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La caduta di Santiago di Cuba nel 1898 segna il tramonto della presenza spagnola in America

di Francesco Lamendola - 31/05/2010

 

La guerra ispano-americana del 1898, che segnò la definitiva espulsione della Spagna da quel che restava del suo antico e glorioso impero coniale in America e in Asia, è sostanzialmente una guerra dello zucchero ed inserisce gli appetiti imperialisti statunitensi nel quadro della pluridecennale lotta per l’indipendenza del popolo cubano, offendo agli Stati Uniti il pretesto ideale per presentarsi nella rispettabile veste di paladini dei popoli oppressi dal colonialismo europeo.

La legge Dingley, votata dal Congresso americano nel marzo 1897, su convocazione del neo-eletto presidente Mac Kinley, rafforza la tradizionale politica protezionista degli Stati Uniti, stabilendo la più alta tariffa sulle merci straniere fino allora praticata dal governo federale. Così, il Partito repubblicano pone deliberatamente le premesse per un conflitto con la Spagna, che nell’emisfero occidentale possiede ancora le isole di Cuba e Porto Rico e, in quello asiatico, l’arcipelago delle Filippine, più una serie di vasti arcipelaghi dell’Oceano Pacifico: le Caroline, le Marshall, le Palau e le Marianne.

Sia a Cuba che nelle Filippine sono in corso delle dure lotte indipendentistiche e la Spagna, finanziariamente stremata, non è in grado di conservare nemmeno questi ultimi coriandoli della sua passata grandezza coloniale; il Partito repubblicano statunitense, d’altra parte, desidera portare alle estreme conseguenze la cosiddetta “Dottrina Monroe”, enunciata fin dal lontano 1823, secondo la quale «l’America deve essere degli Americani» (un elegante eufemismo che significa in realtà: «l’America deve essere degli Stati Uniti»).

Cuba, vasta isola tropicale di quasi 120.000 kmq., scoperta da Colombo nel 1492 e da allora sottoposta al dominio spagnolo, è una forte produttrice di frutta, tabacco, caffè, cotone e soprattutto canna da zucchero. Lo zucchero cubano è diretto principalmente verso il mercato statunitense e si capisce, perciò, come esso faccia una concorrenza quasi insostenibile a quello prodotto negli Stati Uniti. Tuttavia, se Cuba diventasse un possedimento americano, la tariffa Dingley non costituirebbe più un problema…

Cuba, insieme alle Filippine, nel 1898 è già insorta contro la Spagna e sta per sfuggirle di mano; perché non approfittarne, dunque? In effetti, da molto tempo la maggiore isola caraibica fa gola agli Americani. Gli schiavisti del Sud vi avevano visto un efficace contrappeso alle pretese abolizioniste del Nord; tanto che lo stesso presidente Franklin Pierce aveva cercato di addivenire «in modo equo» all’annessione dell’isola. Veterano della guerra contro il Messico, che aveva fruttato agli Stati Uniti metà del territorio di quella nazione, Pierce aveva una spiccata propensione per le annessioni di territorio straniero: nel 1854, durante il suo mandato, era stato sottoscritto il trattato di Glasden, con il quale il presidente messicano Santa Ana cedeva al potente vicino la Valle di Mesilla, 76.800 kmq. di territorio nel sud dell’Arizona e del New Mexico, in cambio di una grossa somma di denaro, atta a ripianare i debiti della sua sconsiderata amministrazione.

Sempre nel 1854, Pierce aveva inviato a Madrid un suo incaricato speciale, P. Soulé, con mandato di stipulare la cessione dell’isola dietro pagamento in dollari sonanti. La missione però, era fallita per l’intransigenza del governo spagnolo e Soulé, nel dorso di una riunione con gli ambasciatori americani a Londra e Parigi (il cosiddetto “manifesto di stenda”) aveva dichiarato seza mezzi termini ce, se Cuba non fosse stata ceduta dalla Spagna con le buone, gli Stati Uniti avrebbero anche potuto prendersela con la forza. Ne era seguita una crisi diplomatica fra i due Paesi, sopita da una pronta (e insincera) sconfessione del governo di Washington.

