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Da Darwin all’ordine della vita. Le ragioni di una rivoluzione (IV parte)

di Stefano Serafini - 14/06/2010

Fonte: Atrium

3. Dalla nuova sintesi al “darwinismo evolvente”

 

Nei quaranta anni successivi alla seconda edizione del volume di Huxley, naturalmente sono accadute molte cose. L’atmosfera culturale postbellica, dopo la ricostruzione dell’Europa, è fortemente influenzata dalla guerra fredda tra il blocco sovietico e quello nordatlantico, e sembra non lasciare spazio a ulteriori grandi sintesi. La distruzione della Germania aveva comportato l’eradicamento di intere scuole di pensiero, mentre i migliori cervelli del continente si erano trasferiti – incoraggiati – negli Stati Uniti, completando così l’opera di impoverimento intellettuale del vecchio continente, alla quale il nazifascismo aveva per primo poderosamente posto mano. L’Europa, inoltre, è tagliata dal muro di Berlino in due tronconi che non possono comunicare, se non con immense difficoltà. È l’epoca della grande normalizzazione. A livello mondiale, sulla scia del fordismo scientifico anticipato dal successo del Progetto Manhattan, e imposto dalla corsa sempre più precipitosa delle grandi potenze ad accaparrarsi la supremazia militare (mai così legata alla scienza), si vanno imponendo il tecnicismo e la specializzazione. Sul piano economico il libero mercato è più di una teoria: è una bandiera, sotto la quale l’Occidente si allinea alle posizioni dei vincitori del secondo conflitto mondiale, in contrapposizione identitaria al mondo comunista d’Oriente. Non ci sono le condizioni per interessarsi ai grandi temi teoretici, alle cornici ultime della scienza della vita. Quella esistente trova già tutti d’accordo, ed è più che sufficiente per curarsi di altre cose, portando avanti utili e dispendiosi programmi di ricerca, fortemente voluti dagli stati e dagli enti finanziatori. Negli anni ’60 si comincia a parlare di ingegneria genetica nei consigli di amministrazione delle multinazionali. Ha inizio la lunga corsa tecnocratica che ci ha portato fino ad oggi.

 

Eppure, se anche non sono possibili grandi discussioni del modello ultimo, la biologia avanza. Già nel 1963, cioè l’anno della seconda edizione aggiornata de La sintesi moderna di Huxley, il botanico e genetista giapponese Motoo Kimura (1924-1994) esponeva la teoria neutrale dell’evoluzione molecolare. Egli aveva calcolato i gradienti evolutivi di due proteine (emoglobina e citocromo-c) confrontandoli in numerose specie, e aveva scoperto che la pressione selettiva non era sufficiente a spiegare un’evoluzione tanto rapida. Dopo calcoli e riscontri concluse che la maggior parte dell’evoluzione sul piano molecolare si deve a processi non selettivi, quali la mutazione e la deriva genetica. I cambiamenti che ne derivano, dunque, ma soprattutto la loro conservazione, non possono avere alcuna giustificazione teleonomica: essi hanno un valore “neutro” nei confronti della fitness.[1] Ciò significa che la selezione naturale agisce soltanto sui fenotipi (i quali sono il frutto dell’interazione di più geni), ma le leggi che governano l’evoluzione molecolare non sono quelle neo-darwiniane.

 

Gli equilibri punteggiati (o intermittenti) portano un ulteriore colpo teorico al neo-darwinismo. Agli inizi degli anni ’70 si abbatterono sul gradualismo, che il programma aveva voluto mantenere nonostante le obiezioni dei neo-mendeliani.

 

Dopo secoli di scavi e ricerche sul campo, la paleontologia non poteva più fare a meno di riconoscere il fallimento del modello gradualista. Gli “anelli di congiunzione”, cioè i reperti fossili di organismi di transizione da una specie all’altra risultavano di fatto introvabili. Ci volle tempo per affermarlo. Il programma non poteva ammetterlo, e così generazioni di paleontologi si industriarono (e tuttora si industriano) nel cercare di sorreggerlo interpretando i reperti trovati. Vi furono anche clamorosi falsi, dei quali la dottrina fece abbondante uso propagandistico fino allo smascheramento, presto abilmente sottaciuto come un fatto sconveniente accaduto in famiglia. Il caso più noto è quello del cranio di Piltdown, una calotta cranica umana di epoca medievale alla quale vennero limati i denti e giustapposta una mandibola scimmiesca. Presentato da fior di scienziati come “la prova” dell’evoluzionismo e della derivazione dell’uomo dai primati, fece convertire molti fra gli studiosi più dubbiosi, e venne esposta per cinquant’anni nel più importante museo di storia naturale del mondo.[2]

 

