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Mussolini e la storia d'Italia

di Franco Cardini - 08/06/2010

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UNA RIFLESSIONE NEL SETTANTESIMO DELL’ENTRATA DELL’ITALIA IN GUERRA (1940-2010)

“ Forse perche e la fine di un'illusione / forse perche con esso imparammo a odiare, / ma quando pronunziamo questo nome / c'e sempre chi vorrebbe non ricordare… (…) / La gente grida per il vincitore, / il gregge segue sempre il pastore.... (…) / Penzola li nel vuoto quel crocifisso / appeso per i piedi alla sua sorte: / amare invano ed essere odiato tanto, / chi potra mai vantarsi della sua morte?”

Leo Valeriano (?), La ballata dell’illusione.

“Combattenti di terra, di mare, dell’aria; camicie nere della Rivoluzione e delle legioni; uomini e donne dell’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania: ascoltate! Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria: l’ora delle decisioni irrevocabili”.

Le ricordiamo tutti, queste parole: anche quelli che non erano lì in Piazza Venezia, anche quelli che non stavano incollati alla radio; anche quelli che non erano ancora nati. Le abbiamo ascoltate infinite volte tutti, con tristezza, con disperazione, con rimorso, con pietà. Ricordiamo quella voce metallica; ricordiamo quel volto duro e squadrato, di pietra sotto il berretto nero “alla bulgara”. E’ il volto del nostro delirio d’onnipotenza, delle nostre illusioni distrutte, dei nostri sogni spezzati. Forse, come avrebbe detto il poeta, del nostro inestinguibil odio e del nostro indomato amor.

10 giugno 1940: la piccola Italia che s’illudeva di esser diventata una grande potenza imperiale gettava, a fianco della potente Germania rinata dalle sue ceneri, la sua sfida ai grandi imperi liberali, alle “democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente”, in un’avventura ch’era “la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra”.

Può darsi che oggi, rileggendo quelle parole, piu d’uno sia colto da un’impressione sconcertante. Quell’”Italia proletaria e fascista” evocata in termini al tempo stesso tanto laconici e tanto retorici non veniva affatto presentata come vittoriosa e potente. Al contrario: essa si metteva dalla parte dei poveri, dei “dannati della terra”, degli sfruttati. Dietro al Duce chiuso nell’orbace dalle spalline dorate si profilava ancora e nonostante tutto l’ombra del giovane Benito Mussolini agitatore socialista-interventista: la guerra destinata a rovesciare i destini del mondo, a rovesciare i troni dei potenti e ad esaltare il destino dei diseredati. Una guerra ch’era davvero la prosecuzione di quella del ’14-’18, il saldo dei conti ch’essa non aveva saputo chiudere, la reazione contro gli inganni e le ingiustizie della “pace ingiusta” di Versailles. Una guerra il conclamato scopo della quale era la rottura della prigione geopolitica mediterranea che rinserrava una giovane potenza entro il lago sorvegliato dalle due porte di Gibilterra e di Suez, saldamente in mano britannica. Se si considera che l’Italia unitaria era stata fondata, ottant’anni prima di allora, con l’appoggio non disinteressato di una Francia prima e di un’Inghilterra poi che ambivano a piazzare le loro pedine commerciali e portuali in una penisola che, con l’apertura del canale di Suez, sarebbe divenuta un molo mediterraneo importante sulla via degli oceani, l’entrata in guerra del ’40 acquista una prospettiva sulla quale di solito non si riflette: quella della definitiva liberazione del paese da un ruolo subalterno nel panorama politico europeo. Il tragico era che tale disegno era destinato a inquadrarsi nel contesto del profilarsi di una subordinazione ancora più forte e tragica: quella alla Germania nazista. Qui l’abile giocoliere Mussolini, che aveva avuto fino ad allora la fortuna e l’abilità di costruire il mito della potenza italiana su una serie di colpi di mano e di bluff ben giocati – l’ultimo dei quali era quello di mediatore degli accordi di Monaco del ’38 -, si trovava adesso a doversi confrontare con il vero nodo irrisolto della sua politica.

