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Ugo Spirito capì il '68 quarant'anni prima

di Luciano Lanna - 08/06/2010




I tanti nodi irrisolti della politica del nuovo secolo hanno quasi tutti una ragione, non sempre adeguatamente tematizzata, nella definizione del rapporto con l'eredità politica del Novecento. Per cui risulta utile ricordare quanto annotava in proposito il filosofo Mario Tronti nel suo saggio La politica al tramonto (Einaudi): «Il tema dei passaggi d'epoca - spiegava - è sempre, per le formazioni politiche, quello dell'eredità. Più, molto di più, che quello dell'innovazione. È "grande politica" quella di chi nella necessaria distruzione anche del proprio passato guadagna posizioni nel rapporto di forza con l'avversario. E gestisce il mutamento in questa prospettiva»...
 Un passaggio teorico e pratico necessario, questo, che potrebbe, ad esempio, essere percorso attraverso l'itinerario filosofico di Ugo Spirito, il pensatore italiano del secolo scorso la cui elaborazione ha coinciso tout court con la vocazione politica del Novecento.
«È come se Spirito vivesse dentro sé le contraddizioni del proprio secolo, il Novecento, che è il secolo occidentale per definizione», spiega Danilo Breschi che al filofofo e al suo itinerario d'impegno metapolitico ha dedicato un saggio che rappresenta l'esito di dieci anni di lavoro e la consultazione «matta e disperata» dell'immenso carteggio (oltre dodicimila lettere!), dei numerosi manoscritti e della altrettanto vasta biblioteca spiritiana: Spirito del Novecento. Il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione (edizioni Rubbettino, pp. 308, € 19,00). Tra tutti, il merito principale riconosciuto dall'autore al filosofo aretino è infatti quello di aver constatato sin dagli anni Cinquanta quel processo di globalizzazione che ha coinciso con il destino stesso della modernità occidentale. «Spirito - annota anche Giuseppe Parlato nella prefazione - va visto come eccezionale testimone del Novecento; un testimone consapevole del proprio valore e della propria capacità di comprendere, che presenta un dato originale e di enorme vantaggio per gli storici: quello di non essersi mai pentito, di non avere mai voluto prendere in qualche modo le distanze dal proprio passato politico o ideologico». La sua riflessione è sempre andata oltre le contingenze, oltre gli stessi esiti reali delle grandi intuizioni novecentesche, ha attraversato indenne i regimi, gli accadimenti, le delusioni e le illusioni, restando sempre coerente con l'assunto di partenza: la filosofia della prassi, il pensiero che coincide con la trasformazione politica del mondo. Spirito ha puntato consapevolmente a inverare quell'undicesima tesi marxiana su Feuerbach tanto cara al giovane Giovanni Gentile - il quale lo aveva spiegato in quel suo saggio su Marx del 1899 che secondo Augusto Del Noce segna l'atto teorico di nascita del fascismo mentre venne elogiato da Lenin nel 1915 come una delle migliori esegesi del marxismo - secondo cui i filosofi hanno per troppo tempo interpretato la realtà, adesso si trattava di elaborare una filosofia in grado di trasformare il mondo.
