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Francesco Guccini. Né destra né sinistra…

di Piero Sansonetti – Federico Zamboni - 14/06/2010

 

 

 

 

In coccasione dei 70 anni di Francesco Guccini

IO ANARCHICO, IO FASCISTA…
Piero Sansonetti

 

Chissà qual è la canzone più bella di Guccini. Forse una delle prime, drammaticissime, anzi tragiche: Auschwitz, per esempio, scritta nel 1964, quando l’antisemitismo-soft era un sentimento largamente maggioritario nella borghesia italiana e la tragedia dei campi di concentramento non era  ancora molto conosciuta tra i ragazzi e certamente non rappresentava un punto fermo dello spirito pubblico dell’epoca. Oppure Canzone per una amica, dolcissima, rassegnata, struggente, che racconta la morte, credo a vent’anni, in un incidente d’auto, di una ragazzina alla quale Guccini voleva bene. O forse la solennissima Dio è morto, che fu censurata dai superzelanti funzionari della Rai, e che invece piacque molto a Paolo VI che la fece trasmettere, figuratevi, da radio Vaticana.

Non so, a me piacciono di più le canzoni di molti anni dopo. Eschimo, soprattutto, e poi Cyrano e don Chisciotte, e poi Ulisse, e poi la canzone per Carlo Giuliani. Ma forse, se uno dovesse riassumere in una canzone sola Francesco Guccini, il secondo più grande cantautore italiano di tutti i tempi (dopo De Andrè, naturalmente) dovrebbe scegliere l’Avvelenata. Che magari non è nemmeno bellissima, anche perché musicalmente è povera e un po’ melensa, però è la sintesi di tutti i pensieri e di tutto il carisma e di tutta la forza del suo autore. E’ una canzona sia politica, sia esistenziale, sia autobiografica. Cioè racchiude in se tre dei quattro temi essenziali del guccinismo (o guiccinianesimo, decidete voi…). Manca solo il tema dell’amore, ma io non so se l’amore sia davvero essenziale  nell’opera di Guccini: c’è, è bello, è romantico, è diffuso, ma a me non sembra il cuore del cuore del suo sistema di emozioni.

«Io stronzo, io anarchico, io fascista, negro, ebreo, comunista, io frocio, io radicale, io diverso e io uguale, io poeta e io buffone, io genio e io cretino, io solo qui alle quattro del mattino…» , ecco in questa sequenza furiosa di autodefinizioni, nella rabbia impotente, pubblica e privata, del giovane Guccini, secondo me, ci sono le premesse di tutto quello che dirà nei decenni che verranno. E c’è il messaggio fondamentale che in questi trent’anni ci ha consegnato: siate coerenti, date peso all’etica, ai vostri valori, non vendetevi, ma non vi fossilizzate mai, non giudicate, non cercate nell’identità la soluzione ideologica all’esistenza. L’esistenza è piena di valori ma povera di identità: anarchico, fascista, comunista, frocio, poeta, cretino… Cosa resta? Resta l’angoscia, un po’ di vino e voglia di bestemmiare.

Vi sembra una canzone di tanti anni fa? A me sembra la canzone di questi giorni….

Francesco Guccini nacque a Modena il 14 giugno del 1940. Dunque, oggi compie 70 anni. Quattro giorni prima del lieto evento, in Italia, era accaduta una cosa mostruosa: Benito Mussolini si era affacciato al balcone di piazza Venezia, a Roma, e scandendo le parole con la sua voce roca e magnetica, aveva annunciato ad una folla straripante: «Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia…».