Eppure, al di là di quel che voleva far credere e forse alla fine credeva anche lui, non era stata la sua volontà a condurre le cose a quel punto. Il discorso del 10 giugno del ’40 va confrontato con quello pronunziato dal medesimo balcone quattro anni prima, il 9 maggio del ’36, quello commosso e commovente della fondazione dell’impero. Francia e Inghilterra non avevano digerito l’ingresso dell’Italia – autentico o fasullo che fosse – nel club delle grandi potenze: e avevano commesso, con le sanzioni, l’irreparabile errore di gettare il Duce nelle braccia del suo inquietante emulo ed allievo tedesco. Quello fu davvero l’imperdonabile peccato delle democrazie liberali, l’errore fatale consistente nell’aver rotto l’unità antinazista conseguita nell’aprile del ’35 col patto di Stresa: e l’inizio di un Totentanz le tappe del quale furono la guerra civile spagnola, gli ambigui accordi di Monaco, le leggi razziali del ’38, il “patto d’acciaio” italo-tedesco del 22 maggio 1939 che all’art.3 sanciva l’obbligo per entrambe le parti contraenti ad entrare in guerra se l’altra vi fosse impegnata, il patto di non-aggressione tedesco-sovietico del 27 agosto del ’39 che consentiva l’attacco tedesco alla Polonia di cinque giorni dopo.

La “non-belligeranza” mussoliniana fu solo una manovra temporizzatrice. Il Duce sapeva bene che l’Italia non era militarmente pronta, e aveva intenzione di protrarre la sua astensione almeno fino al ’42, fin quando non si fossero spente le luci della grande Esposizione del Ventennale, l’EUR 42. Ma le vittorie mozzafiato di Hitler lo presero di contropiede: tra il maggio e i primi di giugno del ’40 la capitolazione dell’Olanda e l’invasione del Belgio, l’aggiramento della Maginot e lo sfondamento della linea Weygand, la vittoria di Dunkerque dove il Fuhrer si era preso il lusso di ostentare generosità e di non annientare il nemico in fuga, gli dettero l’impressione (non peregrina…) che non ci fosse tempo da perdere. La Wehrmacht era alle porte di Parigi: avrebbe potuto continuare il conflitto, con la Francia ormai occupata, il Fuhrer che alla radio offriva una pace onorevole e l’Unione Sovietica alleata di Hitler?

Mussolini si senì a un passo dal successo finale e contemporaneamente a uno dall’emarginazione disonorevole: se la guerra fosse finita prima del suo ingresso formale in essa, il “patto d’acciaio” sarebbe stato unilateralmente disatteso e il potente alleato lo avrebbe respinto nella condizione di una Svizzera moltiplicata per dieci, e mancatrice di parola per giunta. Gli ci voleva, come cinicamente disse, una manciata di cadaveri per sedere da vincitore al tavolo della pace. E in seguito avrebbe affermato più volte che Francia e soprattutto Inghilterra erano state le prime a pregarlo di muoversi in quel senso: la sua presenza avrebbe moderato le pretese di Hitler. “Pugnalata alle spalle della Sorella Latina”, la Francia, si disse: ma forse la Sorella non aveva pugnalato per prima l’Italia quattro anni prima, con le sanzioni?

Ottantasei anni prima del fatidico ingresso dell’Italia in guerra, nel 1854, il Cavour era entrato non meno cinicamente di Mussolini in una guerra che ancor meno riguardava la penisola italica, quella di Crimea, con analogo scopo: sedere al tavolo dei vincitori e compartecipare ai frutti della vittoria. Il Duce decise di cogliere l’occasione e di giocare alla grande quello che sarebbe stato il suo definitivo bluff. Il Cavour ce l’aveva fatta: a lui, andò male. Conosciamo purtroppo bene il resto di quella storia.