Furono proprio due paleontologi, Niles Eldredge e Stephen Jay Gould, a proporre un’ipotesi alternativa, più coerente ai fatti. Secondo la loro teoria, le specie animali che si sono perfettamente adattate al loro ambiente, si mantengono uguali a se stesse per periodi lunghi anche milioni di anni. Se però le condizioni ambientali mutano (ad es., per una glaciazione, o per la caduta di un grosso meteorite sulla Terra), si assiste a un cambiamento importante e rapidissimo, che in poche migliaia di anni produrrà nuove specie. La probabilità di ritrovare fossili di creature “di transizione” crolla dunque drammaticamente, e ciò spiegherebbe la loro assenza dalle collezioni naturali.[3]

 

Le teorie del caos e della complessità rappresentano il terzo grande affronto al neo-darwinismo, innanzitutto dal punto di vista metodologico. Come scrive il matematico René Thom (1923-2002), Medaglia Fields 1958 e pioniere della topologia differenziale,

 

«il grande merito (e il grande scandalo!) della teoria delle catastrofi è stato di aver detto che è possibile produrre una teoria degli eventi, delle forme, del mondo esteriore, indipendentemente dal sostrato, dalla loro natura materiale».[4]

 

La teoria delle catastrofi riguarda l’indagine morfologica dei cambiamenti improvvisi di processi strutturalmente stabili: essa legge l’ordine dinamico di strutture razionali là dove il senso comune (anche quello del darwinismo) vedrebbe il caos. Thom fa l’esempio del mondo vegetale, dove risulta più facile comprendere il ruolo in natura dell’autosimilarità, ripresa dai frattali di Mandelbrot, e dunque delle leggi matematico-geometriche sottese ad ogni forma vivente, un concetto assai lontano dalla mentalità degli zoologi.[5] Il ramo dell’albero riproduce la forma dell’albero intero, e ogni sottoramo quella del ramo che lo porta, giù giù fino alla foglia. Tale ordine geometrico è matematizzabile, e configura una struttura formale anteriore allo sviluppo fisico, indipendente da altri livelli. Purtroppo la biologia, irretita dal riduzionismo evoluzionista, si è quasi esclusivamente concentrata sui geni, dimenticando la possibilità che il livello delle forme dell’organismo possa esserne autonomo.[6] La selezione naturale (come peraltro si può inferire anche dalle conclusioni di Kimura) deve postulare che l’individuo biologico, o la specie, sia un’unità funzionale irriducibile. Ma in realtà la stabilità dell’individuo, o della specie, riposa a sua volta su una competizione tra “campi”, tra “archetipi” di carattere più elementare. È la loro lotta a produrre la configurazione geometrica strutturalmente stabile che assicura la regolazione, l’omeostasi metabolica, e la stabilità riproduttiva.[7] Ogni funzione fisiologica corrisponde a una regolazione “catastrofica” del metabolismo, un’autentica “onda di choc” fisiologica. L’organogenesi avviene perché richiamata da questa onda di choc, e dona così all’organo la sua finalità: prevenire la catastrofe fisiologica (es., il respiro dei polmoni previene l’asfissia). Esiste insomma un logos, un elemento formale, alla base di ogni dato biologico, definibile come una figura continua nello spazio-tempo. Le variazioni continue di questa figura (evoluzione) si effettuano conformemente a un principio variazionale.[8]

 

Come esso stesso predica, per non scomparire occorre che il darwinismo evoluto chiamato neo-darwinismo continui ad evolversi. L’ultima sfida che lo riguarda, quella che secondo David Depew e Bruce Weber nel loro libro Darwinism Evolving dovrebbe preludere a un’inevitabile e radicale mutazione, viene proprio dagli sviluppi della matematica e della fisica, in particolare dai processi caotici, dai fenomeni autoorganizzativi, e dalla dinamica non lineare dei sistemi complessi.[9]

 

I due Autori spiegano che il meccanismo della selezione naturale venne concepito da Darwin all’interno di un contesto newtoniano; esso mutuava i propri modelli dalla dinamica lineare del suo tempo. Come abbiamo visto, la fusione col mendelismo agli inizi del Novecento aveva finito per produrre una nuova teoria (il neo-darwinismo), che dovette riformulare in termini statistici la selezione, approssimandola così alle dinamiche boltzmaniane dei sistemi allora emergenti. La moderna, terza dinamica, quella non lineare dei sistemi complessi, deve dunque preludere a una ulteriore riformulazione della selezione naturale. Secondo Depew e Weber la selezione di domani dovrà radicarsi nelle leggi fisiche più profondamente di quanto stimano i difensori dell’autonomia disciplinare della biologia. In particolare, come rilevabile dai contributi di autori quali Kauffmann, Goodwin e Lima-de-Faria, sui processi di autoorganizzazione. Difficile dire cosa resterà del darwinismo, dopo questa seconda rivoluzione del suo concetto portante. Il dibattito per ora si concentra sulle modalità di interazione fra selezione e autoorganizzazione fisica, muovendosi tra le seguenti ipotesi di ricerca: 1) nessuna relazione tra selezione e autoorganizzazione; 2) l’autoorganizzazione coopera con la selezione; 3) l’autoorganizzazione canalizza la selezione; 4) la selezione genera autoorganizzazione; 5) selezione ed autoorganizzazione sono aspetti di un unico processo.

