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Da Darwin all’ordine della vita. Le ragioni di una rivoluzione (II parte)

di Stefano Serafini - 14/06/2010

Fonte: Atrium

2. La ragione, il caso, l’utile, e il nulla

 

Oltre l’aspetto antropologico e psicoanalitico della denuncia di Adorno e Horkheimer, resta innegabile che il metodo e l’indagine scientifici, in senso generale, non possono non muoversi che all’interno di una fede nella razionalità della natura (ricordiamo la soluzione del dubbio iperbolico di Descartes, secondo la quale Dio non potrebbe ingannarci e produrre un mondo incongruo alla nostra mente). In un certo qual senso, la scienza ha davvero sostituito il logos al theos, riempiendo coi vincoli della razionalità quella natura che era stata affrancata dalla salda presa divina; la ricerca di tale logos ha coscientemente sostituito la religione non soltanto per un fine di potenza, come denunciano i filosofi francofortesi, ma anche per un desiderio teorico. Contempliamo la mente di Dio se comprendiamo la struttura del cosmo, hanno sostenuto Albert Einstein e Stephen Hawking.[1]

 

Non vi è allora qualcosa di contraddittorio, di radicalmente eversivo e autodistruttivo, nel voler spiegare il mondo attraverso il caso, così come pretende la diffusiva versione forte del neo-darwinismo, applicato ormai a tutti i campi dello scibile, dalla neurofisiologia alla stessa chimica?[2] La logica dello scientismo, se accettiamo la tesi di Sermonti, secondo la quale il darwinismo ne sarebbe la sintesi paradigmatica,[3] è, da questa prospettiva, perfettamente in asse con il nichilismo che caratterizza il pensiero occidentale. Esso tenta cioè di scalzare le proprie ultime radici di senso, e in tal modo è destinato ad autodistruggersi. Da Galileo a Descartes, a Leibniz, ad Einstein, la grande scienza occidentale ha sempre difeso con coerenza la fondamentale leggibilità dell’universo e il potere della ragione umana di incontrarsi con il disegno del mondo. L’oscurità ignota del caso, che la Fisica aveva imbrigliato mediante le leggi dei grandi numeri, quivi assurge invece ad architrave teorico del Tutto. Attraverso la cieca selezione essa diviene origine dell’ordine, della vita, del pensiero, e perciò in ultima analisi della scienza stessa. Può forse essere una soluzione ad hoc per un programma di ricerca minimo limitato ai fenomeni biologici, ma di fatto il suo programma massimo ha aperto una voragine sotto le fondamenta di tutta la scienza. Una voragine di cui pochi sembrano rendersi conto.

 

Eric Voegelin[4] sostenne che l’intero spirito dell’epoca moderna è costituito in realtà da un’escatologia cristiana camuffata, la quale ha preso la forma dell’afflato individuale alla dottrina salvatrice fatto sistema (gnosi). Poco importa qui se il suo maggiore oppositore, il filosofo Hans Blumenberg[5] abbia ragione o meno nel sostenere che tale paradigma gnostico, al contrario, è stato sconfitto dalla modernità. Quel che per noi conta è l’indicazione – comune a un terzo importante attore della scena filosofica contemporanea, Hans Jonas[6] – di una modalità metacosciente che agisce la nostra cultura. Con essa diventa possibile spiegare, almeno in parte, il corso nichilistico della nostra civiltà come gnosticismo ateo.

 

Assume dunque una speciale rilevanza in tale contesto il ruolo del darwinismo e dei suoi espansionistici sviluppi legati al nucleo ideale caso-selezione. La riflessione su questo argomento, altrimenti abbandonato con sufficienza dai filosofi ai diverbi tra fanatici, riguarda proprio il cuore della «tecnoscienza» di cui parlava Martin Heidegger, e del cui sviamento Edmund Husserl predicava la necessità di un recupero umanistico.[7] Essa potrebbe contribuire all’opera di ricostituzione del rapporto fra scienze dello spirito (con oggetto il problema massimo del nichilismo) e scienze naturali, della cui rottura Adam Sedgwick, primo, accusò Darwin.