Anche la Louisiana era stata comperata dalla Francia di Napoleone, del resto, e la Florida era stata comperata dalla Spagna. E come dimenticare l’acquisto americano dell’immenso territorio dell’Alaska, da parte dell’Impero russo, realizzato nel 1867 per la cifra globale di 7.200.000 dollari?

Dunque, perché non Cuba e Portorico, le isole dello zucchero? Negli Stati Uniti, finita la guerra di secessione, l’interesse dell’opinione pubblica torna a rivolgersi verso di esse, abilmente orientato da una campagna giornalistica senza precedenti da parte del gruppo di William Randolph Hearst. Ogni giorno il bravo borghese di New York, di Chicago e di Philadelphia può deliziarsi con gli articoli sensazionalistici e truculenti che descrivono le atrocità commesse dal generale spagnolo Valeriano Weyler contro i poveri Cubani indifesi.

In realtà, Weyler sta facendo esattamente quello che faranno i Britannici in Sudafrica, contro i Boeri, appena un paio d’anni dopo: allestisce campi di concentramento per la popolazione cubana, mano a mano che riesce a “pacificare” una provincia dell’isola. Ma il suo torto è quello di non guardare in faccia a nessuno e di rinchiudere nei campi di concentramento anche un certo numero di cittadini americani. Peggio ancora: i suoi sistemi, per quanto brutali, indubbiamente funzionano, ed egli riporta una serie di successi che irritano ed esasperano l’ormai bollente opinione pubblica statunitense. Non passa giorno che i giornali del gruppo Hearst non escano con un titolo a caratteri cubitali in cui si parla di Weykler, “il macellaio”.

In effetti, l’isola è di nuovo in subbuglio.

Mentre l’impero spagnolo nelle Americhe si sfasciava, fra il primo e il terzo decennio dell’Ottocento, a Cuba non era creato alcun movimento indipendentista, ad eccezione di una sanguinosa rivolta di schiavi nel 1812, guidati da un certo José Aponte, nel 1812. Ma, nella seconda metà del secolo, l’insofferenza dei Cubani verso la madrepatria spagnola si era fatta più acuta e nel 1868 era scoppiata una vera e propria guerra per l’indipendenza, sotto la guida di un proprietario terriero creolo, Carlos Manuel de Céspedes, e di altri capi, in coincidenza con i tumultuosi avvenimenti della madrepatria: il “pronunciamiento” spagnolo e la deposizione della regina Isabella.

La guerra era stata durissima ed era durata una decina d’anni, tanto che viene oggi ricordata dai Cubani come «la guerra dei dieci anni» (1868-78). Alla fine gli Spagnoli erano riusciti a riprendere il controllo della situazione, non senza che contrabbandieri statunitensi rifornissero d’ami gli insorti, ragion per cui alcuni di essi, catturati, erano stati condannati a morte e ciò aveva provocato le proteste del governo americano. Con la Convenzione di Zanjón, la Spagna aveva concesso l’amnistia agli insorti e la libertà agli schiavi che avevano combattuto con le truppe cubane; ma, dimentica delle promesse di riforma, essa aveva tentato ben presto di reintrodurre i suoi inveterati sistemi di governo autoritari e assolutistici.

Nel 1895 la guerra scoppia di nuovo: questa volta ad animarla è un personaggio di grande levatura intellettuale e morale: il poeta José Martì, che, pur cadendo sul campo di battaglia poche settimane dopo, infiamma l’animo dei suoi compatrioti, ormai determinati a scrollarsi per sempre dalle spalle il dominio coloniale spagnolo. Gli insorti costituiscono un governo provvisorio che proclama l’indipendenza e spedisce propri rappresentanti all’estero, prima di tutto negli Stati Uniti, come uno Stato pienamente sovrano.

Così, nel 1898, quando gli Stati Uniti decidono di intervenire, la “seconda guerra d’indipendenza” cubana è già molto avanti sulla via del successo e gli insorti, probabilmente, potrebbero farcela anche da soli; così come, de resto, sta avvenendo nelle Filippine, all’altra estremità del mondo, sotto la guida del capo guerrigliero Aguinaldo, che ormai è sul punto di mettere l’assedio alla capitale, Manila, quando la squadra navale statunitense di presenta davanti alle vetuste fortificazioni spagnole.

