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Lotta tra Sistemi-Paese

di Mauro Tozzato - 15/06/2010




 

In questo periodo di transizione in cui nuovi paradigmi di pensiero stanno sorgendo, ma mancano ancora le condizioni perché possano assumere efficacia storica, può succedere che suggerimenti e concordanze si stabiliscano, su alcuni punti specifici, anche tra attori che vedono (concepiscono) il mondo in maniera molto diversa. Così sul Sole 24 ore del 13.06.2010 G. Carbonato, presidente dell’Unione industriale di Torino, afferma:
<<Quei sindacati che hanno aderito alla proposta di Fiat su Pomigliano d’Arco hanno dimostrato di avere colto l’attuale passaggio storico. Ormai la contrapposizione non è più tra classi: capitalisti da una parte e lavoratori dall’altra. Ormai la contrapposizione è tra sistemi paese.[…]Di certo, le relazioni industriali vanno secondo la nuova stella polare: l’interesse del paese in un quadro di competizione globale. Ormai la capacità di ogni singolo paese di attrarre nuovi investimenti e di conservare quelli vecchi è il risultato di un gioco di squadra, in cui i sindacati e le imprese stanno dalla stessa parte. Chi non lo capisce, condanna l’Italia a un futuro di marginalità manifatturiera. Ci saranno sempre una Serbia e una Polonia, o una Germania e una Francia, dove aprire impianti chiudendo quelli italiani.>>
La prima “correzione” a questo discorso può essere tratta dall’ultimo intervento di La Grassa:
<< Massima simpatia, dunque, per i lavoratori di Pomigliano come per tanti altri che si troveranno via via nelle stesse condizioni di “prendere o lasciare”, comunque sempre sconfitti in ultima analisi nel loro rapporto con i dominanti. Tuttavia, critica feroce e senza pietà ai cialtroni (sindacalisti in testa, nessuno escluso!) che sulle loro disgrazie camperanno ancora per un po’ di tempo. Senza una nuova strategia globale – che nulla ha a che vedere con la “globalizzazione” dei mercati – non c’è alcuna salvezza.>>
E’ evidente, poi,  che non esiste una unità di interessi  tra i gruppi dominanti e dominati di uno stesso sistema-paese; soprattutto, anche all’interno di una formazione sociale particolare, esistono conflitti per la supremazia - che possono risultare surdeterminati dal contesto geopoliticoregionale e globale - ma comunque  decisivi per le possibilità di sviluppo e “mantenimento delle posizioni” del sistema-paese stesso. La GFeID, nella qualità di blocco subdominante aggregato servilmente alla predominanza statunitense, deve essere contrastata perché gli interessi dei dominati e delle forze che ricercano una autonomia nazionale economico-politica risultano in deciso contrasto con questo blocco reazionario. Il nocciolo razionale del discorso di Carbonato consiste invece nella considerazione che nell’avanzare della nuova fase multipolare (probabile preludio ad un nuovo policentrismo) diventa necessario per i sistemi-paese (nella loro strutturazione politico-economico-ideologica) configurarsi come una entità statuale forte sia nei confronti dell’esterno (autonomia, potenza) sia all’interno dove dovrebbero prendere il sopravvento quei gruppi dominanti maggiormente attrezzati per la competizione e  soprattutto in grado di sviluppare la maggiore efficacia strategica nelle loro politiche (intese in senso lato). Ciò non toglie, ancora una volta, che le classi lavoratrici dipendenti e autonome a medio-basso reddito debbano portare avanti la loro sacrosanta lotta per il posto di lavoro e per il mantenimento di un tenore di vita minimamente decente, ma anche in questo caso - viste le connivenze e l’organicità dei vari sindacati dei lavoratori-apparati di stato  a questo o quel gruppo dominante – risulterà necessaria, anche se al momento pare quasi impossibile, la conquista di una nuova autonomia conflittuale-rivendicativa, a tutti i livelli, da parte dei gruppi sociali non decisori. 
In un articolo apparso sul Sole 24 ore del 12.06.2010 Paul Krugman sviluppa la sua critica alle politiche di contenimento dei deficit che si stanno sviluppando soprattutto in Europa a causa della “crisi” greca:
<<Il dubbio principale era se le nazioni europee fossero dotate di un sistema adeguato per fronteggiare shock asimmetrici, che avrebbero inciso più su alcuni paesi che su altri; secondo la celebre tesi di Milton Friedman, avere una moneta propria consente a un paese di affrontare almeno in parte queste crisi ricorrendo alla svalutazione. Quando un paese è legato ad un altro da un’unione monetaria, questa possibilità manca (l’euro è diventata la moneta ufficiale dell’Unione Europea nel 2002).>>
Krugman non aggiunge però che l’unione monetaria era stata pensata all’interno di una unificazione economica e soprattutto politica che avrebbe dovuto ridurre le possibilità di “percorsi” (e shock) per l’appunto asimmetrici (tra i vari stati dell’Unione), permettendo così un coordinamento dello sviluppo delle economie nazionali attraverso decisioni politiche che andassero nella direzione della complementarietà e della sussidiarietà. Il fallimento è quindi al cento per cento politico: è il fallimento dell’integrazione europea come è stata concepita sino ad oggi.
Riguardo alla situazione specifica della Grecia e della Spagna l’economista americano così si esprime:
<<I paesi che in questo momento hanno un problema di debito pubblico, come la Grecia e la Spagna, si trovano in una situazione molto specifica: fanno parte dell’euro e al contempo si ritrovano con asset fortemente sopravvalutati a causa degli enormi afflussi di capitale avvenuti nel corso dei boom precedenti. Il risultato di questa combinazione è la prospettiva di anni di deflazione.>>
Secondo Krugman le politiche di contenimento del deficit negli altri paesi europei non risulteranno solo inutili ma anche dannose; in Francia, in Gran Bretagna, in Italia si otterrà soltanto il pessimo risultato di frenare ulteriormente quei minimi tentativi di ripresa della crescita che venivano preventivati qualche tempo fa. D’altra parte il premio Nobel, in sintonia con la sua dottrina neokeynesiana, pensa sempre che in casi di autentica emergenza, come in Grecia, dove “i salari e i prezzi non sono allineati” si debba ricorrere all’”unica cura possibile” che consisterebbe in “una lunga e dolorosa deflazione”. Ma il “serpente a volte tende a mangiarsi la coda”: non bisogna contenere il deficit - anche se c’è il rischio che i bond che servono per alimentarlo risultino invendibili – per non stroncare la crescita e per frenare l’aumento della disoccupazione; ma, allo stesso tempo, nel momento in cui non si è tenuto conto della  dinamica deflazionistica dell’economia reale (che malgrado tutto ci ritroviamo davanti) alimentando invece l’inflazione monetaria e finanziaria (e quindi anche salari e prezzi) si deve intervenire con la classica “cura da cavallo” che rischia di ammazzare (o ammazza) il “paziente”. Forse gli economisti non sapranno mai né prevenire né prevedere nulla (a parte Roubini che sarebbe l’eccezione !!) ma quando si è in difficoltà alcune volte servirebbe magari “resettare” e ricominciare a pensare a partire da considerazioni di un minimo buon senso per sperare di trovare una soluzione sensata a certi problemi.