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Chi ha paura dell'Italia dei "coatti"?

di Annalisa Terranova - 07/06/2010




Ancora una volta è dalla fabbrica dei sogni del cinema che passa l'analisi sullo stato delle cose. O, meglio, dalla fotografia all'immagine del paese che il cinema fornisce. In questo caso al centro dell'attenzione finisce il film di Daniele Luchetti, La nostra vita, che racconta le disavventure sentimentali e lavorative di Claudio (Elio Germano), operaio edile che perde la moglie e si ritrova con tre figli piccoli ai quali cerca di offrire con caparbietà un orizzonte di benessere esagerato prima di ripiegare sulla più appagante via degli affetti per risarcire se stesso e i bambini dagli scherzi crudeli che il destino ha loro riservato. Nella scena finale del film si ritrovano tutti e quattro sul lettone, il padre che gioca con i figli e dice loro: «Me dovete vole' bene...». La stroncatura etica del film è arrivata dall'Unità dove Goffredo Fofi scriveva ieri di «cinema immorale per un paese amorale».


 E perché? Le obiezioni sono presto sintetizzate: c'è un'esaltazione dei personaggi comuni raccontati nel film, tratti dall'ambientazione della periferia romana disincantata ma a suo modo coraggiosa; ci si ferma a raccontare il presente con le sue deformazioni, giustificandole (l'ossessione del denaro, il darwinismo sociale che porta a non denunciare la morte in cantiere di un operaio rumeno ubriaco); non si prendono le distanze dalla complicità con la microcriminalità (il vicino di casa di Claudio è un pusher in carrozzella) che anzi aiuta nel tentativo di ascesa sociale del protagonista che da operaio vuol farsi "palazzinaro". Critiche che provengono dal quotidiano fondato da Antonio Gramsci ma che suonano molto reazionarie se non fosse per il lessico che caratterizza la prosa di Fofi: «Idealizzazione di una diffusa piccola borghesia e di un diffuso sottoproleariato piccolo-borghesizzato omologati nei consumi e anche negli ideali decisamente bipartisan». Questo è il punto di partenza per giungere all'evocazione delle «leggi non scritte della soggezione culturale alineante, di una tradizione catto-fascista e della dura necessità» che giustificano i neoborgatari di Luchetti ma non i registi e gli sceneggiatori che hanno abdicato al dovere della denuncia sociale: «Per il mestiere che si sono scelti non possono permettersi di essere anche loro incoscienti e amorali». In pratica non dovrebbero scegliere come soggetti abitanti della Bufalotta che prendono il gelato al centro commerciale, comprano mobili da Ikea, chiamano i figli Samuel e Vasco, fanno la gita domenicale al mare. Un proletariato molto italiano ma senza "coscienza rivoluzionaria".
Sarebbe facile cavarsela con l'ormai arcinota affermazione fatta da uno dei protagonisti del film Ferie d'agosto in un magistrale e straniante dialogo su destra e sinistra: «Voi intellettuali vi atteggiate tanto, parlate così sofistici, state sempre ad analizzà, a criticà, a giudicà... ma la verità è che non ce state a capì più un cazzo... ma da mò!». Ma sarebbe una scorciatoia inelegante.
Il fatto è che qui si esclude per pregiudizio ideologico che il racconto di una storia possa di per sé essere sia un evento di denuncia sia un messaggio che coinvolge e suscita compassione-partecipazione con la situazione descritta. Al contrario, ravvisare nel film una sorta di compiacimento del pubblico piccolo-borghese che piange per la moglie morta di parto ma non per le morti bianche, e dunque una giustificazione di un'incoscienza sociale diffusa per avere successo sulla base di un "ricatto sentimentale" tradisce la paura di guardare appunto come si sta trasformando la nostra popolazione, manifesta un inconscio terrore di osservare in faccia la realtà. Fa scambiare il realismo per conformismo. E in più fa emergere il fastidio di prendere atto che la sola redenzione possibile per il protagonista del film risiede negli affetti, nell'incrollabile ancoraggio alla famiglia, sostegni minimi e borghesi quanto si vuole, ma comunque più saldi e rassicuranti di narrazioni ideologiche ormai definitivamente inservibili.
È lo stesso regista a spiegare di non disdegnare affatto il finale "romantico", migliore del giudizio etico: «Malgrado la caduta dei valori - dice - il nostro paese è percorso da una grandissima voglia di vivere. I protagonisti del film vanno a infilarsi in dinamiche sbagliate, ma sono delle belle persone sulle quali spero di aver proiettato il mio affetto...». E ancora: «Avevo voglia di raccontare il presente attraverso un ambiente che un tempo si sarebbe definito proletario, ma senza lo sdegno della denuncia né il taglio grottesco della caricatura». Lezione: non bisogna "immaginare" la realtà, bisogna guardarla. Una massima applicata da Luchetti anche nel film Mio fratello è figlio unico tratto dal romanzo di Antonio Pennacchi Il fasciocomunista: «Non volevo appiattirmi sul cliché del fascista. Solo quindici anni fa un fascista come Accio Benassi sarebbe stato raccontato come un mostro, invece io l'ho voluto raccontare senza giudicarlo e senza l'intenzione di legittimare o delegittimare una parte politica o l'altra». Risultato: non esistono più i mostri, i buoni, i cattivi, i nobili, gli ignobili. Magari ha ragione Vasco Rossi: e se fossimo tutti "anime fragili" (come recita il titolo della canzone che è la colonna sonora del film)? Se fosse vero che «col tempo cambia tutto lo sai, e cambiamo anche noi, cambiamo anche noi...»?