 

 

4. La biologia post-darwiniana

 

Il “post-darwinismo” è un termine nato nel 1986, durante il convegno sullo strutturalismo in biologia tenutosi ad Osaka.[10] Affermando l’insoddisfazione verso la biologia darwiniana dominante, i partecipanti si dichiararono in continuità con autori classici quali J. H. Woodger e C. H. Waddington. Da quell’incontro nacque il “Gruppo di Osaka per lo studio delle strutture dinamiche”.[11] In Russia qualcosa di simile stava accadendo con l’approccio nomogenetico, rappresentato da L. Berg, A. Ljubiščev, S. Meyen e altri, ispirati dalla critica di von Baer[12] al darwinismo. Partecipando a entrambi, l’embriologo dell’Università di Mosca Lev Belousov, rappresenterà il trait-d’union fra le conferenze nomogenetiche della Scuola biologica russo-estone e gli incontri del Gruppo di Osaka che si svolgeranno negli anni successivi. Giuseppe Sermonti, nella sua veste di direttore della Rivista di Biologia orienterà i propri sforzi controcorrente a favorire tale comunicazione tra le linee strutturaliste della biologia est-europea, giapponese e occidentale. Alla stessa sfera di interessi e alla medesima atmosfera culturale, appartengono gli incontri estivi e invernali di biologia teoretica della Scuola estone, concentrati sulla biosemiotica ormai già dagli anni ’70.

 

La Rivista di Biologia ha qualche anno fa ripubblicato una nota di Daniele Rosa, apparsa originalmente nel 1929 sulla stessa rivista, al termine della quale l’illustre zoologo riconosceva la comunanza d’idee fra la propria Ologenesi, l’Autogenesi di M. M. Metcalf (Trends in Evolution) e la Nomogenesi di L. Berg (Nomogenesis or evolution determinated by law). E aggiungeva che la Nomogenesi «è poi in fondo l’‘evoluzione regolata’ del nostro grande astronomo Schiaparelli.»[13]

 

È ovvio, come scrive Kalevi Kull,[14] che la biologia post-darwiniana non è una novità assoluta, ma piuttosto la continuazione e lo sviluppo di una linea di pensiero precedentemente marginalizzata dalla marea darwiniana. Essa raccoglie l’eredità del neo-darwinismo, della nomogenetica (teoria autogenetica o ortogenetica, o ologenetica dell’evoluzione), dello strutturalismo biologico, della biosemiotica e del concetto di autopoiesi (Varela). È sempre K. Kull a fornire una metafora di ispirazione cibernetica per comprendere la novità di questo approccio: il DNA in quanto tale non è un testo, ma lo diventa al cospetto d’un interprete e di un lettore, che sono il meccanismo di trascrizione, e la cellula (o addirittura l’organismo).[15] Sotto questa luce il genoma dunque è una memoria inerte, della quale è la cellula a decidere quali parti leggere, in quale “senso”, e quando. Il concetto chiave è insomma che il fenotipo è l’interprete attivo del genotipo (effetto Baldwin).[16]

 

L’effetto Baldwin, o effetto di selezione organica, divenuto ormai uno strumento della computazione evoluzionistica, vuole che la capacità di apprendimento di un individuo abbia effetto sul processo evolutivo.[17] Sulla base delle scoperte degli ultimi anni e della concezione derivatane di organismo e cellula come sistemi adattivi e autoorganizzanti, esso ristabilisce il ruolo evolutivo del fenotipo, ritenuto dal darwinismo classico un mero effetto oggettuale dell’ermetica univocità genotipica, privo persino di retroazione (a parte la morte differenziale). Ciò comporta per l’organismo una struttura a più livelli con attività indipendenti, e addirittura la possibilità di usare il genoma, sceglierne i tratti da utilizzare, modificarlo nella sua parte funzionale. Se però l’organismo ha un ruolo nell’evoluzione, allora i cambiamenti direzionali sono soprattutto fenotipici, a scapito di quelli genetici.

