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Iraq: il posto più pericoloso al mondo per i giornalisti

di Patrick Cockburn - 15/06/2010


Dal 2003, i reporter perseguitati si trovano ad affrontare nuove minacce alla libertà di espressione



Testa calda e sostenuto dalla spavalderia che è propria dei giovani, Sardasht Osman ignorava gli sms con minacce di morte che arrivavano sul suo cellulare e le suppliche della sua famiglia perché moderasse i toni dei suoi articoli nei quali criticava il Governo regionale del Kurdistan. In un pezzo intitolato "Addio", diceva di essere preparato a incontrare i suoi killer. "Non temo né la morte né la tortura", aveva scritto. "Qualunque cosa accada, non lascerò questa città, e attenderò la mia morte". E' stato il suo ultimo articolo.

Il 23enne stava andando all'Università di Salahuddin, a Irbil, quando è stato afferrato da due uomini, in una zona affollata piena di guardie armate, e ficcato dentro una macchina, i suoi libri lasciati sparsi in strada. Due giorni dopo, il suo corpo, che portava segni di violenze, è stato trovato a un'ottantina di chilometri di distanza, a Mosul, fuori dalla sede dell'Unione Patriottica del Kurdistan (PUK). Due ferite da proiettili gli avevano trapassato la bocca – una punizione simbolica per qualcuno che ha parlato chiaro.

Domani, in tutto il Kurdistan, proteste segneranno il 40° giorno dal ritrovamento del suo corpo – un intervallo di lutto tradizionale. L'omicidio – il terzo in due anni – ha mandato un'onda d'urto in tutta la comunità giornalistica, dice Kamal Rauf, direttore di Hawlati, il maggiore giornale indipendente della regione. "Tre dei miei giornalisti hanno dato le dimissioni. Dicono che non hanno paura, ma le loro famiglie sì". Esso ha inoltre provocato una ondata di proteste senza precedenti, con giornalisti, studenti, accademici, e attivisti dei diritti civili che hanno sfilato sotto lo striscione "Non ci metteranno a tacere".

Fin dall'invasione guidata dagli Stati Uniti del 2003, l'Iraq è il Paese nel quale è più pericoloso essere giornalisti. Secondo il Committee to Protect Journalists (CPJ) con sede a New York, 89 sono stati assassinati e altri 50 sono morti a causa del fuoco incrociato o di altri atti di guerra. Dei giornalisti morti, circa 117 erano iracheni. Il CPJ dice che l'Iraq detiene il record mondiale dei giornalisti assassinati nell'impunità: nessuno è mai stato perseguito per uno qualsiasi degli omicidi.

Alcuni tuttavia sostengono che la minaccia alla libertà di espressione in Iraq sta cambiando. Rispetto a qualche anno fa, oggi muoiono meno giornalisti, ma è il giornalismo stesso che sta iniziando a scadere sotto una pressione ufficiale che non dà tregua. Il governo considera i media che criticano il suo operato organi di propaganda di partiti di opposizione o di Paesi stranieri.

"Il vero pericolo per il giornalismo non sono gli omicidi e i rapimenti, ma il giro di vite da parte delle autorità", dice Ziad al-Ajili, direttore dell'Osservatorio per le libertà giornalistiche (JFO), una organizzazione per i diritti dei media con sede a Baghdad.

Il JFO, il cui ufficio è protetto da pesanti porte in metallo, registra metodicamente e protesta contro le aggressioni, le molestie, e l'arresto di giornalisti da parte delle forze di sicurezza, nonché i raid contro le testate e la loro chiusura. Nel suo ultimo rapporto annuale, elenca 262 diversi tipi di attacchi, quasi tutti da parte delle forze di sicurezza dello Stato.

Secondo Ajili, questa persecuzione crescente è efficace: "I media non osano più rivelare gli scandali. Sono stati i media stranieri a rivelare la prigione segreta nel vecchio aeroporto di Muthanna a Baghdad, dove i prigionieri venivano torturati. I giornalisti iracheni non avrebbero osato".