Insomma, Guccini fa parte di quella generazione di mezzo che ha vissuto la guerra ma non se la ricorda, e che poi è cresciuta negli anni della grande iniziativa, della speranza, ma anche della povertà, che precedettero gli anni ’60 (ma anche li determinarono). E’ una generazione un po’ sfigata, che non ha avuto grande successo, tranne poche eccezioni. Schiacciata dai ragazzi della Resistenza – quelli nati tra gli anni dieci e i venti, che presero il potere dopo  la Liberazione e non lo lasciarono più fino agli anni ’90 – e incalzata dalla generazione dei fratelli minori, i sessantottini, quelli nati dopo la guerra ai tempi del baby-boom, e che volevano cambiare il mondo. Cioè imprigionata tra due generazioni altezzose e sprezzanti. Però quella generazione di mezzo, che in politica – ma anche nel giornalismo, anche nelle università, anche nel cinema, tranne poche eccezioni –  passò come acqua sul vetro, nel campo musicale ebbe un enorme successo e lasciò un segno indelebile. Ovunque nel mondo. Fabrizio De Andrè è appena di quattro mesi più vecchio di Guccini, e anche all’estero, i mostri sacri, sono di quel periodo lì: Bob Dylan è del ’41, e così anche Joahn Baez, John Lennon è del 1940, Paul McCartney del ’42, Mick Jagger, il capo dei Rolling Stones è del ’43, come George Harrison. Elvis Presley, il più vecchio di tutti, è del 1935.

Guccini ci mise un po’ a diventare un cantautore di successo. Prima fece vari mestieri. Lo studente, il professore di scuola, il giornalista. In un libro che è uscito qualche mese fa, scritto un po’ da lui stesso e un po’ dal suo amico Alberto Bertone (Non so che viso avesse, Mondadori, 225 pagine, 18 euro), racconta di quelle esperienze giovanili, e poi della partecipazione alle prime band e poi di come per poco non entrasse far parte della Equipe 84, e poi il servizio militare, i viaggi in America a rincorrere fidanzate, e  l’incontro con i Nomadi e con Caterina Caselli, infine il volo verso il successo. I suoi anni d’oro furono gli anni ’80. Nel ’68 e nei primi anni ’70 non era famosissimo, e oltretutto i critici spesso lo stroncavano (i critici, si sa, raramente ci prendono, e credo che Guccini non li abbia mai amati molto, come non ha mai amato i «personaggi austeri e i militanti severi»). Io stesso l’ho conosciuto solo negli anni ’80, e mi è subito piaciuto per alcune canzoni che oggi non sono considerate le canzoni chiave del suo repertorio: L’Isola non Trovata, Asia, Vedi Cara, la Canzone di Praga, dedicata a Jan Palach (Jan Palach era un ragazzo di 19 anni, di sinistra, mio coetaneo, che nel 1969 si bruciò vivo sulla piazza Venceslao per protestare contro l’invasione sovietica, la liquidazione di Dubceck e il nuovo corso autoritario del comunismo cecoslovacco).

Poi, però, è inutile negarlo, Guccini diventa soprattutto un cantautore politico. Tutte le sue canzoni più importanti sono politiche. O di racconto politico (come Aushwitz, come Praga, come la canzone di Carlo Giuliani, come a Silvia) o di teoria politica (come Dio è morto, come la canzone sull’aborto, Venezia, o come Che Guevara, o come Don Chisciotte) o di biografia politica, come Eskimo e come Amerigo. Adesso, se proprio devo dirvela tutta, io penso che Eskimo e Amerigo siano le sue canzoni più belle. Eskimo racconta in modo semplice e profondissimo la sostanza del ’68, degli anni che lo precedettero e di quelli, di disillusione, che lo seguirono («avevo la rivolta tra le dita»). Eschimo forse è la canzone più completa. Perché c’è la politica, c’è la storia, e c’è anche l’amore. L’amore per quella donna un po’ ricca, un po’ snob, un po’ astratta e conformista, anche un po’ stronzetta forse, che però è la donna più straordinaria e meravigliosa che Guccini abbia mai cantato. Devo confessare che sono sempre stato innamorato della donna di Eskimo, che oltretutto emana una formidabile carica erotica.

