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Cina fascista?

di Luciano Fuschini - 30/05/2010

 




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Fra le tante idee che il bombardamento mediatico ci inculca, c’è anche quella che la Cina sarebbe una dittatura comunista con un sistema economico di capitalismo selvaggio, senza regole. Si tratta di una definizione per lo meno approssimativa, tanto è inverosimile.
Che si tratti di una dittatura è fuori discussione, come è fuori discussione la spettacolare crescita economica iniziata nei primi anni Ottanta e che dura ininterrottamente da 30 anni con ritmi di incremento della produzione mediamente del 10% all’anno, cosa mai vista prima nella storia, nemmeno all’epoca della prima rivoluzione industriale inglese (però è legittimo qualche dubbio sulle statistiche ufficiali. Taroccarle è pratica largamente diffusa nel mondo. Quasi tutti i Paesi europei hanno fornito cifre false per entrare nei parametri di Maastricht e i cinesi possono essere interessati a gonfiare i loro dati. Inoltre hanno tali squilibri, anche demografici, che si può dubitare dell’altra convinzione diffusa, quella che la Cina sia destinata  a diventare la nuova potenza egemone). Quello che non convince è definire capitalismo puro il sistema economico cinese. Intanto non si dice mai che in Cina il potere politico orienta ancora le scelte economiche secondo piani quinquennali. Non è più la rigida pianificazione dell’era maoista, ma si tratta pur sempre di orientamenti degli investimenti decisi a livello politico, per potenziare certi settori o privilegiare certe aree,  il che esce dallo schema del puro liberismo. Esiste ancora, accanto all’iniziativa privata, un importante settore statale dell’economia. Tutto il sistema del credito è sottoposto a un controllo pubblico. Lo stesso dicasi del commercio con l’estero. Il sindacato non può proclamare né organizzare scioperi e la manodopera è duramente sfruttata, ma il sindacato stesso è presente nella gestione delle imprese, i delegati sindacali devono essere consultati su questioni normative, su come gestire servizi e tempo libero per i lavoratori.
Quanto alla dittatura comunista, bisogna rilevare che l’ideologia del regime non è più quella internazionalista e collettivista dell’egualitarismo maoista, ma è un’ideologia fortemente nazionalista.
Ora possiamo abbozzare un quadro delle caratteristiche principali della Cina odierna, un quadro che si può sintetizzare in quattro punti: 1) dittatura del partito unico, un Partito-Stato articolato in organizzazioni capillari di massa; 2) ideologia fortemente nazionalista; 3) sindacato incorporato nel regime ma con un suo ruolo nell’organizzazione dei lavoratori e nella costruzione del consenso; 4) economia mista, basata sulla libera iniziativa privata ma con un mercato  inquadrato nella programmazione statale e coesistente con un forte settore nazionalizzato. Questi 4 punti configurano un sistema di tipo fascista.  Del resto, secondo testimonianze non si sa fino a qual punto attendibili, sembra che lo stesso Mao, sempre in vena di profetismo, lo avesse predetto negli ultimi anni della sua vita: “dopo di me la Cina diventerà un Paese fascista”.
Però anche questa è una conclusione provvisoria. Limitarsi a definire il sistema cinese come un fascismo, forse la realizzazione di maggior successo dell’ideale fascista, sarebbe ancora un’affermazione affrettata e non sufficientemente dimostrata. Ricorda altre etichette applicate con scarso discernimento. Anche il peronismo fu definito un fascismo. Lo stesso si disse del nasserismo nel mondo arabo. Bush ha parlato di islamo-fascismo. Tutte approssimazioni per analogia, poco fondate criticamente. Intanto anche i simboli hanno la loro importanza in politica. Voglio dire che non è insignificante il fatto che il Partito-Stato in Cina si chiami ancora Comunista. Non è insignificante che la bandiera della nazione sia  ancora quella rossa. Non è insignificante che nella piazza Tien An Men campeggi ancora il mausoleo di Mao. Non è insignificante che venga coltivata la memoria storica della Lunga Marcia, il mito fondante del comunismo cinese. E poi bisognerebbe indagare quanto vi è di confuciano nell’attuale realtà della Cina. Non dimentichiamo che quando i dirigenti di Pechino decisero la svolta nella politica economica, il modello più ovvio per loro era quello di Taiwan, l’altra Cina, una piccola Cina che aveva ritmi di sviluppo e competitività sui mercati che alla grande Cina continentale erano preclusi. Taiwan attirava capitali da tutto il mondo perché aveva una manodopera a buon mercato, laboriosa, disciplinata, sobria, preparata, educata a un ideale confuciano che era ed è l’ideologia ufficiale di quel Paese. Ebbene, quei tratti sono riscontrabili nella grande potenza cinese odierna. Dunque non c’è bisogno di ricorrere a modelli occidentali come il fascismo per definire l’attuale realtà cinese. Forse è più corretto cercare le radici profonde delle sue dinamiche nella sua storia, nella sua spiritualità.
Queste sono tutte ipotesi, sono interrogativi, sono sollecitazioni a un approccio più serio e più problematico a ciò che è oggi la Cina. Una cosa è sicura: la dittatura comunista su un’economia di capitalismo selvaggio è un’altra delle tante balle che ci propinano e che diventano opinione comune.