Eppure, settant’anni dopo il più tragico dei suoi errori e sessantacinque dopo la sua morte atroce e disonorevole, noi sentiamo che la storia d’Italia non ha ancora fatto sul serio i conti con Benito Mussolini. Che siano state le sue decisioni e i suoi sbagli e gettarci nel gorgo della carneficina, della sconfitta e dell’umiliazione, è indiscutibile. E’ sempre difficile dire se qualcuno o qualcosa sta dalla parte giusta sul piano morale, ma con certezza, se uno prova a fare qualcosa e non riesce, vuol dire che era dalla parte sbagliata sotto il profilo della politica e della storia. Eppure, non diversamente da come Napoleone dette, nel bene e nel male, un senso alla rivoluzione francese, così Mussolini aveva provato a dare un senso a quell’impresa strampalata e antistorica, ma storicamente riuscita (a prezzi altissimi, e pagati da chi non avrebbe dovuto), ch’era stato la costruzione di uno stato unitario e accentrato italiano.

Il processo di unità nazionale, dalla metà dell’Ottocento in poi, fu mandato avanti da alcune éites peraltro non concordi fra loro; la maggioranza delle popolazioni che costituivano la futura Italia unita ne restarono estranee. Si potrebbe obiettare che molti eventi storici sono stati caratterizzati da un processo dinamico analogo: vale a dire che solo ristrette éites ne sono state protagoniste. Niente di scandaloso. Però vanno sottolineate due cose. Prima: la formula dello stato unitario accentrato che alla fine prevalse era coerente con gli interessi espansionistici dei Savoia e forse di alcuni imprenditori e finanzieri, era gradita all’ideologismo neogiacobino di garibaldini e mazzininani, ma non congrua con la storia e temo nemmeno le strutture e le istituzioni dei vari stati italiani precedenti; la storia d’Italia è eminentemente policentrica e municipalistica, per cui una soluzione di tipo “federale”, analoga mutatis mutandis a quella che gli Hohenzollern e il principe di Bismarck dettero al problema unitario tedesco, sarebbe stata più adatta e opportuna di quella che, fra l’altro, generò la colonizzazione e lo sfruttamento del sud da parte del nord (con fenomeni collaterali quali il brigantaggio e la sua tanto orribile quanto in parte vana repressione) e la meridionalizzazione di buona parte delle strutture pubbliche del giovane regno. Secondo: il carattere élitario del “movimento risorgimentale” nei suoi esiti ultimi ebbe come effetto obiettivo un notevole ritardo nella “nazionalizzazione delle masse”, nonostante i due strumenti della scuola e della leva obbligatoria; da questo punto di vista mi sembra che vedessero giusto gli interventisti, “democratici” o “rivoluzionari” che fossero, i quali ritenevano che il bagno di sangue avrebbe cementato l’edificio della patria e che gli italiani, che fatta l’Italia non erano stati fatti, si sarebbero forgiati nel ferro e nel fuoco della trincea. Ma ciò – attenzione! – porterebbe a concludere che la visione della prima guerra mondiale come “quarta guerra d’Indipendenza” e compimento del processo di unità nazionale, la visione di Gioacchino Volpe (e di Mussolini), era corretta viste quelle premesse. Attenzione: non ho detto che la dittatura fascista fosse a questo punto l’esito necessario del movimento del ’59-61 (e del’70). Mi limito a dire che anzitutto non fu affatto “l’invasione degli Hyksos” come sosteneva Benedetto Croce; e che si trattò di un esito che, in termini di costruzione del consenso e di edificazione dello stato sociale, dette comunque – piaccia o no – un senso a quel movimento che, partito dalla spedizione dei Mille e dalla commedia delle annessioni plebiscitarie per approdare alla tassa sul macinato, agli scandali bancari, ai cannoni del Bava Beccaris e alle leggi eccezionali del Pelloux, era fallito: solo un intervento ingiusto (perché si tradì un’alleanza) in una guerra infame (aveva ragione Benedetto XV) avrebbe potuto salvarlo. Ma allora quel che mancava – “nazionalizzazione delle masse”; disciplina del lavoro e stato sociale; avvìo di un abbozzo almeno di riforme che sconfiggessero l’immigrazione e le malattie come la tubercolosi; lotta alla malavita nel sud; pacificazione con quella che già Antonio Gramsci aveva riconosciuto come l’unica vera forza popolare italiana, la Chiesa – fu il fascismo a saperlo realizzare, sia pure a prezzo prima di un cinico e un po’ provinciale movimento di adeguazione al trend repressivo antibolscevico o sedicente tale che si era verificato un po’ in tutta l’Europa almeno centrale e orientale, quindi di una sospensione delle garanzie statutarie che fu forse storicamente illegittima, non però illegale in quanto fu la corona a coprirla con la sua legittimazione. Non v’è possibile paragone tra i regimi conservatori e repressivi nati in tutta Europa per rispondere alla Rivoluzione d’Ottobre (penso all’Austria di Dollfuss, che pure cercò di darsi un dignitoso contenuto cristiano-social-nazionale, o all’Ungheria di Horthy, o alla Polonia di Pildsuski, o alla Finlandia di Mannerheim, o alla Romania di Carol: e metto insieme personaggi molto differenti tra loro) e i caratteri dinamici e innovativi del movimento e dello stesso regime fascisti italiani sia dal punto di vista politico e sociale, sia da quello culturale.