La pressione diplomatica statunitense è così forte che il presidente del Consiglio spagnolo, Cànovas del Castillo, decide di richiamare in patria il generale Weyler e di avviare le tanto attese riforme; ma gli manca il tempo di andare oltre, perché cade sotto i colpi dell’anarchico italiano Michele Angiolillo, l’8 agosto 1897 (sorte che toccherà poi anche al presidente Mac Kinley, il 14 settembre 1901, per mano di un anarchico di origine polacca, Czolgosz).

In questo clima incandescente, con l’opinione pubblica americana sempre più isterica e con i giornali sempre più preoccupati per la sorte dei cittadini americani a Cuba e per quella dei loro beni, si colloca l’episodio dell’incrociatore corazzato “Maine”, di 6.600 tonnellate, che giunge in visita “amichevole” a L’Avana ai primi di febbraio del 1898, in realtà per accentuare la pressione intimidatoria sul governo spagnolo.

Il 15 dello stesso mese, all’improvviso, la nave da guerra salta in aria per una misteriosa esplosione che uccide gran parte del’equipaggio: 253 marinai perdono la vita e 115 rimangono feriti. Anche se le commissioni d’inchiesta non giungeranno a una conclusione definitiva, i giornali americani non aspettano di sentirne gli esiti e gridano tutta la loro indignazione contro la “perfidia” spagnola, invocando pronta e implacabile vendetta. Dovranno passare molti anni perché una indagine dell’ammiraglio Rickover dimostri, in modo inoppugnabile, che l’esplosione non era stata provocata da una mina, come allora tutta l’opinione pubblica americana credeva, per la semplice ragione che era avvenuta all’interno della nave e non all’esterno.

A partire da quel momento, il conflitto è praticamente inevitabile. «Ricordatevi del “Maine”» diventa il motivo sciovinista e guerrafondaio ricorrente, assumendo toni sempre più esasperati e bellicosi. Non si vuole giustizia e tanto meno si vuole conoscere la verità: si vuole vendetta, puramente e semplicemente. Anche gli intellettuali si uniscono al coro generale, con toni roboanti e patriottardi che, invece di richiamare alla ragione, fanno leva sull’emotività: ne citiamo uno per tutti, il filosofo George Santayana (che, ironia della sorte, era spagnolo di nascita, anzi, addirittura madrileno).

E qui non è possibile passare oltre senza fare una sia pur breve riflessione sull’eccezionale tempismo con cui episodi come quello del “Maine” si sono verificato ogniqualvolta il governo statunitense si è trovato nell’imminenza di attuare un intervento militare o una dichiarazione di guerra: dall’affondamento del «Lusitania» da parte di un sottomarino tedesco durante la prima guerra mondiale, all’attacco giapponese a sorpresa (si fa per dire) di Pearl Harbor, fino agli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 che alcuni studiosi, come Webster Griffin Tarpley, ritengono fabbricati dai servizi segreti americani nel quadro di un “terrorismo sintetico” che nasce da una precisa strategia mirante ad acquisire il pieno sostegno di una opinione pubblica depistata, ingannata e illimitatamente manipolata.

Ma torniamo al “Maine” e al febbraio del 1898. Mentre i tamburi di guerra rullano sempre più forte, da New York a San Francisco, l’11 aprile il presidente Mac Kinley rivolge un vibrato messaggio al Congresso, sostenendo che gli Stati Uniti hanno l’obbligo morale di non restare indifferenti alle vicende cubane e di intervenire per porre fine al malgoverno spagnolo; il tutto (parole testuali) in nome «della causa della libertà contro la barbarie» e per porre fine «allo spargimento di sangue, alla carestia e alla miseria che esistono a Cuba» (sembra di sentire le parole che il presidente George Bush junior rivolgerà al Congresso per annunciare la decisione di invadere l’Afghanistan, nel 2001). Infine, il presidente afferma che «l’attuale situazione a Cuba è una minaccia costante alla pace del nostro Paese e ci costringe a enormi spese».