 

Lasciamo correre le letture puerili, che vorrebbero (anche qui la vulgata evoluzionista ha le sue responsabilità) gli uomini del passato intellettualmente inferiori a noi. Indipendentemente dalle esigenze e rappresentazioni religiose, nel Medioevo scientifico la natura aveva un ordine perché al suo principio – non necessariamente temporale – v’era un Ordinatore, una fonte di codice finalistica, o almeno totalmente armonizzata; perciò quest’ordine doveva essere razionale. La sua complessità imponeva una ricerca faticosa delle leggi di armonizzazione alle cause, del come e del perché dei singoli eventi, delle stelle e degli insetti, dei vulcani e della pioggia, del canto degli uccelli e delle livree dei pesci oceanici, della fioritura del pesco e dell’odio o dell’amore di un uomo. L’opera precipua dello scienziato era la summa.

 

Secondo la dottrina della selezione naturale, basata su caso e necessità, la natura è invece sì ordinata, ma di un ordine intrinsecamente irrazionale, il cui fondamento è il disordine, l’assenza di causa; un ordine soltanto funzionale, del tutto estrinseco ed apparente, come apparente sarebbe la teleologia del fenomeno vitale. Il Dio darwiniano appare per come non è, tralignante di terribilità dietro la vacua e graziosa maschera della vita, al modo di una fantasia barocca; opposto specularmente alla Suprema Mente teorizzata da Tommaso d’Aquino, rammenta l’Infinita Volontà escogitata durante la prima grande crisi epistemologica del Medioevo dal teologo francescano Duns Scoto: un Dio che decide a suo piacimento persino del Vero e del Bene. Di fronte a Lui tutto è contingente. Come dimostrano la psicobiologia e la neurofisiologia evolutiva, le coerenti conclusioni del darwinismo e del suo contingentismo allorché si rivolga alla genesi decostruttiva dell’etica e del pensiero, sono infatti il più misero degli utilitarismi, e lo psicologismo, ovvero il sovvertimento della razionalità.

 

Far derivare infatti le facoltà cognitive, attraverso un processo selettivo, dal substrato biologico (il cervello), significa ridurre la portata della nostra conoscibilità, e ogni ragionamento, a un pragmatismo operazionale privo di fondamento e universalità. Neurofisiologi evoluzionisti sono giunti a sostenere che l’idea (il «meme») di Dio non sarebbe altro che uno dei tanti prodotti dell’evoluzione, un’illusione o uno strumento utile alla fitness della specie. Non sovviene loro che, secondo la dottrina, anche l’evoluzionismo è un’idea, prodotta mediante il cervello dalla selezione, e dunque priva in sé di fondamento veritativo.[8]

 

Evidentemente se tale sovvertimento risulta chiaro al filosofo, non lo è ancora allo scienziato. Ove lo diventasse, probabilmente la crisi assurgerebbe al suo culmine, portandoci forse, se non alla grande implosione profetizzata da Pierre Thuillier,[9] almeno più vicini alla liberazione dalla «incredibile cantonata» della cui mancata confutazione ci accuseranno, come «tutti pazzi», gli storici del futuro secondo il grande Giorgio de Santillana.[10]

 

Vorremmo aggiungere che esiste un parallelo morale di non infimo peso, a questa elementare critica logica. Evoluzionisti militanti hanno ribattuto a chi accusa il darwinismo di aver precorso gli orrori del Novecento, dal colonialismo, ai lager, all’eugenetica, che gli avvenuti lager e stermini e cantici della razza, dimostrerebbero invece proprio la potenza previsionale del darwinismo, e dunque la sua verità.[11] Non si rendono conto di offrire in tal modo una imperdonabile quanto assurda giustificazione scientifica (post hoc, naturalmente) a quel che di peggio l’umanità moderna abbia prodotto e patito.