Sotto Saddam Hussein, i media erano strettamente controllati dal Ministero dell'Informazione, anche se a volte venivano consentiti attacchi alla corruzione. Giornalisti terrorizzati venivano convocati al cospetto di Uday, il figlio maggiore di Saddam, per essere elogiati o incarcerati, a seconda del suo umore. I funzionari tuttavia prestavano attenzione a quanto succedeva nei media. Secondo Ajili, oggi la priorità del governo è di eliminare totalmente tutto ciò che parla di "gestione incompetente e corruzione".

A essere presi di mira non sono solo le televisioni e i giornali. A febbraio, forze dell'esercito e della sicurezza hanno fatto irruzione in tre case editrici a Baghdad, confiscando un opuscolo di 16 pagine, dal titolo "Dove sono andati a finire i soldi dell' Iraq?", nel quale si parlava di corruzione finanziaria e amministrativa. Hanno arrestato sei membri del personale, e ai giornalisti è stato impedito di entrare nei locali per diversi giorni.

Le limitazioni ai media sono in aumento: i giornalisti in teoria dovrebbero ottenere un permesso per seguire qualsiasi incidente violento. Anche quando il permesso viene concesso, le forze di sicurezza locali spesso li picchiano o li arrestano, o rompono le loro attrezzature. L'obiettivo è minimizzare il livello della violenza che, anche se assai inferiore a quello di tre anni fa, è più alto che nella maggior parte del resto del mondo.

La regolamentazione e il controllo dei media sono nelle mani della National Communications and Media Commission, che ha un potere illimitato di chiudere emittenti e giornali, confiscare attrezzature, ritirare licenze, e imporre multe. Subito prima delle elezioni di marzo, la commissione aveva dichiarato che tutti i giornalisti dovevano avere un permesso, e impegnarsi a "non incitare il settarismo confessionale" – una definizione sotto la quale potrebbe ricadere qualcosa di semplice come pubblicare il numero delle vittime di un attentato, cifre che il governo cerca di sdrammatizzare.

Mentre nuove minacce pesano sui giornalisti, i vecchi pericoli non sono spariti. Ad al Anbar, a ovest di Baghdad, Yasin al-Fadhawi l'estate scorsa ha trovato fuori dalla porta di casa sua una bomba grande quanto un pallone da calcio, due giorni dopo che la rivista per la quale lavora aveva pubblicato un articolo su presunti rapporti di corruzione fra il governo e alcuni capi tribù. E' fuggito da casa e si è nascosto. Assieme ad altri 43 giornalisti di al Anbar che si ritengono minacciati, al-Fadhawi voleva un fucile per proteggersi ma non è riuscito a ottenere il permesso.

Imad al-Ebad, giornalista investigativo presso una televisione di Baghdad, era appena uscito dalla sua auto per incontrare un contatto, quando gli hanno sparato quattro colpi alla testa. Cosa incredibile, è sopravvissuto. Gli erano rimaste forze appena sufficienti per rientrare nella sua auto, prima di perdere conoscenza per 10 minuti. Il suo aspirante assassino deve aver pensato che era morto, ma Emadi si è riavuto e ha guidato, sanguinando copiosamente, da un capo all'altro di Baghdad fino alla sua stazione televisiva. "Mentre attraversavo checkpoint dell'esercito e della polizia, vedevano che ero stato colpito, ma non hanno fatto nulla", dice.

I colleghi lo hanno portato in un ospedale di Baghdad dove è rimasto 10 giorni, prima di trascorrere due mesi a rimettersi in un ospedale in Germania. Indica le cicatrici che ha sul collo dove un proiettile lo ha colpito, e china la testa per mostrare dove i capelli stanno cominciando a coprire le altre ferite riportate. Non sa esattamente chi lo abbia aggredito e perché, ma suppone che sia stata una ritorsione per le sue inchieste sulla corruzione governativa. "Così come fa la mia televisione, scrivevo articoli sulla corruzione e gli scandali nell'ufficio del Primo Ministro", dice.

"Avevo ricevuto telefonate minacciose e sms che dicevano: "Non sei nessuno. Ti ammazzeremo".

The Independent,
(Traduzione di Ornella Sangiovanni)