Sarebbe vano cercare, fra gli storici americani delle ultime generazioni, una valutazione un po’ più serena e meno retorica di quegli avvenimenti. Morison e Commager, ad esempio, autori di una celebratissima «Storia degli Stati Uniti», pur riconoscendo il ruolo svolto dalla stampa e gli inconfessabili interessi dei piantatori americani di canna da zucchero, finiscono per scivolare anche loro nella solita enfasi nazionalistica e fortemente acritica, quella stessa che già all’epoca fece parlare di una «little, splendid war», cioè di una «piccola, magnifica guerra» che consentì agli Stati Uniti di vincere una volta per tutte i loro complessi d’inferiorità nei confronti delle “vecchie” potenze europee.

Dopo il discorso di Mac Kinley al Congresso, approvato il 19 aprile, l’ambasciatore spagnolo a Washington chiede il passaporto e rientra immediatamente in patria; la dichiarazione ufficiale di guerra viene consegnata ufficialmente il 21 al governo di Madrid.

Dal punto di vista militare, la campagna viene risolta in brevissimo tempo dalla netta superiorità tecnica della marina statunitense, la quale, padrona degli oceani, mette l’esercito spagnolo a Cuba nell’impossibilità di protrarre le operazioni.

Non era scontato che le cose sarebbero andate in quel modo. In molti pensavano, all’epoca, che l’esercito spagnolo avrebbe dato una severa lezione a quello americano, formato da poche migliaia di volontari e male organizzato dal punto di vista logistico e sanitario.

Nell’isola di Cuba vi sono da 200 a 300.000 soldati spagnoli che, se riuscissero a concentrarsi e ad operare in modo coordinato, potrebbero infliggere dei colpi tremendi al piccolo corpo di spedizione statunitense. Invece l’insipienza dei comandi fa sì che la campagna venga decisa in poche settimane e che le forze spagnole, nei brevi ma sanguinosi scontri che portano all’assedio e alla caduta di Santiago (Las Guasimas, El Caney, San Juan), si trovino a combattere sistematicamente in condizioni di inferiorità numerica (una situazione, sia detto fra parentesi, che ricorda in modo curioso quella che si verificherà nell’Africa Orientale Italiana, invasa dalle truppe britanniche durante la seconda guerra mondiale).

Ad ogni modo, l’esito della guerra viene deciso sul mare; e qui la superiorità americana è, come si è detto, netta, non solo sul piano quantitativo (230.000 tonnellate di stazza complessive contro 123.000 della flotta spagnola), ma soprattutto su quello qualitativo. Le navi della flotta americana - 5 corazzate, 2 incrociatori corazzati, 5 monitori a due torri, 13 monitori a una sola torre, 2 guardacoste, 8 incrociatori di prima classe, 8 incrociatori di seconda classe, 25 cannoniere di cui 15 protette, 19 torpediniere - sono più veloci, più robuste, più moderne, più efficienti e, soprattutto, meglio comandate.

La marina spagnola possiede una squadra navale nelle Filippine, forte di dieci unità, al comando dell’ammiraglio Patricio Montojo: una forza imponente, ma solo sulla carta, perché si tratta di navi assai antiquate e scarsamente protette. Un’altra squadra, al comando dell’ammiraglio Pascual Cervera, riceve l’ordine di partire immediatamente dalla Spagna alla volta di Cuba; una terza forza navale, coordinata dall’ammiraglio Manuel De La Càmara, deve raccogliersi a Cadice con le unità di riserva, per intervenire, a seconda degli eventi, nell’una o nell’altra direzione.

La squadra americana dell’Estremo Oriente, agli ordini del commodoro George Dewey, si trova in quel momento nella base navale dei “cugini” inglesi, ad Hong Kong. La notte del 30 aprile 1898 essa penetra nella baia di Cavite, davanti a Manila, e il 1° maggio vi sorprende la squadra spagnola di Montojo, colandola a picco interamente, senza subire alcuna perdita e ponendo poi il blocco alla città, mentre le forze di Aguinaldo la stringono dalla parte di terra.

A partire da quel momento, spazzata via la presenza navale spagnola dall’Estremo Oriente e dal Pacifico, le operazioni si concentrano sull’isola di Cuba, dal cui possesso dipende l’esito finale della guerra. L’ammiraglio Cervera traversa l’Atlantico e giunge nel Golfo del Messico quando il disastro di Cavite è già avvenuto e, zigzagando in modo da mantenere segreta la sua destinazione finale, giunge senza incidenti nel porto di Santiago, che sorge in fondo ad una baia così profonda da somigliare ad un vero e proprio fiordo.

