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Che cosa succede all'Europa

di Roberto Zavaglia - 31/05/2010

 

 

 

L’Unione Europea, per lunghi anni, è stata considerata un’area del pianeta tranquilla, addirittura monotona, senza velleità politiche, ma con un benessere abbastanza diffuso che ne garantiva la stabilità. La situazione, però, è cambiata in fretta. Prendiamo quello che sta succedendo tra Ungheria e Slovacchia, entrambi Paesi inseriti nella Ue e nella Nato. Il nuovo governo di Budapest ha deciso di concedere la cittadinanza ungherese ai circa 3,5 milioni di persone di ascendenza magiara che vivono fuori dai confini. La reazione della Slovacchia, in cui il 10% della popolazione è di origine ungherese, è stata durissima. Il governo di Bratislava ha stabilito che i cittadini che chiederanno la cittadinanza ungherese dovranno rinunciare a quella slovacca, saranno esclusi dagli impieghi statali e non potranno aspirare ad alcuna carica pubblica. In pratica saranno considerati degli stranieri da temere e sorvegliare.

Quella che, per ora, è la guerra dei passaporti non diventerà, si spera, un conflitto armato, ma segnala l’impotenza dell’Europa nel prevenire l’esplosione di un dissidio tanto pesante fra due dei nuovi membri del suo club. La tensione è cresciuta dopo il risultato delle elezioni ungheresi che hanno riportato al governo il partito di destra moderata Fidesz e hanno visto il grande successo della destra radicale e nazionalista dello Jobbik, divenuta la terza forza in Parlamento. Il nuovo esecutivo ha agito in modo precipitoso e unilaterale, ma con l’Ungheria l’Europa ha il dovere di mostrarsi comprensiva. La sfortuna di quel Paese, nel Novecento, non ha avuto pari, almeno dal punto di vista della perdita di territori. L’Ungheria, “colpevole” di essere stata in entrambe le guerre mondiali nel campo degli sconfitti, è stata infatti mutilata a vantaggio di tutti gli Stati confinanti.

Dopo la stagnazione comunista e il periodo di transizione seguito, era inevitabile che la storia tornasse a presentare il suo conto. Sarebbe meno salato se, prima, la politica europea avesse provato a fare qualcosa al fine di non surriscaldare il revanscismo ungherese. Apparentemente, la tensione che agita quei suoi Paesi situati ad Est non c’entra nulla con i guai che l’Unione Europea affronta negli Stati da più tempo coinvolti nel processo di integrazione. Eppure, anche qui i toni non sono certo tranquillizzanti. Nel presentare la manovra di 24 miliardi del governo, Tremonti ha detto che “non c’erano alternative, non stiamo vivendo una fase normale del ciclo economico, stiamo a un tornante della storia”. Quella odierna, dunque, è una crisi storica. Deve essere vero se il grande ottimista Berlusconi ha dovuto parlare di “sacifici”, una parola che, nel suo lessico di venditore di sogni, non ha mai trovato posto.

Si tratterà pure di affrontare una svolta epocale, ma l’Unione Europea –le sue bolse istituzioni, i suoi pletorici organismi di decisione- non agisce certo di conseguenza. Si pensava che il vertice Ecofin, diretto dal fantasmatico presidente Van Rompuy, dovesse prendere delle decisioni importanti. Si era detto di una task force determinata perfino a cambiare i trattati per adeguare le istituzioni Ue al difficile momento e prospettare un governo dell’economia per ridare slancio all’Europa. Alla fine tutto si è risolto, più o meno, con un invito a un “maggiore coordinamento” fra i governi. La situazione, dunque, è drammatica ma non seria. La “determinazione” degli eurocrati, ci sia concesso il paragone calcistico, assomiglia a quella di John Elkann che, di fronte ai risultati disastrosi, con il piglio del vero capo, ha fieramente dichiarato: “non sono contento di come ha giocato la Juventus”…

Se la Ue tarda a capire, un provvedimento importante l’ha invece assunto in proprio la Germania. Il divieto della vendita dei titoli allo scoperto è un passo nella giusta direzione ed è un peccato che l’Europa non abbia ancora voluto condividere questa indispensabile misura contro la speculazione finanziaria. Come tutte le decisioni importanti, quella tedesca ha scompaginato gli unanimismi di facciata. La Gran Bretagna, che deve difendere la City, si è schierata contro misure drastiche nei confronti della “finanza creativa” e gli Stati Uniti hanno fortemente criticato la scelta della Merkel. Non sarebbe male, per l’Europa, che la crisi servisse ad allontanare i “sabotatori” di Londra e facesse comprendere che non ci può essere piena sintonia con Washington, se si decide di mantenere il modello di economia sociale di mercato. La riforma voluta da Obama, infatti, assicura maggiori controlli sulla speculazione, ma è del tutto insufficiente a evitare nuovi disastri finanziari.

Le banche Usa sono tornate a realizzare enormi guadagni con pressappoco gli stessi metodi di prima dello scoppio della crisi. In Europa bisognerebbe invece cambiare: ne va della pace sociale. Le misure adottate dai vari governi per rientrare dal debito sono piuttosto pesanti e colpiscono, soprattutto, le fasce medio-basse della popolazione. Si va verso un consolidamento di quella società dei due terzi di cui parlava Peter Glotz, nella quale il terzo più svantaggiato perde la speranza di agganciarsi al carro della modernizzazione e del benessere, rimanendo in una situazione di marginalità rispetto alle nuove dinamiche sociali. Se la crisi dovesse intaccare pesantemente anche una parte dell’enorme ceto medio di cui sono composte le nostre società, vi potrebbero, però, essere pesanti conseguenze sul piano politico e sociale.

Oggi, i cittadini europei sono costretti ad affrontare sacrifici senza intravedere la fine del tunnel. Mancano capi e idee, sia a livello nazionale come in ambito europeo, che forniscano gli stimoli necessari alla coesione sociale in nome di un compito collettivo e di traguardi credibili. L’assenza di forte conflittualità sociale di cui l’Europa ha goduto negli ultimi decenni è stata possibile per la cosiddetta morte delle grandi ideologie e per il relativo benessere che ha potuto dispensare. L’impoverimento di parti della popolazione che, finora, hanno goduto di un reddito soddisfacente, potrebbe causare maggiore sfiducia nelle istituzioni e un diffuso ribellismo. E’ vero che mancano partiti e visioni ideali in grado di incanalare il disagio crescente, ma questo è un dato preoccupante perché significa che ampie masse di cittadini possono lasciarsi suggestionare da “offerte” politiche demagogiche.

Le ragioni dell’integrazione europea risiedono anche nei risparmi e nella crescita che sarebbero consentiti attraverso economie di scala. Pensiamo, per esempio, alla spesa militare di ogni Stato per apparati che potrebbero essere messi in comune, con conseguente diminuzione dei costi. Da Bruxelles, però, non arrivano visioni politiche, ma solo ingiunzioni a tagliare la spesa sociale. Se continua così, non solo dagli “arretrati” Paesi dell’Est, ma anche dalle “civili” nazioni occidentali potrebbero arrivare brutte notizie per le classi dirigenti incapaci di ascoltare i propri popoli.