Questo contraddice la mia ipotesi che l’amore, nella canzoni di Guccini, c’entra poco? No, perché anche in Eschimo la storia con la donna alla quale dedica la canzone ( e che credo sia poi stata sua moglie) è del tutto subalterna alla politica. L’amore, per Guccini, è quasi sempre nostalgia, E’ subordinato a moltissimi altri fatti e altre emozioni ed è loro conseguenza. Vi sarete accorti che ancora non ho mai citato La Locomotiva. Cioè la più acclamata delle sue canzoni. Quella considerata per eccellenza la canzone rivoluzionaria e la canzone più politica.  A me piace quella canzone, mi piace anche cantarla (come mi piace cantare le canzoni di Pietrangeli, di Della Mea) ma non credo che sia il suo capolavoro. E neppure credo che sia una canzone molto politica: è solo il bel racconto di una storia assai avvincente e romantica. Ma la politica non c’è. Non è una canzone di idee. L’equivoco è nato per quello slogan («trionfi la giustizia proletaria») che da 30 anni accende tutti i concerti di Guccini ma che, francamente, non ha enorme significato. Così come non ha grande significato l’affermazione che «gli eroi sono tutti giovani e belli», che è l’altro verso chiave della canzone. Francamente trovo molto più impegnate e dense di politica canzoni come Cyrano o Che Guevara, o Don Chisciotte, e persino Ulisse, con quel verso finale sui  «porti mai conosciuti prima», cioè l’incitazione a non fermarsi, a non farsi divorare dal già conosciuto, dalla nostalgia. E forse la più politica di tutte le sue canzoni, la più misteriosa, la più ricca di idee e di poesia è quella fantascientifica, il Vecchio e il bambino che intreccia previsioni di olocausto, forza dei sentimenti, e potenza rigeneratrice  delle favole. Eccolo lì Guccini: politica e favole. Favole, favole, favole, alle quali crede ancora: anche a settant’anni.

 

IO NON PERDONO E TOCCO…
Federico Zamboni

 

..Settanta candeline sulla torta, tutte insieme, non le mette più nessuno. Tutto quel tempo per posizionarle e per accenderle. Tutto quel fiato per spegnerle. Molto meglio due candele a forma di numero, di qua un sette e di là uno zero (che se poi c’è un buontempone le inverte e declama l’abusata facezia sui sette anni “ben portati”). Oppure sette candeline più spesse, che ognuna vale per dieci e si fa in fretta a piazzarle, ad accenderle/spegnerle e poi a rimuoverle. Vai con la torta. Vai con la festa. Presto-presto-presto. Nel lavoro e nello svago. Sempre. E dappertutto. Il tempo è denaro. Il denaro è tutto. Settanta candeline? Ma dai. Non le mette più nessuno…

Guccini forse sì. La sua ultima preoccupazione sono le mode, le tendenze, i trend. Il suo ultimo bisogno è fare in fretta se non è davvero necessario. Le cose se ne vanno via così svelte già da sole: saremo mica matti a spingerle ancora più forte solo per avere il gusto – l’illusione – di essere noi i padroni del tempo. Se le settanta candeline sono un’ostentazione non se ne parla nemmeno. Ma se sono una rifinitura, un piccolo omaggio alla bellezza o a una tradizione, caparbio alla maniera dei contadini che avevano poco e valorizzavano tutto, allora può andare bene. O benissimo. I riti si svuotano solo se li subisci. Si consolidano se li alimenti. Se te ne prendi cura come dei campi che ti nutrono, o come dei fiori sul balcone che ti danno il bentornato quando li guardi dalla strada a fine giornata, e sei stanco o addirittura triste ma adesso sei a casa. Guccini ha compilato il dizionario del dialetto di Pavana, il minuscolo centro dell’Appennino tosco-emiliano di cui è originario e in cui trascorre buona parte dell’anno. E si è divertito a tradurre per i compaesani una commedia di Plauto. Lo sa perfettamente che anche quel dialetto lì è una pianta che un giorno o l’altro appassirà, come è accaduto a lingue di ben altra rilevanza e diffusione. Ma fintanto che lo si parla è un piacere utilizzarlo. Ed è un dovere tenerlo pulito e in ordine, come un utensile nel capanno degli attrezzi. Guarda qui questo falcetto. Era ben del bisnonno, e taglia ancora che è una meraviglia.