Un eccellente rifugio che, però, potrebbe facilmente trasformarsi in una trappola mortale: il che accade non appena l’ammiraglio William T. Sampson si porta al largo di Santiago con la sua potente squadra navale, deciso a impedire che Cervera riprenda il mare. Quest’ultimo, in teoria, potrebbe svolgere azioni offensive contro le coste atlantiche degli Stati Uniti; di fatto, preferisce andarsi a cacciare da solo nella situazione da cui non uscirà più.

Così Renato Rinaldi descrive la campagna di Santiago di Cuba e la relativa battaglia navale nella sua ampia opera «Storia degli Stati Uniti d’America» (Milano, Armando Curcio Editore, 1966, vol. 1, pp. 360-365):


«L’annuncio degli avvenimenti di Manila e Cavite provocò entusiasmo indescrivibile negli Stati Uniti e costernazione in Spagna.

L’ammiraglio Cervera, riuscendo a mantenere un perfetto segreto sui movimenti delle sue navi, era salpato il 29 aprile da Capo Verde e, dopo aver varie volte dirottato in Atlantico e nel Mar delle Antille, per non far conoscere la sua precisa destinazione, aveva ormeggiato la squadra a Santiago di Cuba.

Il porto di Santiago era stato ben scelto; provvisto di un ricco deposito di carbone e di bacini di carenaggio, si trovava al fondo di un’insenatura a forma di bottiglia, facilmente bloccabile alle incursioni del nemico. Santiago offriva anche il vantaggio di poter disporre di comunicazioni telegrafiche con l’Europa, perché vi passavano due cavi, uno francese e uno inglese, che non potevano essere interrotti per le norme di protezione internazionale sulla telegrafia. La zona era, tuttavia, mediocremente fortificata, ma l’ammiraglio Cervera, per maggior sicurezza, fece affondare, nel mezzo del canale di accesso alla baia, il vecchio incrociatore “Reina Mercedes”.

Due modesti tentativi americani di sbarco, a Cardenas e a Cienfuegos, fallirono, grazie alla pronta reazione di unità della flotta spagnola presenti in quelle rade.

Falliti i primi tentativi di sbarco, malgrado l’aiuto prestato dagli insorti e in vista della salda protezione naturale offerta dalla rada di Santiago alla squadra spagnola, v’era da prendere una decisione: trasformare il rifugio di Cervera in una trappola.

Quando, poi, sarebbero arrivate le truppe di terra in approntamento a Key West, si sarebbe operato uno sbarco in forze, proprio nei pressi di Santiago. […]

A Key West, il generale Shafter aveva ultimato la radunata delle truppe da sbarco destinate a Cuba.

Il 20 giugno, i trasporti americani giunsero nelle acque di Santiago, sotto la protezione delle navi di Simpson. Dopo apposito consiglio di guerra, si decise di effettuare lo sbarco a Daiquiri, a diciassette miglia a est di Santiago. Alle ore 9 del 22 giugno, le prime truppe americane prendevano terra, mentre la flotta di Sampson compiva un poderoso tiro di sbarramento sulle colline circostanti, per evitare qualsiasi concentramento nemico.

Le forze americane trasportate a Cuba ascendevano a sedicimila uomini circa, compresi i servizi, oltre il reggimento “Rough Riders”, formato da volontari del West, mobilitati e comandati dal colonnello Wood e dal tenente colonnello Theodore Roosevelt, dimessosi da segretario aggiunto alla Marina per partecipare alla guerra con effettivo comando di reparto. Le truppe del movimento d’insurrezione cubana si unirono a quelle americane per proseguire insieme le operazioni. I “Rough Riders” prima dell’imbarco avevano lasciato i loro cavalli; a Cuba bisognava combattere a piedi. Il 24 giugno, proprio i “Rough Riders” ebbero uno scontro a Las Guasimas riuscendo a respingere un rabbioso attacco nemico.

