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Grande incertezza, ma il problema è chiaro

di Gianfranco La Grassa - 30/05/2010




Per ben due volte Berlusconi ha offerto alla Marcegaglia il posto ministeriale di Scajola, ricevendo un duplice rifiuto. La seconda volta, la proposta è stata fatta davanti all’assemblea della Confindustria, quasi tutta rappresentata da grandi e medio-grandi industriali dei “settori decotti”, che hanno anch’essi mostrato ostilità e disapprovazione della stessa, schierandosi quindi con la loro presidentessa. Sembra abbastanza evidente che, almeno la seconda volta, il premier abbia agito per tattica, essendo già convinto della non accettazione della sua profferta. Si è trattato – come tutto lascia pensare; e alcune dichiarazioni assai credibili attribuite al premier vanno in questa direzione – di mostrare come gli industriali italiani, con una lunga tradizione dello stesso genere alle spalle, chiacchierino tanto, critichino l’operato dei vari governi, senza mai prendersi responsabilità.
  
A questo proposito è divertente, si fa per dire, riandare con la memoria a circa un anno dopo la costituzione dell’IRI nel 1933. Si dice che Beneduce, consenziente Mussolini, offerse ai grandi industriali, con alla testa la Fiat (più o meno come adesso), il nuovo possesso di buona parte dei settori irizzati, con ciò dimostrando la solita preferenza per la “socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti”. Gli industriali, assai poco lungimiranti, rifiutarono; sempre secondo i si dice, Mussolini diede loro dei “gran coglioni” e affidò a Beneduce il compito di continuare nello sviluppo e rafforzamento dei settori statalizzati. Questi ultimi nel dopoguerra, ben rafforzati prima dalla creazione dell’Eni e poi, subito dopo il boom, da quella dell’Enel, furono fondamentali per il sistema economico (e sociale) italiano. Fino all’inizio degli anni ’90, quando le ignobili privatizzazioni, decise pressoché contemporaneamente a “mani pulite” (con ciò che ne seguì e di cui si è parlato più volte), tentarono di mettere termine alla funzione dell’industria pubblica in Italia. Sicuramente si riuscì a privatizzare completamente il settore bancario, mentre in campo industriale l’opera non è stata ancora condotta al suo obiettivo finale per quanto concerne Eni, Enel, Finmeccanica, e poco altro.
  
Per l’ennesima volta, il carattere parassitario della grande industria privata italiana – coadiuvata da un apparato finanziario reso del tutto non autonomo rispetto a quello americano – viene in evidenza. Il rifiuto di assumere incarichi governativi è più che logico. Gli “industriali decotti” hanno già i loro accoliti nella sfera politica e agiscono in stretta combutta con i centri strategici – politici ed economico-finanziari – degli Stati Uniti. Essi non hanno alcun interesse a collaborare e rendersi corresponsabili di alcune decisioni dell’attuale governo; molto meglio lavorare per sfibrarlo e arrivare al cosiddetto “governissimo” (in barba alla tanto conclamata democrazia, secondo i cui metodi gli elettori hanno appena scelto una certa maggioranza invisa ai parassiti). Dopo di che, si farà in modo di completare il processo di privatizzazione, rendendo inutili, perché depotenziati al massimo, i nostri settori energetici e di punta per una qualsivoglia politica di autonomia nazionale. Proprio in questi giorni, la magistratura – apparato che supplisce le carenze politiche dei sicari dei nostri parassiti industrial-finanziari – ha attaccato Finmeccanica, mentre tutte le mene contro l’Eni sono ormai ben note.
  
