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La corsa alla green economy

di Lorenzo Mari - 26/05/2010

 




 

Non molto tempo fa, gli ecologisti erano guardati con sospetto da molti, sia tra i nemici che tra i potenziali alleati. Le ricette che venivano proposte per salvaguardare (e a volte, ma non sempre, promuovere) la salute del pianeta Terra e delle sue specie erano ricevute con diffidenza, analizzate minuziosamente alla ricerca dei costi, in termini economici e sociali – puntualmente trovati… – e quindi regolarmente cestinate.
Con tanto di scrollata di spalle.
Talvolta, certamente, l’idea di sconfitta era ammessa, a priori, dagli stessi movimenti ambientalisti, attratti, prima di tutto, dalla bontà dei propri principi e lontani da una qualsiasi spendibilità politica e sociale delle proprie elaborazioni.
Da qualche tempo a questa parte, invece, immersi nel clima di cambio incarnato dalla presidenza Obama (“clima” spesso più forte dello stesso “cambio”), la percezione dell’ecologismo sta subendo modifiche radicali, soprattutto a livello simbolico e linguistico. Non si tratta più di ecologismo, ma di green economy: puntare i riflettori sull’ambiente è cosa buona e giusta, oggi, non tanto per il principio in sé, ma perché è (anche) una via verso il guadagno, per segnare i tanto desiderati attivi, “in tempo di crisi”.
Mutatis mutandis, siamo di nuovo davanti allo hippie che diventa yuppie, ma, in questo caso, verrebbe da dire, “meno male!” La green economy, in altre parole, potrebbe dare una mano a noi, mentre dà una mano a se stessa. Ma come funziona, il giocattolo dell’economia verde?
Trainata dagli investimenti nel campo delle fonti energetiche rinnovabili (fotovoltaico, eolico, biomassa), certamente più redditizie del petrolio o dell’uranio, i cui mercati sono ampiamente drogati, la green economy completa la sua corsa – evocata dal titolo del brillante reportage del giornalista Antonio Cianciullo e del ricercatore Gianni Silvestrini per Edizioni Ambiente (2010) – con altri importanti passi: la riduzione delle emissioni di CO2 come forma di investimento, gli incentivi nel settore I&R, lo sviluppo di una responsabilità sociale d’impresa che non è paravento né contentino, ma parte integrante della mission aziendale, le molteplici “riconversioni verdi”…
I profitti si registrano, e con ampio margine, in tutti questi settori, giustificando la virata green proclamata da Obama, e dagli obamiani, che è stata poi praticata con successo nell’ambito di realtà assai differenti.
C’è la Germania di Angela Merkel, impegnata in un costante aumento del peso delle fonti rinnovabili nel quadro energetico nazionale.
C’è, a sorpresa, la Cina turbo-capital-comunista: criticata da tutti per la grande capacità inquinante, è ignorata, invece, per quanto riguarda le soluzioni verdi, che sono forse poco consistenti, se messe in un rapporto quantitativo con la prima, ma rimangono molto interessanti, sul piano locale, e sono, in genere, assai innovative, sul piano qualitativo.
C’è anche l’Italia, il cui governo ha recentemente espresso un consenso quasi generalizzato verso il ritorno al nucleare (tradendo la volontà popolare espressa dal referendum del 1987), cioè verso un business che non è affatto grandioso come ci si prospetta – come osservano Silvestrini e Cianciullo, l’energia nucleare garantisce profitti assai incerti e su tempi troppo lunghi per fronteggiare, ad esempio, l’attuale crisi economica – ma che, nonostante questa miopia, è ancora in lizza tra le cosiddette “grandi potenze” per, è il caso di dirlo, un posto al sole.
La logica del profitto, tuttavia, non può bastare a giustificare una scelta ambientalista che si voglia considerare in tutto e per tutto tale, perché si tratterebbe della stessa logica del turbo-liberismo oggi in auge nel mondo globalizzato. E le analogie nelle cause si rivelano poi analogie negli effetti.
I casi citati di successo economico, per esempio, hanno quasi sempre (almeno) un lato oscuro.
Le fonti rinnovabili, per esempio, sono in crescita esponenziale oggi, in un contesto di crisi economica, che va a minare le dinamiche macro-economiche più tradizionali, e, d’altro canto, in un momento di quasi verginità del settore delle rinnovabili, ma non garantiscono di mantenere lo stesso passo per il futuro, né di non essere esse stesse una tra le tante bolle speculative.
L’investimento nelle riduzioni delle emissioni di anidride carbonica ha giovato a chi lo ha praticato con costanza, negli anni (interessantissimi i casi della Leaf Community del gruppo Loccioni, o delle aziende della provincia di Prato, in Italia) ma ha ingenerato, a livello internazionale, un mercato dei crediti CO2 di grande ambiguità, come segnalava un reportage di Mark Shapiro per Harper’s (“Inside the Carbon-Trading Shell Game”, febbraio 2010), rimpallato in Italia da Internazionale, a metà aprile.
E così via: la “sostenibilità” si appresta a diventare un nuovo marchio dell’economia globalizzata, un brand come tutti gli altri, seguendo la strada già ampiamente battuta dal “multiculturale”.
Marchio che, dunque, tra le altre cose, potrebbe conoscere la propria personale crisi ed essere convertito in qualcos’altro di più appetibile, prima di apportare reali benefici al sistema, nonché all’ecosistema.
Cianciullo e Silvestrini, quantunque vistosamente obamiani, sembrano essere perfettamente consapevoli di questo rischio e, senza mai nominarlo (lasciandolo al campo, simbolicamente, linguisticamente e culturalmente molto vivace, ma politicamente ed economicamente irrilevante, della critica culturale), cercano di porvi da subito rimedio. È il primo capitolo del libro, infatti, a invocare la “democrazia energetica”, che, favorendo un decentramento progressivo nella produzione (fino all’utopia dell’autoproduzione su scala nazionale) e nell’approvvigionamento, spezzerebbe le catene della dipendenza energetica e dei suoi massacranti, questi sì, costi.
Nel senso del decentramento funzionano anche tutte le analisi monografiche che vanno a comporre il libro di Cianciullo e Silvestrini: tali microanalisi rivelano certamente la freschezza dei singoli case studies, ma anche la difficoltà di un quadro generale, la presenza di innumerevoli ostacoli per risposte che si propongano come autenticamente sistemiche.
Il concetto di democrazia energetica potrebbe allora accompagnarsi ad un’altra provocazione proveniente dagli sterili (eppure assai naturali!) campi della critica culturale: “sostenibile” non sia allora un marchio da apporre sul packaging di un prodotto qualsiasi, ma sia il prodotto esso stesso di un processo di elaborazione, mirato alla solidarietà intergenerazionale. Produrre bene oggi, per poter continuare a produrre, e produrre meglio, domani.
Non più “yes we can”, in conclusione, bensì “yes we must” – “noi dobbiamo”, perché ci guadagniamo – e, ancora meglio, con una finezza etimologica da vera critica culturale, “yes we have to”, introiettando il dovere e assumendolo come proprio.
“Yes we have to”: “noi dobbiamo”, perché ci guadagniamo e perché lo sentiamo. Che è anche come dire: il verde lo capiamo, lo vogliamo.
 

Autore: Antonio Cianciullo e Gianni Silvestrini
Titolo: La corsa alla green economy
Editore: Edizioni Ambiente, Milano, 2010
Pagine: 201