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Privilegi, favori, corruzione. L'opacità del potere

di Ernesto Galli Della Loggia - 13/06/2010

 

Negli ultimi tempi è intervenuto un cambiamento importante sia nelle «auto blu» cosiddette «di servizio » — che poi peraltro sono quasi sempre nere — sia, più in generale, nelle auto adoperate dagli italiani che contano (dalle maestose berline di rappresentanza ai Suv c a f o n i s s i m i d a weekend): sempre più spesso queste auto hanno i vetri dei finestrini oscurati. La metafora è inevitabile: il potere nostrano ama l’opacità, accompagnata, anche in questo caso, dal privilegio: poter vedere senza essere visti. Un piccolo e normale privilegio stavolta, alla portata di tutti, ma che comunque allude alla dimensione dell’opacità, consustanziale a quella del potere italiano: la sua mancanza di pubblicità è, infatti, la garanzia maggiore del mantenimento del privilegio. Non è il desiderio di arricchire, non è il basso desiderio di impadronirsi di beni e ricchezze, l’anima vera della corruzione italiana, il suo principale movente. Psicologicamente credo che sia qualcosa di diverso: è il privilegio, l’ambizione innanzitutto di distinguersi, di appartenere al gruppo di coloro per cui non valgono le regole che valgono per tutti. A cominciare da quella regola suprema che è la legge.
Si ruba, si viola il codice penale, convinti che tanto a noi non toccheranno le conseguenze che invece toccherebbero a un comune mortale. Convinti che in un certo senso ciò che si sta commettendo non è neppure più un reato dal momento che siamo noi a commetterlo, e dal momento che noi facciamo parte di un gruppo a parte, il gruppo dei privilegiati, appunto. Dietro l’ormai leggendaria impudenza dell’ex ministro Scajola—leggendaria innanzitutto per la sua goffaggine («devo appurare chi è stato a pagare per l’acquisto della mia casa»)—cosa c’è infatti se non un’idea di privilegio talmente introiettata da essersi mutata in una presunzione d’impunità, pronta a prendere addirittura la forma della distrazione? Antica società di ceti, dominata da una forte rigidità gerarchica, la società italiana si è abituata a considerare il privilegio l’unico contenuto effettivo del rango. Essere qualcuno significa, in Italia, innanzitutto stare al di sopra della massa. E nella Penisola tutti — giornalisti, tassisti, parlamentari, membri di tutti gli ordini professionali, magistrati—tutti vogliono essere al di sopra degli altri, titolari di qualche privilegio: essere esentati da qualche obbligo; avere delle riduzioni; degli sconti o come minimo dei biglietti omaggio; rientrare in un «numero chiuso»; fruire di un’ope legis; godere di un trattamento speciale; magari di una cassa mutua riservata. Ma il massimo del privilegio, la consacrazione del vero privilegiato, sta altrove.
Sta nella possibilità di chiedere «favori», e naturalmente di ottenerli. Ed egualmente lì sta la dimostrazione indiscutibile del rango. Infatti si possono chiedere favori solo se si «conosce » (fornitori, nomi importanti, persone in posti chiave), e naturalmente si «conosce» solo se a propria volta si è «conosciuti », cioè se si è qualcuno. Non si capisce nulla delle ragioni e della profondità inaudita del narcisismo dilagante in Italia, specie tra i giovani, non si capisce la conseguente, universale, spasmodica voglia di apparizioni e di carriere in tv, se non si tiene a mente il privilegio di «conoscenze»—e dunque di favori, di accessi di ogni tipo—che da noi si attribuisce all’essere «conosciuti». Se «si va» in televisione ci si fa «conoscere», e per chi è «conosciuto» nulla è impossibile. Sulla scena italiana, intorno alla grande arena del privilegio, opacità e riservatezza da un lato, e narcisismo ed esibizionismo dall’altro, s’intrecciano contraddittoriamente: nel primo caso per difenderla, nel secondo per entrarvi. Da tempo però la scena è furiosamente animata da un altro protagonista: l’intercettazione telefonica. Questa, e la sua divulgazione,(così come la divulgazione degli stipendi e delle case) sono diventate la grande speranza, l’estrema risorsa della massa dei non privilegiati. Lo sa bene chi ha il potere di usarne— magistratura e stampa—e che proprio per questo ne fa l’uso così ampio che sappiamo.
Grazie all’intercettazione telefonica si rompe finalmente l’opacità del grande privilegio sociale, quello dei politici e dei ricchi innanzitutto, e l’aura di riservatezza di cui esso si nutre. Finalmente i discorsi dei potenti sono squadernati nella loro volgare quotidianità, nei loro desiderata, perlopiù inconfessabili, nei loro intrighi, ed esposti una buona volta al giudizio dei più. Nella sua versione italiana l’intercettazione telefonica diventa così la vendetta della plebe sull’oligarchia, la rivalsa della demagogia sulla democrazia. È lo sputtanamento, come è stato esattissimamente detto: lo sputtanamento demagogico, appunto, opposto alla pubblicità democratica. Una forma di giustizia violenta ed elementare, senza appello e senza garanzia alcuna. Una specie di linciaggio incruento. Ciò che è terribile è che la maggior parte di coloro che vivono in questo Paese pensi che sia questa, oggi, la sola forma di giustizia possibile. Ed ancora più terribile è che, probabilmente, hanno pure ragione.