Il 30 giugno, il generale Shafter ordinò alle sue forze di muovere contro le posizioni spagnole di El Caney nei pressi di Santiago. Lo scontro fu sanguinoso, le perdite americane superarono i mille uomini, ma alla fine il nemico fu ricacciato dalle sue posizioni.

Lo stesso giorno, altre forze, tra cui i “Rough Riders”, attaccavano San Juan. L’assalto fu comandato dal colonnello Roosevelt; la sera del 2 luglio, le truppe americane erano schierate a Est di Santiago.

Tuttavia, gli Americani non erano in una situazione facile; le fortificazioni spagnole intorno a Santiago erano salde, la flotta di Cervera avrebbe potuto agevolmente concentrare il suo tiro contro di loro con sicuro effetto e, oltre tutto, la febbre gialla già cominciava a mietere vittime, senza che si potesse disporre di sufficienti mezzi ospedalieri, per deplorevole deficienza di organizzazione.

Ma Cervera non pensava di agire in appoggio alle forze spagnole a terra. Egli meditava solo come uscire dalla trappola; Santiago era esposta ormai all’attacco nemico, da un’ora all’altra poteva verificarsi una rottura del fronte; bisognava portare la squadra in mare aperto.

Il 3 luglio, il generale Shafter si era recato sulla nave ammiraglia “New York” per conferire con Sampson sulla critica situazione dei reparti schierati dinanzi a Santiago.

Ma, proprio quella mattina, alle 9, la flotta di Cervera, troppo frettolosa di trarsi d’impaccio, e senza fiducia nelle forze spagnole di terra, tentò di prendere il largo.

La prima a uscire dalla rada fu l’ammiraglia “Maria Teresa”, seguita dal “Vizcaya”, dal “Colón”, dall’”Oquendo” e dalle unità minori.

Il comando delle navi americane era, in quel momento, affidato al commodoro Schley. Immediatamente esse si gettarono all’inseguimento delle unità spagnole, le batterono in velocità, e le impegnarono presto in combattimenti isolati.

Gli Spagnoli reagorono con bravura facendo fuoco sino all’estremo. Ma furono sconfitti, totalmente sconfitti; l’ammiraglio Cervera, ferito, fu fatto prigioniero.

“La flotta che io comando offre alla nazione, come dono per la festa del 4 luglio, la distruzione di tutta la flotta dell’ammiraglio Cervera. Nessuna nave è riuscita a sfuggire. La flotta spagnola ha tentato la sortita alle nove del mattino, e alle due del pomeriggio, l’ultima nave, la “Cristobal Colón”, si era incagliata a sessanta miglia a Ovest di Santiago. L’”Infanta Maria Teresa”, la “Vizcaya” e l’”Oquendo” sono state costrette ad arenarsi, poi si sono incendiate, saltando in aria a venti miglia da Santiago. Il “Furor” e il “Plutón” sono stati distrutti a circa venti miglia dal porto. Le nostre perdite sono di un morto e di un ferito.

Le perdite del nemico si elevano a molte centinaia di uomini, colpiti dal tiro, dalle esplosioni o feriti in mare. Abbiamo fatto circa milletrecento prigionieri, compreso l‘ammiraglio Cervera””.

Questo era il resoconto della battaglia inviato telegraficamente a Washington dall’ammiraglio Sampson.

Il disastro subito da Cervera disorientò i difensori di Cuba. Il maresciallo Blanco rivolse loro un ottimistico proclama, ma nessuno nutriva più illusioni.

Sin dal giorno 7 il generale Torral, comandante la piazza di Santiago, aveva chiesto una tregua d’armi per aver tempo di collegarsi col governatore generale, e per chiedere istruzioni. Allo scadere della tregua, il giorno 9, gli Americani investirono la città con tiri d’artiglieria, dalla terra e dal mare.

Nuovi rinforzi erano intanto arrivati dagli Stati Uniti; intorno a Santiago erano schierati ventiduemila uomini.