Il gravissimo pericolo in cui ci troviamo non trova nessuno a denunciarlo; l’intero sistema mediatico è assolutamente carente in proposito. Non a caso, con paragone storico di larga massima (solo per rendere più visibile il problema), chiamo i settori parassiti dell’industria e finanza privata italiana i “confederati”. Il riferimento è a quella parte degli Usa di metà 800, che voleva mantenere questi ultimi sotto la predominanza dei settori di punta (allora puramente e semplicemente industriali) del paese predominante dell’epoca, l’Inghilterra. Per schiacciare i nostri “confederati”, nella situazione odierna, non vi sarebbe però bisogno di alcuna guerra civile; solo l’annientamento e l’eliminazione con la forza dei sicari politici dei parassiti industrial-finanziari, che trovano nella Confindustria il loro vertice. Senza rappresentanza nella sfera politica, l’esimia presidentessa confindustriale e i suoi consimili dovrebbero solo “ingoiare il rospo”. Non dovrebbero rifiutare alcunché, poiché a quel punto non ci sarebbe bisogno di invitarli ad assumere alcuna carica pubblica; al contrario, i vertici confindustriali sarebbero obbligati a cedere le loro poltrone a qualche rappresentante dei nostri settori di punta.
  
Purtroppo, non abbiamo in politica alcun reale organismo politico in grado di difendere l’autonomia nazionale. Il “fascista” Berlusconi non rappresenta probabilmente solo se stesso, ma comunque nemmeno un qualche gruppo in possesso di una vera strategia tesa alla suddetta autonomia. Egli traccheggia, si barcamena, ma non può durare a tempo indefinito in una situazione di così grande isolamento e debolezza. E’ uno strano “fascista”: incapace di usare l’autorità, privo di controllo degli apparati di esercizio della forza, sempre a chiedere che gli si concedano maggiori poteri per governare, usando manfrine e mezzucci (come la richiesta rifiutata di cui sopra) per dimostrare che non lo si vuol lasciar prendere le decisioni necessarie al “bene del paese”. Questo “bene” è in effetti invisibile, è sempre detto ma mai mostrato; perché, quando si arriva alla situazione in cui è il nostro paese, la visibilità di questo “bene” coincide appunto con l’uso della forza per spazzare via i sicari dei parassiti “confederati”.
  
Lo ripeto: non vi è alcun bisogno di “guerra civile” (o di secessione) per ottenere simile positivo obiettivo. Gli Stati Uniti, in quanto “Inghilterra” odierna, sono ormai abbastanza contestati nella loro supremazia mondiale (di tipologia “imperiale”). Ci si sta già introducendo nella situazione multipolare. Fallito il tentativo di fine secolo XX, e dei primi anni del XXI, di assumere questa supremazia, gli Usa sembrano ripiegare su una politica tesa a consolidare dati equilibri, nel contempo eliminando in quella che pretendono essere la loro sfera d’influenza ogni disturbo alla propria primazia. La UE, e sicuramente l’Italia, rientrano in tale sfera. L’unico modo per non essere schiacciati entro di essa, rimanendo un paese “satellite”, è quello di approfittare della situazione di equilibrio instabile, accettata temporaneamente (ma subdolamente) anche dagli USA in rapporto ad altre potenze in crescita. Approfittare significa appunto differenziare le proprie relazioni estere, saper giostrare nell’ambito dei sordi conflitti interpotenze tipici dell’equilibrata instabilità in questione; è dunque necessario potenziare i propri rapporti in particolare verso est (e verso sud).
  
Per attivare tale politica, occorrerebbe tuttavia controllare l’uso della forza e scatenarla contro i sicari dei parassiti industrial-finanziari. Essi andrebbero cancellati dall’agone politico. Senza più accoliti, i “signori” degli apparati economici di tipo “confederato” dovrebbero accettare, bon gré mal gré, la loro riduzione di potere e di malversazione del nostro sistema economico-sociale a favore dei settori energetici e di punta, effettivo possibile cardine di una nostra nuova politica di maggiore autonomia nazionale, che in questo momento non ha da essere di tipo rigorosamente “antimperialista”, e nemmeno anti-statunitense tout court. Simile politica è voluta solo o da perfetti imbecilli o, assai più credibilmente, dai meschini politicanti di una “sinistra” che si finge radicale, ultrarivoluzionaria, tanto “buona e misericordiosa” verso le “masse diseredate”; ma soltanto per nascondere di essersi venduta quasi per nulla agli scherani dei più volte nominati parassiti industrial-finanziari, cioè in definitiva ai centri strategici statunitensi che stanno impostando la nuova tattica adatta al mondo multipolare in gestazione.
  
Mi fermo qui, perché il discorso è ormai iniziato e andrà avanti a lungo.

Gianfranco La Grassa