 

Vi è infine un’ultima considerazione. Pretendere che ogni cosa possa venir spiegata nei termini di caso e selezione, cioè ridurre la razionalità scientifica all’utilitarismo darwiniano (un atteggiamento in cui è facile scivolare, come riconosceva Huxley nel brano che sopra abbiamo citato), è certamente un grave errore, una mutilazione della ragione; eppure è anche un rivendicato programma metodologico (pensiamo ancora alla psicobiologia, o alla neurofisiologia evoluzionista), divenuto per di più atteggiamento diffuso, nocciolo duro di una vera mentalità evoluzionistica ormai profondamente radicata nella nostra cultura. Secondo tale mentalità, il perseguimento della fitness in biologia e dell’utile nel mondo umano, è l’ultima ragione e l’unica logica di ogni atto, struttura e avvenimento. La scienza “spiega” il mistero (così direbbe Dawkins), mediante un procedimento genetico a ritroso a partire dall’ovvietà del presente – ciò che è qui è adatto, ed è adatto perché è qui –, la quale si confonde con la normatività del futuro. Il logos è divenuto il chresimon.[12] Senza analizzare gli effetti nefasti degli inevitabili due passi successivi, cioè la giustificazione del mero dato presente, e poi la sua elevazione a norma (nell’es. portato prima, la “predizione”, la giustificazione, e infine l’approvazione – sebbene raramente ammessa per ragioni di convenienza – dell’homo homini lupus e della crudeltà sociale più spietata), basti rimarcare l’amputazione epistemologica che deriva da tale riduzione categoriale. L’ordine della vita (e dunque quello etico, sociale, economico, politico) diviene mera strutturazione per fini prassici. Fini ciechi, beninteso – poiché in natura la selezione è cieca, e nell’agone sociale vano è l’ultimo fine esistenziale (vi risponde l’edonismo brillantemente raffigurato da La Philosophie dans le boudoir ou les instituteurs immoraux di De Sade). La mano invisibile di Dio come provvidenza del mondo, è divenuta la mano invisibile tout court del Laisser-faire. Ogni fatto e valore è stato sovvertito, piegato alla mentalità mercantile sviluppatasi in Inghilterra ai tempi del reverendo Malthus, e trionfante oggi nel mondo.

 

A chi rifletterà sul processo militare nordatlantico di “esportazione della democrazia” in questi anni, profondamente sentito come una santa missione da un certo strato dell’opinione pubblica, non sfuggirà la relazione fra quell’atteggiamento politico e l’incapacità di comprendere il mondo al di fuori del binomio categoriale utilitarismo/barbarie. Qualcosa di simile si potrebbe dire a proposito dell’entusiasmo di certe élites verso i kit di auto-analisi genetica, presto sul mercato “per la prevenzione consapevole delle malattie nella discendenza” – l’eugenetica dolce dell’ultima umanità senza dolori, preconizzata da Nietzsche.[13]

 

Questa costellazione ideologica radicalmente conservatrice, eppure mascherata di progressismo, è capace di riprodursi sotto spoglie diverse nei vari campi della cultura. Per comprenderne la forza, pensiamo alla difficoltà di liberarsi dal pregiudizio secondo il quale tutto ciò che accade in natura e che gli individui compiono, sarebbe mosso dall’utile; e altrimenti si avrebbe lo “irrazionale”, il “mostruoso” (lo hic sunt leones della contemporaneità). Per fare un esempio estremo, l’opinione pubblica ha ormai persino metabolizzato la tendenza a spiegare il più terribile tra i fenomeni umani, la guerra, con due sole opposte categorie: follia/ricerca dell’utile. La guerra «è una follia», ovvero «il mezzo per ottenere qualcosa», a seconda che il giudizio appartenga a chi si ritenga “pacifista” o “politicamente realista”. Le concause del fenomeno antropologico della guerra – psichiche, culturali, morfologiche, geopolitiche, mitiche, ottative, rituali, ecc. – vengono azzerate da tale dicotomia. È questo ormai il giudizio sospeso su tutto ciò che è umano; esso salmodia che ciò che non ha un prezzo non ha dignità di esistenza. Anche molte linee psicoterapiche (con l’eccezione parziale dello junghismo) ricadono all’interno di tale logica: ciò che è utilitario è razionale, e ciò che non è utilitario è irrazionale, irretito nell’inconscio. La psichiatria ne ha incarnato la più lugubre maschera, fino all’estremo rivelatore di pratiche il cui scopo dichiarato non era più l’utile del soggetto “pazzo”, ma quello della “ragionevole” società che da esso prendeva le distanze e si difendeva.

