buono, sanno scorgere sempre il diamante che giace in fondo ad ogni creatura. Un diamante nascosto, magari, nelle pieghe più profonde dell’anima, sotto chissà quanto strati di sporcizia; e, tuttavia, un diamante meraviglioso, addirittura divino. Sì, perché in fondo ad ogni creatura vi è una scintilla o un riflesso della sua origine luminosa, celeste.
Ed ora torniamo al nostro assunto iniziale.
Molto spesso la sofferenza psichica e morale nasce dalla consapevolezza della profonda disarmonia che caratterizza la nostra vita; disarmonia che ci allontana dalla nostra parte più vera e profonda, la quale, a sua volta, è legata per mille file al centro della vita universale. Al centro della nostra anima, vi è l’universo intero; al centro della nostra anima vi è l’Essere. Ecco perché in noi si cela un diamante: perché noi siamo al centro del Tutto e risplendiamo della sua luce.
Mentre sto scrivendo queste righe, il sole ormai tramontato getta un incredibile fascio di luce gialla dietro le cime dei monti che illumina dal basso i densi strati di nuvole compatte, creando un indescrivibile senso di leggerezza e di ascensionalità che riempie l’animo di stupore, di ammirazione, di sconfinata gratitudine.
Tale dovrebbe essere la nostra disposizione interiore in ogni ora della giornata, in ogni momento e circostanza della vita. Stupore, ammirazione, gratitudine: come una preghiera di lode perennemente rivolta alla sorgente dell’Essere, donde veniamo e alla quale ritorneremo.
Accogliere il reale senza giudicarlo e lasciarsi portare dal flusso della vita non sono cose che si possano improvvisare, se si è sempre vissuti afferrandosi alle cose, giudicandole incessantemente e sopravvalutando in maniera costante la propria capacità di incidere sulle persone e sulle situazioni, allo scopo di “migliorarle”.
Affidarsi alla vita, lasciarsi andare nella sua corrente, significa, in primo luogo, aver fiducia in essa, nella sua fondamentale bontà e saggezza. Il bambino piccolo non si lascia andare, se non affidandosi ai suoi genitori; non ha piena fiducia se non in loro.
Tale è la natura dell’essere umano: per rimettersi interamente a qualcuno o a qualcosa, è necessario che egli nutra una fiducia illimitata in essi. Ne deriva che bisogna amare profondamente la vita e avere il pieno e radicato sentimento della sua bontà, per vincere le proprie resistenze interiori e lasciarsi andare.
Ma che cosa vuol dire fidarsi della vita, della sua bontà e della sua saggezza? Non ci è sempre stato insegnato che siamo noi gli artefici del nostro destino; che siamo noi a foggiarci una vita bella o brutta, felice o infelice, ricca o squallidamente misera?
In realtà, l’idea che l’uomo sia artefice del proprio destino («quisque faber fortunae suae», pare dicesse già Appio Claudio Cieco), presa nel suo significato letterale, ateo e materialistico, è relativamente recente: si afferma col Rinascimento, in particolare con Machiavelli, e diventa un articolo di fede nella piena modernità; ma non corrisponde ad una modalità intrinseca dell’essere umano.
Nemmeno il delirio di onnipotenza suscitato dalla notizia che il genetista americano Craig Ventre è riuscito a produrre le prime cellule in grado di autoreplicarsi, dunque le più vicine al concetto di «vita artificiale», può mutare il fatto che l’essere umano sa bene di non poter dominare la realtà a proprio piacere, checché ne abbiano detto i vari Francio Bacon, tutti infervorati dall’idea di poter “migliorare” la natura con dosi massicce di manipolazione.
Vi è, nella cultura occidentale moderna, la tendenza a sovradimensionare oltre ogni limite ragionevole l’ambizione dell’uomo di modificare a proprio vantaggio le circostanze esterne e, soprattutto, a trarne l’indebita conclusione che da tale manipolazione derivi automaticamente un benessere a livello spirituale.
L’occidentale moderno critica le culture orientali perché vi scorge il difetto del fatalismo, della rassegnazione, perfino dell’indolenza; ma, senza voler negare che è giusto affrontare la vita con spirito energico e intraprendente, non bisogna nemmeno cadere nell’eccesso di pensare che tutto dipenda da noi e che noi dobbiamo per forza opporci alle cose, contrastandole e piegandole ai nostri disegni, quando potremmo invece inserirci armoniosamente al loro interno e assecondarne il flusso, cercando di riconoscere il loro linguaggio segreto.
Le cose ci parlano, tutto ci parla, se noi sappiamo essere abbastanza umili e abbastanza disponibili per ascoltarne il messaggio; altrimenti, noi ci porremo in guerra perpetua contro le cose, provocando una scissione anche nel nostro stesso io. Quante volte non abbiamo creduto giusto intervenire in maniera invasiva contro le malattie, contro le condizioni ambientali, contro il clima, finendo per provocare effetti collaterali disastrosi, invece di assumere un atteggiamento di ascolto e di collaborazione con le forze della natura?
Da quando abbiamo preteso di eliminare la sofferenza dalla nostra vita, noi abbiamo dichiarato guerra all’intero creato; e, inseguendo un pericoloso miraggio di felicità, ci siamo allontanati sempre più dal nostro baricentro spirituale. Il nostro errore è stato quello di identificare la sofferenza con il male, mentre essa non è il male, ma può essere, al contrario, una preziosa occasione di evoluzione spirituale, vale a dire di bene. Ispirati da una filosofia atea e materialista, abbiamo creduto che eliminare la sofferenza significasse distruggere il male, il negativo; e abbiamo perso di vista la semplice verità che la gioia non potrebbe esistere senza la sofferenza, così come la luce non potrebbe esistere se non vi fossero le tenebre.
Tutto, nella realtà di cui siamo parte, ha un significato, tutto ha un senso: anche la malattia che ci colpisce; anche la siccità che inaridisce i campi; anche i parassiti che aggrediscono le nostre colture alimentari. Con ciò non si vuol dire che la malattia non vada curata, che i campi assetati non vadano irrigati o che il grano non vada protetto, affinché possa darci il pane di cui abbiamo bisogno; ma il nostro intervento dovrebbe essere sempre saggio, proporzionato, consapevole e lungimirante. Non può essere una guerra permanente e implacabile contro la natura, che è nostra madre e della quale siamo parte integrante.
Allo stesso modo, non dovremmo sopravvalutare la nostra capacità di crearci il nostro destino, perché, come disse qualcuno, «i nostri capelli sono contati» e «nemmeno la piuma di un passero potrebbe cadere, se non è stato stabilito dall’alto». Le persone che incontriamo, le occasioni che cogliamo o che lasciamo cadere, la azioni che decidiamo di intraprendere, non sono unicamente opera nostra, ma rientrano in un disegno infinitamente vasto, rispetto al quale noi non siamo che una minuscola parte, per quanto preziosa.
Noi siamo forti e pressoché invincibili quando sappiamo inserirci nel ritmo della vita universale; diventiamo fragili e vulnerabili quando abbiamo la strana pretesa di fare tutto da soli, magari scendendo in guerra contro le cose, le situazioni, le persone.
Essere in armonia con la vita significa essere positivi: saper dire dei «sì», invece che indurirsi nei «no».
Perché solo un atteggiamento di tipo affermativo può metterci in grado di usufruire di quella immensa riserva di energie morali che giace in fondo alla nostra anima e che coincide, in sostanza, con lo splendore medesimo dell’Essere.