 

In questa rete di azioni gioca un ruolo importante l’ambiente. Esso potrebbe sostituire il concetto non operazionale di “plasticità”, una soluzione ad hoc e poco efficace del neo-darwinismo, per spiegare ad es. la presenza di identici fenotipi in organismi dai diversi genotipi.

 

Anche la selezione naturale perde la sua importanza dentro tale visione, dove è il fenotipo a operare sull’ereditarietà in maniera indipendente dal genotipo. Essa sarà certamente efficace in caso di una pressione selettiva molto alta, con conseguente significativa riduzione della popolazione; ma se le condizioni permettono alla popolazione di restare relativamente numerosa, avrà un effetto minimo.

 

La teoria dell’evoluzione neo-darwiniana (comprensiva della teoria delle popolazioni e dell’ecologia comportamentale) non risulta cancellata, bensì trasformata e inclusa, come un caso particolare, all’interno di un modello più ampio ove il processo principale è la simbiosi, e non più la competizione. Quest’ultima potrà aver luogo soltanto in alcuni casi speciali. Nella biologia post-darwiniana, la mutazione del DNA e l’influenza ambientale sono sostituite dalla mutazione ontogenetica, cioè la variazione nell’uso della memoria genetica da parte dell’organismo. Dal paradigma selettivo ci si muove verso un paradigma generativo.



[1] Cfr. M. Kimura, The Neutral Theory of Molecular Evolution, Cambridge University Press, Cambridge 1983.

[2] Il tema è trattato nel piacevole libro di Federico Di Trocchio, Le bugie della scienza. Perché e come gli scienziati imbrogliano, Mondadori - De Agostini, Verona, 1995, pp. 254-310, cap. “Falsi fossili e anelli mancanti”.

[3] N. Eldredge - S. J. Gould, “Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism”, in: T. Schopf (ed.), Models in paleobiology, Freeman, Cooper & Co, San Francisco 1972, pp. 82-115. Cfr. anche i contributi di E. S. Vrba, ad es. “Pattern in the fossil record and evolutionary processes”, in: M.-W. Ho - P. T. Saunders, Beyond neo-Darwinism, Academic Press, London 1984, pp. 115-142. È indicativo della trasformazione del darwinismo e delle sue umane implicazioni che Gould sia stato guardato con astio e sospetto dall’establishment per quasi un ventennio, mentre oggi viene persino definito “paladino” del darwinismo.

[4] R. Thom, Prédire n’est pas expliquer, Flammarion, Champs, 1993 p. 24.

[5] R. Thom, Esquisse d’une Sémiophysique, InterEditions, 1991, p. 77.

[6] Ivi, pp. 113-114.

[7] R. Thom, Modèles mathématiques de la morphogenèse, Bourgois, 10/18, 1974, p. 271.

[8] Ivi, p. 218.

[9] D. J. Depew - B. H. Weber, Darwinism Evolving. Systems Dynamics and the Genealogy of Natural Selection, MIT Press, Cambridge, Mass. - London 1995. Cfr. anche, degli stessi autori, “Natural Selection and Self-Organization”, Biology and Philosophy, 11 (1996) 1, pp. 33-65.

[10] Mae-Wan Ho, “A Structuralism of Process”, in B. C. Goodwin - A. Sibatani - G. Webster (eds.), Dinamyc Structures in Evolution, Edinburgh University Press, Edinburgh 1989. Cfr. Il contributo di G. Sermonti più avanti in questo volume.

[11] G. Sermonti - A. Sibatani, “Dieci anni del Gruppo di Osaka”, Rivista di Biologia 92 (1999), pp. 211-218.

[12] Cfr. nota n. 37.

[13] D. Rosa, “L’antropologia ologenetica. A proposito di un libro di G. Montandon”, Rivista di Biologia 11 (1929), pp. 453-458, ristampato ivi 92 (1999) pp. 407-410.

[14] K. Kull, “Outlines for a post-Darwinian biology”, Folia Baeriana 7 (1999), pp. 129-142: p. 130.

[15] Ivi, p. 132.

[16] K. Kull, “Organisms can be proud to have been their own designers”, Cybernetics and Human Knowing, 7 (2000) 1, pp. 45-55.

[17] Cfr. G. G. Simpson, “The Baldwin effect”, Evolution 7 (1953), pp. 110-117; C. H. Waddington, “The ‘Baldwin effect’, ‘generic assimilation’ and ‘homeostasis’”, Evolution 7 (1953), pp. 386-387; E. Jablonka - M. J. Lamb, Epigenetic inheritance and evolution: the Lamarckian dimension, Oxford University Press, Oxford 1995; L. W. Ancel, “A quantitative model of the Simpson-Baldwin effect”, Journal of Theoretical Biology 196 (1999) 2, pp. 197-209.