 

Estraneo a questa mentalità è, ad es., il pensiero tragico tramandatoci dalla Grecità. Esso indagava le ragioni della natura umana e cosmica con tutt’altre categorie (il dionisiaco, la Necessità, il dono, l’onore), e l’utile lo relegava piuttosto alle basse e poco rilevanti questioni di bottega. Non a caso l’altissima scienza greca non ebbe ricadute tecniche degne di nota, nonostante sia ben dimostrato che ne avesse la capacità. Noi non abbiamo le competenze per parlare del vasto e variegato mondo islamico, ma è stato da più parti osservato che la sua avversione verso l’Occidente è in sostanza dovuta al conflitto logico fra questa modalità assolutista di prezzare l’universo, e una o più culture alle quali tale pretesa risulta distruttiva, spaventosa e minorante.[14]

 

 

3. Per un risveglio critico

 

Dobbiamo limitarci soltanto a questi pochi accenni. La forma particolare dell’esercizio della razionalità che chiamiamo scienza, è posteriore alle strutture originarie della cultura; esse la contengono e preformano, come contengono tutte le nostre attività umane. La scienza viene dopo, non cade dal cielo autonoma e perfetta come vorrebbe il mito di Minerva, sorta in armi dalla testa di Zeus. È perciò, e in misura proporzionale alla sua enorme influenza sulla vita, sul pensiero e sulla società, e ovviamente al suo trovarsi al cuore del nichilismo, che tale forma ha stimolato secoli di riflessioni critiche, e ne abbisogna continuamente proprio per non perdersi alla deriva. Oggi occorre ad es. constatare quanto il pensiero critico epistemologico, e persino la sociologia e l’antropologia culturale applicate alla potente attività scientifica, stiano preoccupantemente tornando inconsci alla scienza, come nell’Ottocento. Il sonno della ragione critica della scienza, ridotta alla propria operatività ideologicamente orientata, desta così il mostro, l’incubo, il lato oscuro del lavoro scientifico e tecnico (e così, peraltro, dell’economia, dell’industria, della politica, ecc., con i risultati, tutt’altro che magnifici e progressivi, sotto gli occhi di tutti).

 

Come abbiamo accennato sopra, avis rarissima se non altro per la sua acutezza ed eleganza, è stato Giuseppe Sermonti ad aver illuminato nella dottrina darwiniana l’essenza pregnante ed esemplare dello scientismo, cioè la tendenza ad assolutizzare una razionalità scientifica confinata, quale unica forma valida di razionalità; e l’autoritaria riduzione di ogni semiotica esistenziale alla sintattica pragmatico-funzionale (a cominciare dunque dalla più libera e spontanea delle semiotiche: il bios). Se Sermonti avesse sviluppato interessi in campo sociale, forse ci avrebbe donato un’analisi della struttura economica sottostante a tale logica assolutistica. Egli (e come lui altri importanti autori che hanno riflettuto dal di dentro della scienza sui limiti e i fondamenti del modello teorico dominante di spiegazione della vita, quale A. Lima-de-Faria) si è invece arrestato di fronte a pochi tratteggi dei rapporti fra darwinismo e sistema economico dominante. È tuttavia per noi quasi imbarazzante, oggi, dover rammentare a molti lettori che ben 60 anni fa l’ambiente della Scuola di Francoforte ha prodotto validi strumenti intellettuali, affinché almeno non si tornasse a cadere in situazioni di coscienza alterata simili a quelle che agevolarono, in nome della Scienza, il secondo conflitto mondiale, e ancora non smettono di preparare la definitiva liberazione dall’angoscia con l’omnicidio nucleare.

 

L’imbarazzo è il medesimo – ed è anzi esso il sentimento che ci ha spinti a curare questo volume – nel constatare la necessità di riequilibrare la retorica urlata degli ultimi anni, nel dibattito su un modello di spiegazione del fenomeno vita, e sulle metodologie di approccio al problema, semplicemente presentando al lettore colto, ma invece rammentando a chi di queste cose pretende di occuparsi lasciandosi trasportare da passioni ideologiche extrascientifiche, l’esistenza di rigogliosi e interessantissimi rami del pensiero biologico non allineati alle certezze di Richard Dawkins, colui secondo il quale, grazie a Darwin, il mistero dell’esistenza è stato definitivamente risolto.