Oggi, dalle scuole ai mass media, Benito Mussolini è l’organizzatore delel squadracce e il tiranno, l’uomo delle leggi razziali e della sudditanza a Hitler, colui che ha gettato l’Italia nel carnaio della seconda guerra mondiale. E’ giusta quest’immagine? O è distorta e riduttiva?

Ripensiamo all’Italietta dei giri di walzer (prima i francesi, poi gli inglesi, poi i tedeschi, poi di nuovo gli anglo-francesi…), all’Italietta che prendeva gli schiaffi a Tunisi e che assaliva la Tripolitania, all’Italietta degli scandali bancari e dello “stato-carabiniere” che consentiva il dissanguarsi del Meridione per arricchire e industrializzare il nord. Pensiamo ai governi dell’Italietta che permettevano a bersaglieri e a carabinieri di far collezione di teste dei “briganti” uccisi, che imponevano la tassa sul macinato e che facevano sparare addosso ai contadini (l’eroico Bixio, il fucilatore di Bronte…) e agli operai. Pensiamo all’Italietta che senza batter ciglio permetteva l’esodo di milioni di suoi “figli” diseredati e li abbandonava al loro destino (e se non ci fosse stata la Chiesa, con personaggi splendidi come monsignor Scalabrini vescovo di Piacenza, nessuno li avrebbe assistiti), all’Italietta che preferiva l’emigrazione alla riforma agraria e che dal 1915 mandò 600.000 disgraziati a farsi ammazzare con la promessa d’un’altra riforma agraria mai fatta.

Mussolini aveva favorito l’entrata in guerra pensando che il popolo, una volta messo il fucile in spalla, non lo avrebbe più lasciato fino al compimento della rivoluzione. Non fu così: e lui – l’unico che, secondo Lenin, avrebbe sul serio potuto organizzare la rivoluzione socialista in Italia – fu quello che la impedì. Eppure, Mussolini è anche l’uomo dell’avvìo dello stato sociale in Italia, l’uomo della Carta del lavoro, l’uomo ammirato da Roosevelt per aver affrontato con coraggio e con abilità la crisi del ’29. Mussolini è l’uomo delle bonifiche dalla Sardegna all’agro pontino, che nacquero dalla sua consapevolezza di essere a sua volta impotente ad avviare una seria riforma agraria ma furono comunque una risposta alta e forte all’Italia della miseria e della fame di terra. Mussolini è l’uomo della sconfitta della pellagra, della malaria e della tubercolosi infantile, l’uomo delle colonie montane e marine, l’uomo della pacificazione delle coscienze con i Patti Lateranensi. Certo, ottenne tutto ciò con l’instaurazione di un regime autoritario e repressivo, forse indebitamente definito “totalitario” (i veri totalitarismi sarebbero stati altri), certo però illiberale: e nel quale tuttavia si avviò una politica culturale con tratti di grande libertà e di qualità tanto alta da venir ancor oggi rimpianta e citata a modello. Mussolini dette un contributo possente alla creazione d’un’identità civica unitaria degli italiani: se c’è un uomo che è arrivato molto vicino ad adempiere i voti dei migliori tra i fautori del Risorgimento unitario – sempre senza dimenticare che la soluzione unitaria e accentrata era in contrasto con la storia policentrica d’Italia -, questo è stato Mussolini.

