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La comunità come modello sociale

di Marcello Veneziani - 31/05/2010


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Riti di sangue, vittime designate, tagli sacrificali per placare il Dio Debito. Tutto giusto, purtroppo. E inevitabile. Ma proviamo ad alzare la testa dalla manovra e dalla crisi per capire il senso di ciò che sta accadendo.
Noi abbiamo vissuto negli ultimi due anni due atroci agonie con relativa crisi mondiale: quella dell’Economia Irreale, figlia del Mercato Assoluto, che fu il sogno di un trentennio di turboliberismo. E quella dello Stato Obeso, figlia degli Sprechi Pubblici, che fu il sogno del Welfare State. Il primo è esploso l’altro anno non a caso nelle borse d’America, patria di Reagan e del liberismo atlantico. Il secondo è esploso, non a caso, nel cuore antico dell’Europa, la Grecia, perché l’Europa fu la culla dello Stato assistenziale e della spesa pubblica esagerata.
Ora dobbiamo metterci in testa una cosa: l’esperienza dello Stato sociale e l’esperienza della reaganomics sono finite. Dico finite, non fallite. Il comunismo è fallito, lo Stato sociale o il primato del mercato hanno invece esaurito lavoro parabola. Ma ambedue furono necessari e benefici. La liberazione dell’economia, compiuta da Reagan e dalla Thatcher, servì a restituire dinamismo all’economia, responsabilità ai singoli, competitività ai mercati. Venivamo da Stati pachidermici e ingrassati, pieni di fasce parassitarie e di settori assistiti. Quella ventata ci volle. Da noi arrivò in ritardo e in modo furbetto, ma servì pure da noi per dimagrire e crescere. Però non si può pensare che la Finanza o la Borsa sia il motore del mondo, non si possono cancellare i popoli per soddisfare le pretese delle oligarchie.
La svolta liberista ci volle ma ha esaurito la sua spinta propulsiva. La stessa cosa accadde con lo Stato sociale. Che non nacque a sinistra, come tanti pensano. Nacque da Bismarck che era un conservatore, crebbe con i cattolici, i cristiano-sociali e i nazionalisti. E ci fu il versante laburista, socialdemocratico, sindacalista, e il new deal di Roosevelt. In Italia lo Stato sociale fu inventato addirittura dal fascismo: carta del lavoro, otto ore lavorative, salari minimi garantiti, pensione e assistenza a poveri, maternità e infanzia, grandi opere sociali, bonifiche, sanità e istruzione. Su quella linea prosegui la Dc, non solo quella più a sinistra: pensate a Fanfani, a Donat Cattin.
L’ultimo grande atto storico di Stato sociale fu forse lo Statuto dei lavoratori di Brodolini, voluto soprattutto dai socialisti 40 anni fa. Poi lo Stato sociale smise di funzionare. A causa della gestione clientelare e corrotta dei partiti, la lottizzazione, la demagogia sindacale, la nascita delle regioni, che raddoppiarono costi e personale di una spesa pubblica già dilagante, la demeritocrazia venuta dal ‘68. E una filosofia dell’impiego pubblico che possiamo riassumere nel paraculismo. Sia il mercatismo che lo Stato sociale però servirono, eccome. Finirono male ma vissero bene. Adesso però dobbiamo entrare in una nuova fase. E qui noto una cosa assurda: tanto più feroce è lo scontro sui tagli da apportare, tanto più è comune l’assenza di un progetto finale. I sacrifici sono necessari, vanno fatti subito, non bisogna star lì a teorizzare, verissimo. Però che Italia, che Europa vogliamo disegnare? Lasciamo che si disegni da sola, che siano i tagli stessi a delinearla, più un mix pratico di liberismo e Stato sociale? Le sinistre, perduti i loro riferimenti, balbettano, copiano Obama, accusano il governo ora di non fare tagli ora di farne tanti. E poi si rifugiano nell’esorcismo demagogico di dire: a pagare sono sempre gli stessi. Che penoso tritume. Al governo invece stanno tentando l’eroica impresa di tagli pesanti con mano leggera, senza mettere le mani - come ripetono con pari esorcismo - nelle tasche degli italiani. La manovra nel complesso sembra misurata, pur con qualche debolezza (per esempio la tiritera sulle province o sui costi della politica e dei parlamentari). Hanno il plauso degli addetti ai lavori e dell’Europa, benissimo. Però verso dove vogliamo andare? Be’, credo che per uscire dai rottami del Welfare state e dalle rovine del liberismo, dobbiamo entrare in una nuova fase in cui il soggetto non può essere né lo Stato né il Mercato ma la Comunità. Ovvero l’insieme di noi cittadini, considerati nel nostro legame civico, sociale, locale, nazionale, europeo.
Per rassicurare, lo dico nella lingua che legittima parole gravate da chissà quali ombre: sull’Atlantico la chiamano Welfare community. Bisogna promuovere un’economia sociale di mercato, fondata sulla cooperazione, il consorzio, la sussidiarietà, il territorio, la coesione sociale e solidale. Bisogna incentivare e proteggere solo chi si mette in gruppo e fa rete, sistema, società, offre servizi. Non dunque servizi pubblici e nemmeno abbandonando alle furie del privato: ma pattuire con imprese, territori, comuni, realtà che si organizzano e propongono servizi. È l’unica vera rivoluzione sociale da fare e può partire dai paesi mediterranei e mitteleuropei. E il pop nell’economia. La Comunità come il soggetto della politica, al centro tra lo Stato e il Privato, il potere e gli individui. E l’unico argine sociale, l’unica risposta ai poteri economici multinazionali, alle lobbies e alle cricche.
Può essere questo il progetto del nuovo millennio, dopo aver bruciato tutti i serbatoi ideologici, economici e storici del Novecento. La comunità come modello sociale. Sorry, Welfare Community & Pop. Ok?