 

La scienza della vita, invece, a parere di molti ha ancora un lungo cammino davanti a sé, e i ricercatori possono permettersi di continuare a sognare e porre domande all’esistenza, perché come scrive l’accademico Sergio Carrà, «non è necessario essere cattolici integralisti per chiedersi come un organismo così complesso quale un essere umano possa essere solamente il risultato di una successione di eventi casuali».[15] Con buona pace di tutti i profeti – ovviamente – la storia non è ancora finita, né gli scienziati conservatori riusciranno a chiuderla in convento.

 



[1] Dell’affermazione di Hawking, apparsa in Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo, trad. It. Mondadori, Milano 1988, il teologo Hans Küng, L’inizio di tutte le cose, trad. It. Rizzoli, Milano 2006, pp. 28-29 dà un’interpretazione maliziosa: «Un’idea pensata in maniera cosciente e intesa ironicamente», per eliminare Dio. Küng, a nostro parere, cade anch’egli nell’errore scientista, sebbene a rovescio, pretendendo un Dio oggetto della cosmologia.

[2] Si veda il contributo di A. Lima-de-Faria, “È giunta l’ora di riscrivere tutti i libri di fisica e di chimica?”, più avanti in questo volume.

[3] Si vedano in particolare Il crepuscolo dello scientismo, riedito da Nova Scripta, Genova, 2002, e lo straordinario saggio L’anima scientifica, La Finestra, Lavis 2003.

[4] Cfr. E. Voegelin, Wissenschaft, Politik und Gnosis, Kösel, München 1959.

[5] Cfr. H. Blumenberg, L’ansia si specchia sul fondo, trad. It. Il Mulino, Bologna 1989, pp. 49-54 dove la contingenza del mondo è un’idea cristiana, il «senso» del mondo una questione in realtà improponibile, e la «rabbia contro il mondo» una pantomima. Notiamo, alle pp. 111-112, l’interessante nota di paragone fra le strutture fondamentali di religione, logica economica, e ordine cosmico.

[6] Cfr. H. Jonas, Tra il nulla e l’eternità, trad. It. Gallio, Ferrara 1992. Jonas legge un influsso gnostico nella stessa struttura del nichilismo e dell’esistenzialismo contemporanei. Impossibile non aggiungere che persino un biologo, e non un filosofo, ha sospettato che la grande enfasi conferita dai suoi colleghi ai geni e alla lotta (la “metafora competitiva”) derivi da un mito culturale di Caduta e Redenzione: Brian C. Goodwin, How the Leopard Changed Its Spots: the Evolution of Complexity, Phoenix 1994.

[7] Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, trad. It. Bocca, Milano - Roma 1953; E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. It. Saggiatore, Milano 1997. A esclusione della cosiddetta “scuola tradizionale” di ispirazione metafisica (cfr. M. M. Zarandi (ed.), Science and the Myth of Progress, World Wisdom, Bloomington 2003), in Europa occidentale e negli USA la filosofia sembra aver smesso di interessarsi veramente all’argomento dalla fine degli anni ’70. Si vedano a titolo di esempio: P. S. Moorhead - M. M. Kaplan (eds.), Mathematical Challenges to the neo-Darwinian Interpretation of Evolution, The Wistar Institute Symposium Monograph Number 5, The Wistar Institute Press, Philadelphia 1967; R. H. Peters, “Tautology in evolution and ecology”, Am. Nat. 110 (1976), pp. 1-12; K. R. Popper, “Darwinism as a metaphysical research programme”, in: Unended Quest: An Intellectual Autobiography, Fontana, London 1976, pp. 167-180 (la cui tesi è stata successivamente in parte ritrattata dall’autore).

