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Con Israele o con la Palestina? Per non vivere a metà aspettando Godot

di Alessandra Colla - 08/06/2010

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È da qualche giorno che canticchio ossessivamente un Battisti d’antan — «eh no eh no / non è questione di cellule / ma della scelta che si fa / la mia è di non vivere a metà…».
Perché l’assalto di lunedì scorso alla Mavi Marmara da parte delle truppe israeliane è uno di quegli eventi — come l’11 settembre, come l’attacco al Libano, come l’operazione Piombo fuso — che non possono essere ammortizzati dall’orrore quotidiano che permea le nostre vite e ottunde le nostre coscienze: al contrario, esso va letto come un discrimen epocale, ovvero come un fatto lacerante che esige una presa di posizione. La esige in modo necessario, strutturandosi in forma di imperativo etico al quale tutti sono chiamati a rispondere, e a nessuno è concesso sottrarvisi.
Quando dico “tutti”, naturalmente, mi riferisco a tutti coloro che in un modo o nell’altro, da una parte o dall’altra, fanno politica (o credono di farlo) — l’optimum sarebbe occuparsi del Politico, ma io non sono mai contenta.

Fare come se non fosse successo niente è da pavidi o, peggio ancora, da opportunisti.

Sulla pavidità, bisogna esser concilianti: come diceva el mè don Lisander, «il coraggio uno non se lo può dare». Ma poiché (oggi sono in vena di citazioni) «L’amore è la più difficile e pericolosa forma di coraggio. E il coraggio è la più disperata, ammirevole e nobile forma d’amore» (lo dice Delmore Schwartz, e voglio crederci), mi vien da pensare che magari i pavidi amano troppo se stessi per far cadere anche una sola briciola di compassione da condividere con l’altrui sofferenza. O magari, più semplicemente, son proprio fifoni — e morta lì.

Sugli opportunisti, il discorso è più complesso. Devo ammettere che i loro equilibrismi e le loro perigliose arrampicate sui vetri (di fronte a cui persino il più temerario free climber si dichiarerebbe impotente) meriterebbero il riconoscimento di specialità olimpionica. Ma di fronte alla carne ed al sangue, un essere umano normodotato deve pur avere un fremito e dire forte e chiaro quello che pensa — e forse è proprio questo, il punto: pensano, gli opportunisti? O si lasciano pensare da altri? Ovvero astutamente e subdolamente procedono senza posa verso il proprio bene come le amebe che istintivamente si ritraggono dal pericolo?

Domande difficili. Fatto sta che a destra come a sinistra è tutto un pullulare di casuismi ed eccezioni e distinguo e “ma” e “però″ che, giratela come volete, permettono sguisciamenti serpentini che si traducono, di fatto, in un’assenza di posizione che assomiglia parecchio al fluttuare degli astronauti in assenza di gravità — si gira un po’ di qui e un po’ di lì, ci si urta, ci si capovolge, si ruota su se stessi, si è in continuo movimento senza fare concretamente nulla. Tutto questo non impedisce di parlare (talvolta): si dice no ai fondamentalismi, si invoca l’equidistanza, si discetta sull’appartenenza ideologica dei pacifisti — e non si prende posizione. Si fa dell’attendismo: ma attenzione, perché aspettando Godot si muore.

Letterariamente, costoro si conquistano un posto di diritto nell’Antinferno, poiché sono ignavi. Nella realtà io, fuori dei denti, dico che chiunque in questi giorni non abbia manifestato apertamente il suo dissenso nei confronti dell’attuale governo e delle sue scelte criminali si schiera per ciò stesso al fianco degli oppressori, ed è moralmente responsabile del sangue versato — da decenni nella Palestina occupata e da pochi giorni nelle acque internazionali al largo di Gaza. Non si faccia finta di non saperlo, e si abbia il buon gusto di non invocare machiavelliche strategie alla Sun Tzu — meglio Feltri e quelli come lui, allora, che si sono schierati.
Ci si guardi allo specchio, ci si chieda «Da che parte voglio stare?» e ci si dia una risposta, marzullianamente ma schiettamente. Il resto è chiacchiera.