Spirito, insomma, raggiunge la propria maturità teoretica quale gentiliano di sinistra, avendo incorporato da subito il Marx di Gentile. «Io - dirà di se stesso - mi sono trovato a essere fascista proprio nell'ambito della mentalità gentiliana». Un fascismo filosofico che coincideva con il recupero, nel senso della "prassi" («il pensiero è svolgimento e come tale non è mai vero una volta per tutte, ma è vero nel suo farsi») di una missione civile e universale dell'Italia nell'accezione risorgimentale, sia giobertiana che mazziniana. Un progetto politico «transnazionale» lo definisce Parlato, per il quale fenomeni come il nazionalismo non sono altro che degenerazioni e frantumazioni dell'intuizione di fondo. «Erano i primi mesi dopo il 1918 - rievocava Spirito nel 1972 - e dappertutto era vivo il bisogno di un rinnovamento generale... In questa atmosfera ebbe inizio la nostra giovinezza. Se volessimo caratterizzarla nella sua espressione dominante, dovremmo appunto sottolineare il fatto della giovinezza... Sentivamo di cominciare, e, pur nell'ansia della trasformazione, avvertivamo la gioia di un nuovo cammino». Estremamente significativa la conclusione: «Noi eravamo i giovani e l'avvenire era il nostro avvenire... Il fascismo eravamo noi e si esprimeva nella nostra giovinezza...». Del resto scriveva "in presa diretta", nel 1924: «Il fascismo non è contro un partito. Ha lottato e vinto contro socialisti, conservatori, liberali, popolari e anche nazionalisti. Ma nello stesso tempo non ha disconosciuto nessuna di tutte le esigenze che erano in quegli stessi partiti».
In questa lettura generazionale ed epocale del fascismo è evidente la presenza di quell'esigenza sintetica che contraddistingue l'intera speculazione filosofico-politica di Spirito. Visse l'esperienza dell'Italia mussoliniana, dal suo punto di vista, come un fenomeno di profonda modernizzazione civile; amico di Giuseppe Bottai, teorizzò il superamento delle antinomie ottocentesche capitale-lavoro e pubblico-privato; interessato anche a certi esperimenti economico-sociali tedeschi e portoghesi tra le due guerre mondiali, dopo il '45 si avvicinò alle espreienze comuniste, prima russa e poi cinese. E, in tutta questa fase, la logica che lo ispira è in buona sostanza quasi sempre la stessa nel corso di un arco di tempo che va dagli anni Trenta alla fine degli anni Sessanta. Un progetto le cui basi teoriche sono ben chiare e non mutano negli anni: la critica alla società dell'Ottocento, la critica dell'individualismo, la convinzione che la società debba essere trasformata filosoficamente, una riforma rivoluzionaria del sistema economico.
Tutto questo mentre, se la sinistra si riconobbe per anni nel giudizio liquidatorio di Palmiro Togliatti, secondo il quale Ugo Spirito non fu mai davvero comunista, a destra risultavano sgradite le sue posizioni "rivoluzionarie" di matrice gentiliana e, la sua sostanziale estraneità non solo al termine "destra" ma alle posizioni antimoderne egemoni nella cultura di quella parte politica negli anni Sessanta e Settanta. C'è poi nella sua prospettiva una sorta di teorizzazione di un liberalismo mazziniano, anti-individualista e avverso a qualsiasi forma di utilitarismo, un liberalismo post-illuminista che rappresenta la continuità dell'attualismo gentiliano.
Anche alla luce di queste convinzioni di fondo, il professor Ugo Spirito, ordinario di Filosofia teoretica all'Università di Roma sin dal 1951, si contraddistinse negli anni della contestazione sessantottina per un atteggiamento comprensivo e, a tratti, dialogante. Il suo invito fu sin dall'inizio quello di «comprendere, comprendere senza giudicare». E in una sua relazione del 1969 scriveva esplicitamente: «I genitori rappresentano il conservatorismo, la difesa del passato; e i figli rappresentano la volontà di trasformare il mondo».
Per dirla tutta, il filosofo che aveva in qualche modo teorizzato il giovanilismo come tratto epocale del '900 (e del "suo" fascismo), non poteva non schierarsi con i giovani. E lo farà nelle sue lezioni del giovedì all'ateneo romano come nei suoi interventi pubblici, fino alla sua morte nel 1979. «La storia - diceva - ha sempre dato ragione ai giovani di fronte agli anziani». E, intuendo in anticipo la globalizzazione, spiegava: «C'è la guerra del Vietnam. Ma questa guerra non appartiene più al Vietnam e neppure all'Oriente. La guerra nel Vietnam è una guerra che incide in ogni parte del mondo, appartiene alla storia di tutto il mondo. E non si può fare la storia d'Italia senza inserire nella storia d'Italia il problema del Vietnam».