Il 14 luglio, il generale Shafter s’incontrò col generale Torral, per esaminare la precaria sorte dei civili di Santiago, rifugiatisi in campo americano, in numero di diciottomila. La città bruciava. Torral non esitò a intavolare con Shafter trattative di resa. Dopo il convegno, i due generali informarono i propri Comandi. Il giorno 17 al’una del mattino la resa era formata: i rifugiati in campo americano sarebbero rientrati A Santiago; i servizi sanitari dell’esercito americano avrebbero dato assistenza alle truppe spagnole, le truppe spagnole della provincia di Santiago accettavano la resa, tranne diecimila uomini che, accampandosi fuori della città, avrebbero atteso l’ordine di rientrare in Spagna; tutte le forze spagnole sarebbero state disarmate.»


Dunque, il 17 luglio la guarnigione di Santiago firma la resa; il 18, senza perdere neanche un giorno, Mac Kinley istituisce a Cuba un governo militare, con grave scontento del capo degli insorti cubani dopo la morte di José Martì, Inigo Calixto Garcia, che protesta, ma invano, presso il generale americano Shafter.

Il 26 luglio ha inizio lo sbarco delle forze statunitensi sulla piccola isola di Porto Rico, i cui 20.000 difensori rinuncioarono ad ogni resistenza; tanto che questa breve campagna venne ironicamente definita dalla stampa americana «un week-end» al chiaro di luna.

Ormai la Spagna ripone tutte le sue ultime speranze nella squadra dell’ammiraglio La Càmara, diretta a tutto vapore verso l’Estremo Oriente, per tentar di rovesciare in extremis le sorti della guerra nelle Filippine. Ma a Port Said le navi spagnole non ottengono dalle autorità egiziane il carbone necessario per proseguire la crociera: la “longa manus” britannica si fa sentire, anche in questo caso, in appoggio agli Stati Uniti.

Il 4 agosto giungono davanti a Manila, provenienti da San Francisco, via Honolulu, le truppe americane destinate all’occupazione dell’arcipelago; il 13 agosto la squadra di Dewey riprende il bombardamento della capitale filippina, mentre il comandante spagnolo, Augusti, fugge a bordo di una nave da guerra tedesca. Quella sera stessa la guarnigione spagnola si arrende e gli Americani possono fare il loro ingresso a Manila, catturando 12.000 prigionieri e ingenti quantità di armi e munizioni.

Anche in questo caso, le forze insorte locali, capitanate da Aguinaldo, non ricevono il permesso di costituire un governo e, anzi, nemmeno quello di entrare in città. Ne segue una lunga e durissima guerriglia contro le forze d’occupazione americane, destinate a salire fino a 75.000 uomini (una “escalation” paragonabile a quella del Vietnam degli anni Sessanta del Novecento), che proseguirà fino al 1901, con la cattura dello stesso Aguinaldo e la sua resa.

Il 12 agosto, intanto, sono stati firmati i preliminari di pace fra Spagna e Stati Uniti, che porteranno, con la mediazione dell’ambasciatore francese a Washington, Jules Cambon, alla firma del trattato di pace vero e proprio, il 10 dicembre 1898.

Le Filippine rimangono agli Stati Uniti e così pure Porto Rico, che viene dichiarato possesso degli Stati Uniti, pur non facendone parte. Per Cuba vi è una occupazione militare che durerà fino al 1901 e alla quale seguirà il cosiddetto “emendamento Platt”, in base al quale gli Stati Uniti si riservano il diritto di intervenire militarmente ogni qualvolta lo ritengano necessario; e, inoltre, ottengono la concessione di due basi strategiche, a Bahìa Honda e a Guantanamo; quest’ultima, come è noto, tuttora in loro possesso.

Così finisce la presenza coloniale spagnola in America e così si innalza l’astro degli Stati Uniti quale nuova potenza mondiale.

L’opinione pubblica europea, a parte quella britannica, ha seguito la guerra parteggiando per la Spagna e si è perfino parlato di una alleanza delle maggiori potenze per venire in suo soccorso; ma, naturalmente, non se ne fa nulla, anche per la inaspettata rapidità del collasso spagnolo, che, in quella nazione, provoca un cocente senso di umiliazione.

Si dice che il principe di Bismarck, osservando come la guerra abbia preso una piega così veloce e così inusitatamente favorevole agli Americani, abbia fatto questo commento: «Evidentemente esiste una speciale Provvidenza per proteggere i pazzi, gli ubriachi e gli Stati Uniti d’America.»