Allora, prendiamoci il coraggio di far un po’ di spregiudicata ucronìa: se Benito Mussolini fosse morto di un accidente all’età di una cinquantina d’anni, poniamo non il 28 aprile 1945 ma il 28 aprile 1935, all’indomani dei patti di Stresa durante i quali aveva dimostrato di aver compreso prima e meglio di altri la natura del pericolo rappresentato dalla Germania nazionalsocialista, prima di scatenare la guerra d’Etiopia e di lasciarsi avvolgere dall’abbraccio stritolante di Hitler, egli sarebbe rimasto sì l’uomo degli squadristi e del delitto Matteotti (al di là delle sue personali responsabilità al riguardo), ma anche quello del risanamento delle istituzioni statali, della lotta alla piaga dell’emigrazione, della Carta del Lavoro e dell’autentica fondazione dello stato sociale (dopo i conati di Giolitti), dello sbancamento della mafia (riportata in Sicilia dai “liberatori” americani, quelli della strage di Gela del ‘43!...), della modernizzazione del paese – bonifiche, ferrovie, incentivi all’industrializzazione, nascita delle industrie turistica e cinematografica, impulso alle comunicazioni navali e avvìo di quelle aeree -, della “nazionalizzazione culturale delle masse” (OND, “Carri di Tespi”, 18 BL…), della conciliazione tra stato e Chiesa, d’una politica balcanica e orientale lungimirante, che tra l’altro era stata caratterizzata da un deciso filosionismo e da una chiara comprensione delle aspettative dei popoli arabi, che avrebbe fatto di lui un mediatore ideale nella nuova fase della “questione d’Oriente”, quella aperta nel 1918-20 dagli errori, dagli egoismi e dalla slealtà d’inglesi e di francesi. Oggi, il Duce avrebbe una statua in tutte le piazze d’Italia come vero Pater Patriae, più di Cavour e di Garibaldi, e sarebbe ricordato all’estero come il più grande statista della storia d’Italia.

Invece l’accidente non gli è venuto: e le sue scelte tra 1935 e 1945 (ammesso che abbia scelto sul serio qualcosa, tra 25 luglio 1943 e 28 aprile 1945…) hanno causato non solo le tragedie che sappiamo, ma anche una di più, della quale nessuno parla mai. Io l’ho vissuta in prima persona e ne sono testimone. Dopo la guerra e molto a lungo, per l’opinione diffusa (che i comunisti strumentalmente ricattavano puntando alla rivoluzione socialista che non c’è mai stata; i cattolici non combattevano perché in fondo lo stato postrisorgimentale, laico e unitario non lo aveva mai amato; e né i puri di “Giustizia e Libertà” né i “moderati” di destra e di sinistra avevano l’energia e la moralità di ostacolare), chiunque facesse appello ai valori patriottici, alla solidarietà nazionale e al senso dello stato veniva tacciato di “fascista”. Ciò ha provocato al paese un danno morale immenso: è stato il bacillo che ha generato l’infezione scoppiata in maniera devastante più tardi e della quale stiamo ancora pagando le conseguenze.