[8] Della fallacia dei tentativi evoluzionistici di giustificare la verità delle credenze di sistemi cognitivi sviluppatisi per pressione evolutiva (Descartes redivivo!) si è occupato Steven P. Stich. Cfr. il suo The Fragmentation of Reason, MIT Press, 1990, e in italiano il contributo “Decostruire la mente: la critica al materialismo” in: E. Carli (cur.), Cervelli che parlano: il dibattito su mente, coscienza e intelligenza artificiale, Mondadori, Milano 1997, pp. 197-212.

[9] Cfr. P. Thuillier, La grande implosione. Rapporto sul crollo dell’Occidente 1999-2002, trad. It. Asterios, Trieste 1997.

[10] G. de Santillana - H. von Dechend, Il mulino di Amleto. Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, trad. It. Adelphi, Milano 2000, pp. 94-97: «Forse, un giorno, il nostro tempo sarà chiamato Era Darwiniana, così come noi parliamo dell’Era Newtoniana di due secoli fa. L’evoluzione, questa semplice idea che non si ritiene più necessario esaminare, copre come una tenda tutte le età che conducono dal primitivismo alla civiltà. Gradualmente, ci viene detto, un passo dopo l’altro, gli uomini produssero le arti e i mestieri, fecero questo e quello, finché non emersero alla luce della storia. Questi soporiferi “gradualmente” e “un passo dopo l’altro”, ripetuti senza tregua, mirano a nascondere un’ignoranza a un tempo vasta e sorprendente. [...] L’evoluzione animale rimane un’ipotesi storica a carattere generale, sostenuta da dati sufficienti – e dalla mancanza di un’alternativa; nei particolari, essa solleva un numero spaventoso di interrogativi per i quali non abbiamo risposte [...] E poi si passa alla storia: l’idea evoluzionistica riappare e fa il suo ingresso come qualcosa di naturale, priva ormai di qualsiasi proporzione [...] Il tutto rientra in una specie di Naturphilosophie mai analizzata. [...] Forse gli storici dei secoli futuri ci dichiareranno tutti pazzi per non aver scoperto subito e confutato con la necessaria energia questa incredibile cantonata. [...] La nostra ignoranza non solo rimase profonda, ma divenne anche pretenziosa».

[11] Si veda la frase di Darwin citata in exergo al presente fascicolo. Capeggiati trionfalmente dal noto genetista Luigi Cavalli-Sforza e da suo figlio l’antropologo Francesco, risposero così, con un coro soddisfatto, a Giuseppe Sermonti che contestava i frutti sociali del darwinismo, in un dibattito pubblico su Darwin durante la trasmissione “L’infedele” sul canale televisivo nazionale italiano LA7 (16 novembre 2005). Nessuno è sembrato accorgersi della gravità di tale affermazione.

[12] Parafrasando Heidegger, abbiamo a che fare con una cresimoteologia, una fondazione del reale sull’utile.

[13] F. Nietszche, Also sprach Zarathustra, Insel Verlag, s.l. 1997, § 5, pp. 18-20. Sui kit e la rincorsa della “normalità biologica”, è uscito un impressionante, lungo articolo-intervista di Marina Valensise al presidente del Consiglio consultivo nazionale di etica di Francia, il prof. Didier Sicard, sul quotidiano Il Foglio (13/02/2007, inserto p. I) dal titolo “Siamo ai preliminari della selezione della specie”.

[14] Si veda Wim van Binsbergen, “Towards an Intercultural Hermeneutics of Post-’9/11’ Reconciliation. Comments on Richard Kearney’s ‘Thinking After Terror: An Interreligious Challenge’”, Journal of Interdisciplinary Crossroads, II (2005) 1, ma disponibile anche in rete sul sito www.shikanda.net. Dello stesso autore: “The Underpinning of Scientific Knowledge Systems: Epistemology or Hegemonic Power?”, versione rivista della conferenza presentata al Colloquio La rencontre des rationalités, African Centre for Advanced Studies, CIPSH – UNESCO, Porto Novo, Benin, 2002, disponibile sul sito www.shikanda.net .

[15] S. Carrà, Prefazione a: A. Lima-de-Faria, Evoluzione senza selezione. Autoevoluzione di forma e funzione, trad. It. Nova Scripta, Genova 2003, p. xx.