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E Israele va per la sua strada

di Roberto Zavaglia - 06/06/2010

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E’ sorprendente l’eccidio compiuto dagli israeliani nei confronti dei pacifisti e degli attivisti filo-palestinesi che stavano navigando verso Gaza per portarvi aiuti utili alla sua sopravvivenza? Se ragioniamo in termini umanitari non c’è niente di cui stupirsi. Tsahal, sebbene venga definito dai fiancheggiatori del sionismo “l’esercito più morale del mondo”, non si è mai fatto scrupolo di uccidere i civili. L’operazione “Piombo fuso” a Gaza l’ha riconfermato per l’ennesima volta, ma basta scorrere un qualsiasi libro di storia per scoprire che le stragi di innocenti sono una costante della vicenda dello Stato di Israele, fin dai suoi inizi.  
  Pensando invece alle conseguenze, politiche e di immagine, dell’attacco compiuto in acque internazionali, dobbiamo ammettere che non ci saremmo aspettati un’azione tanto cruenta. Israele, negli ultimi tempi, sembra però quasi mettersi d’impegno per peggiorare la sua reputazione. Pensiamo all’omicidio del dirigente di Hamas, compiuto a Dubai da uomini del Mossad che hanno usato passaporti clonati di alcuni Stati europei. Persino la Gran Bretagna, che non è certo ostile allo Stato ebraico, dimostrò, in quella occasione, forte irritazione e protestò duramente per il “furto” subito. Che dire, poi, della scelta di annunciare nuove costruzioni per i coloni a Gerusalemme Est, proprio mentre nella città si trovava il vicepresidente statunitense Joe Biden, il quale vi era giunto per l’ennesimo atto della farsa sul “rilancio” dei negoziati di pace? Gli Usa dovettero esprimere il proprio malumore per la provocazione e il gesto contribuì a creare un po’di maretta, durata qualche settimana, tra Obama e Netanyahu, a cui molti commentatori hanno dato un valore eccessivo.
  Assaltare delle navi sulle quali viaggiavano diverse personalità, tra cui un premio Nobel per la Pace, è comunque una scelta estrema rispetto al “danno” che si poteva subire con lo sbarco a Gaza dei volontari. E’ vero che sulle navi non c’erano solo pacifisti ma anche attivisti di Ong islamiche favorevoli alla causa palestinese. Questo fatto è stato sfruttato dalla stampa occidentale per affermare che l’ “errore” delle truppe speciali era in qualche modo giustificato. Sulle Organizzazioni non governative il discorso sarebbe lungo, ma bisogna comunque stabilire se vanno bene solo quelle occidentali, che magari tramano per organizzare “rivoluzioni colorate” in Georgia o in Ucraina, o se possono operare anche associazioni sorte in altre parti del mondo. Per il resto, la ricostruzione israeliana dei fatti è risibile. Come è possibile immaginare che, ammesso e non concesso che i volontari possedessero un paio di pistole, ciò li avrebbe indotti a organizzare una resistenza armata contro truppe d’assalto?
  Magari c’è stata imperizia da parte dei soldati, i quali possono avere sprigionato un surplus di aggressività non preventivato. Da anni, però, ci raccontano che le forze armate israeliane sono composte da indomiti guerrieri con i nervi d’acciaio. E questi tipi si sarebbero messi a sparare all’impazzata perché erano assaliti a colpi di manici di scopa e di coltelli da cucina? La realtà, probabilmente, è che non si voleva fare una strage, ma non si è fatto nulla per prevenirla poiché, comunque fossero andate le cose, Israele, una volta di più, avrebbe mostrato la sua forza e l’impossibilità di violare i suoi divieti. Questo stato d’animo è assai presente nella società israeliana che ha subito un processo di radicalizzazione, forse sarebbe meglio dire di abbrutimento, del quale si giovano le formazioni politiche più intransigenti.
  Sembra quasi che Israele voglia sfidare il mondo intero, mettendolo di fronte a fatti compiuti. Noi non rispettiamo la legalità internazionale, pensa la dirigenza israeliana, deteniamo un arsenale atomico al di fuori delle regole, eppure non ce ne viene alcuna conseguenza. Avendo la maggioranza della società abbandonato l’idea di potere fare pace con i palestinesi e con l’intero mondo arabo, che pure in alcuni anni è stata assai viva, rimane soltanto la volontà di spostare  sempre più avanti il confine della propria sicurezza nazionale. Di tale concetto strategico gli israeliani non intendono discutere seriamente con alcun interlocutore. Chi non è d’accordo e non lo rispetta si merita la punizione garantita dalla grande forza militare del Paese.
  Qualche problema, comunque, Israele lo deve affrontare per l’eccidio della nave Marmara. Questa volta, pur se con accenti anche molto diversi, tutti gli Stati e le organizzazioni internazionali hanno espresso la loro condanna. Quello che importa allo Stato ebraico, però, è non perdere l’indispensabile appoggio degli Stati Uniti. Ciò non è avvenuto: Washington, fin da subito, pur deplorando la perdita di vite umane, ha usato parole caute e mai di aperta condanna. Al Consiglio dei diritti dell’uomo dell’Onu, gli Usa hanno votato contro la richiesta di un’inchiesta internazionale sulla strage, insieme all’Olanda e all’Italia. Detto di passaggio, non si riesce davvero a capire come mai il nostro governo, anche di fronte a fatti di estrema gravità, mantenga questa intransigenza filo-israeliana, che contraddice la storia della nostra azione diplomatica in Medio Oriente e non ci è di alcun giovamento politico ed economico.
  Certamente, un danno di immagine nell’opinione pubblica internazionale Israele lo sta subendo, ma forse ai suoi dirigenti non interessa più di tanto. Comunque, le grandi agenzie di (in)formazione mondiali sono già al lavoro per separare la realtà di Israele, “unica democrazia del Medio Oriente”, da un errore deprecabile che però non cambia la sostanza delle cose. Con Ankara, invece, i rapporti di amicizia, già precedentemente incrinati, sono definitivamente rotti, almeno per un lungo periodo. Dovrebbe essere una brutta notizia per Israele perdere l’appoggio di questo grande Stato musulmano, l’unico con il quale aveva stabilito pure accordi di carattere militare. Anche a questo riguardo il governo di Netanyhau non sembra essere molto preoccupato. L’impressione è che Israele, in questa fase, non tema l’isolamento internazionale (Usa esclusi) ma intenda accentuare la sua azione unilaterale.
  Avendo lasciato cadere tutte le possibilità di pace con gli arabi, anche quelle più vantaggiose offerte dagli Stati più moderati, Israele si è rassegnato a considerarsi ciò che in effetti è: un corpo estraneo in una regione tutta più o meno ostile, verso la quale marcare sempre di più la propria differenza e la propria ostilità. E’ una scelta, forse inconsapevolmente, di disperazione, perché rinuncia alle armi della politica per affidarsi solo a quelle dell’esercito. Di solito non amiamo definire un Paese, come si è soliti fare, “pericoloso per la pace”, perché è una considerazione che sottintende una visione unilaterale e propagandistica. Ebbene, se però oggi ce ne è uno con queste caratteristiche è proprio Israele: disperato ma risoluto oltre ogni ragionevolezza e, quel che è peggio, armato in modo formidabile.