Ne consegue, a mio avviso, che esito migliore avrebbe potuto avere in Italia un movimento di edificazione dell’unità nazionale che scegliesse la via federalistica, indicata da Gioberti ma – soprattutto – da Cattaneo: anche salvando, ebbene sì, un potere temporale pontificio, magari ridotto alla città di Roma e qualche pertinenza. Quella via non avrebbe creato la rovinosa “questione meridionale”, non avrebbe determinato decenni di crisi morale resa inevitabile dal contrasto tra stato e Chiesa con tutto quel che ciò aveva significato per il paese (anche in termini morali e culturali: un piccolo ridicolo Kulturkampf il regno l’ha fatto eccome…), probabilmente avrebbe evitato la rovinosa politica di opposizione preconcetta all’Austria sulla base delle miserabili rivendicazioni territoriali di nord-est (vorrei ricordare che Cattaneo auspicava che il “Commonwealth” austriaco restasse in piedi), non si sarebbe appoggiata alla Prussia nella guerra del ’66 contribuendo in tal modo, forse, a evitare la guerra franco-prussiana del 1870 ch'è stata la lontana ma primaria fonte dei guai di tutto il continente per i tre quarti di secolo a venire. Sarebbe bastato appoggiare seriamente il progetto di Napoleone III (in verità, piuttosto dell’imperatrice Eugenia) di una lega franco-ispano-italo-bavaro-austro-ungherese delle potenze cattoliche euromeridionali, con annesso il progetto di favorire l’indipendenza polacca (l’Austria ci sarebbe stata, alla faccia di Germania e Russia) e di gestire oculatamente la crisi e la decadenza dell’impero ottomano, il che sarebbe stato meglio per tutto il Vicino Oriente (mentre invece lo abbiamo fatto gestire dal ’18 al ’48, rovinosamente, da Francia e Inghilterra). Fra l’altro, l’alleanza sognata da Eugenia sarebbe stato un ottimo contributo alla futura unione europea. E forse sarebbero andate diversamente anche le cose in Messico e quindi in tutto il Mesoamerica, con un buon ridimensionamento delle pretese statunitensi e un rafforzamento delle prospettive europee di paesi come l’Argentina e il Cile, che a guardar all’Europa erano molto portati. E probabilmente, grazie a un differente approccio al problema dello sfruttamento del canale di Suez – come si sarebbe potuto avere se l’Italia avesse contribuito, e avrebbe potuto farlo, a evitare la guerra del ’70 –, anche la nostra avventura africana avrebbe preso una piega diversa, meno tragicomica. E lo stesso sia detto per il nostro mondo imprenditoriale: un’Europa meridionale e un Mediterraneo egemonizzato dalle potenze navali francese, austriaca e italiana avrebbe impresso tutto un altro trend alla nostra economia. Pensiamo solo alle implicazioni di un’integrazione linee ferroviarie-linee marittime, con la possibilità di avviare sul serio una politica di penetrazione orientale dai Balcani e da Istanbul fino all’Iran e all’Asia centrale. Un mondo senza le due guerre del ’66 e del ’70 avrebbe potuto sul serio attuare in tempi rapidi una linea ferroviaria Vienna-Isfahan e collegare l’Europa continentale al great game russo-inglese, magari nel contempo impedendo alla russia di avvelenare i Balcani con la droga del nazionalismo irredentista, causa della prima guerra mondiale. Altro che Trento e Trieste, che nell’impero austroungarico ci stavano benissimo…

Ma l’Italia si è fatta in un altro modo. Ha perduto l’autobus dell’unione federalista e quello d’una temporanea correzione autoritaria che – assunta appunto in tollerabile dose, e in prospettive di reversibilità passata l’emergenza – le sarebbe stata salutare. Ma dopo il fascismo, la guerra, il progressivo sfascismo postbellico, oggi siamo pervenuto a un paese che sta tentando di attuare di nuovo un progetto federale. Non so se è corretto come quello che sarebbe stato opportuno intraprendere un secolo e mezzo fa. So che alla luce delle nostre scelte di oggi non si può non concludere che quella del regno unitario fu una “falsa partenza”. Però, Mussolini fu colui che più di ogni altro – e meglio di chiunque altro: almeno fino all’intorbidirsi delle acque e al suo delirio d’onnipotenza a partire dal ’36 - cercò d’imprimere all’assurdo-Italia nato dal Risorgimento un senso unitario. Gli andò male. Fu tutta sua, soltanto sua, la colpa?