«A Pavana sento ancora questo senso di appartenenza: è un piccolo popolo, sono ancora molto legati gli uni agli altri, se c’è un funerale ci vanno tutti, ci si aiuta… Non sono sempre solo rose e fiori, intendiamoci. Però c’è un’appartenenza. Ho degli amici di vecchissima data che sono completamente diversi da me: io sono di sinistra, loro non lo sono; però ci conosciamo da tanto tempo. Ho un amico che tutte le mattine va a comperare per sé il giornale: per me compra L’Unità e Repubblica, poi me li porta a casa, per dire. Quest’amicizia non l’avrei in città con uno che la pensa diversamente da me: sarebbe molto più difficile, credo. Là c’è questo senso di appartenere a delle tradizioni: abbiamo passato l’infanzia assieme, abbiamo passato esperienze di fiumi, di boschi. Questo può essere un senso d’appartenenza.»

Guccini li guarda in faccia, i suoi settant’anni, e cerca di osservarli con la dovuta franchezza. Senza abbassare lo sguardo, che non c’è mica nulla da vergognarsi a diventare vecchi e a mostrare i segni dell’età, e però senza fissarli con troppa insistenza e con un orgoglio eccessivo, che tanto gli atteggiamenti di sfida, in questo caso, non servono a niente se non a rendersi ridicoli. Come testimoniano tantissime delle sue canzoni, se non proprio tutte, è uno di quei viaggiatori che hanno scrutato attentamente le mappe e riflettuto sui resoconti altrui, ancora prima di mettersi in marcia. E poi ha continuato a farlo lungo la strada. E poi dopo ciascun ritorno. Chi si avventura tra le montagne deve capire che fino a un certo punto si sale, e gli occhi si appuntano febbrili verso l’alto, in cerca del posto che ci si è scelti per arrivare un po’ più vicini al cielo. Superato il valico si scende. Occhi a terra per non inciampare. Per non scivolare. Per non precipitare.

Dopo i cinquanta – dice Guccini – ti rendi conto che gli anni che hai vissuto sono certamente meno di quelli che ti restano da vivere. Si avvicina l’età in cui la vita, come ha scritto la Yourcenar, «è per ciascun uomo una sconfitta accettata». Ma è anche il momento in cui l’eventuale valore di ciò che hai fatto si mostra in maniera più nitida. Il momento in cui è essenziale potersi guardare indietro e vedere che molte cose sono state belle e degne di essere inseguite, e infine incontrate. Sai che è così quando ripensandoci ne senti ancora la fragranza. Sai che è così quando raccontandole agli altri, e specialmente a dei perfetti sconosciuti, vedi che quella fragranza la sentono anche loro. E se non la sentono con precisione la intuiscono. E se non la intuiscono la desiderano.

Guccini non è solo un grande autore e interprete di canzoni (guarda tu come tocca dilungarsi per non dire “cantautore”…) ma è un affabulatore instancabile e più che mai poliedrico. Uno che rende interessante, e spesso affascinante, e non di rado irresistibile, qualsiasi argomento – e qualsiasi frammento. Uno che è conscio del gioco che è insito in ogni tentativo di comunicare davvero, sprigionando il fuoco della suggestione da qualunque cosa a portata di mano. Ci sono dei trucchi? Certo che ci sono. Ma quella parola lì – trucchi – non va mica tanto bene. Direste che sono dei “trucchi” i giri armonici della musica? O le regole della metrica? O i principi, largamente perduti, della vera retorica?

C’è da credere che sia per questo che tanti ragazzi lo amano, e lo ammirano, e lo rispettano, nonostante tutte le differenze tra la sua vita e le loro. il suo resta un gioco pulito, e in fin dei conti disinteressato. La sua resta un’offerta, come quella di chi si sta preparando qualcosa di buono da mangiare, su un focolare all’aperto, e se gli passi accanto ti domanda se ne vuoi anche tu. E se dici di sì, e se lasci capire che ci vorresti un altro po’ di sale, o di pepe, lui allunga la mano e te lo passa. In un’intervista gli hanno chiesto: «Guccini, lei crede di essere mai stato un idealista? E se sì, si riconosce oggi in questa definizione?». «Intendete – ha replicato lui – da un punto di vista filosofico, crociano?». Giusto per capirsi, prima di rispondere. Prima di continuare a parlare.