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Le minacce degli strumenti industriali

di Carlo Conte - 16/06/2010

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Prima di analizzare il tema dello strumento, che è senza dubbio centrale nella filosofia di
Illich, è opportuno forse definire fin da subito i concetti di strumento conviviale e di
strumento dominante. Il primo si riferisce a tutti quegli strumenti che per funzionare
necessitano di un apporto d’energia da parte dell’uomo, e che sono stati prevalentemente
adoperati nel contesto domestico per la creazione di valori d’uso. Con la rivoluzione
industriale si è invece iniziato a produrre strumenti ad alto consumo d’energia, energia in
questo caso non fornita, se non in minima parte, dall’uomo, ma proveniente dall’esterno.
Quando la soglia d’energia necessaria al funzionamento di uno strumento supera quella
che può essere fornita dall’uomo, allora lo strumento diventa dominante. Esso, infatti,
impiega così tanta energia che finisce per assoggettare l’uomo imponendogli ritmi non
naturali.
Ma vediamo come si sviluppa l’argomentazione di Illich. Prima di tutto bisogna ricordare
che egli attribuisce al termine strumento un significato piuttosto ampio, considerando
strumenti anche le istituzioni e i grandi apparati sociali come la scuola, la sanità, la chiesa,
i media, i trasporti:
“Una scopa, una penna a sfera, un cacciavite, una siringa, un mattone, un motore, sono
strumenti quanto l’automobile o il televisore. Una fabbrica di carne in scatola o una
centrale elettrica, che sono istituzioni produttrici di beni, rientrano anch’esse nella
categoria degli strumenti. Vanno inoltre comprese nell’attrezzatura le istituzioni produttrici
di servizi, come la scuola, l’organizzazione medica, la ricerca, i mezzi di comunicazione e i
centri di pianificazione. Le leggi sul matrimonio e i programmi scolastici modellano la vita
sociale alla stessa stregua della rete stradale. […] la categoria degli strumenti abbraccia
tutti i mezzi ragionati dell’azione umana […]”1
Sostanzialmente troviamo qui riproposto il tema della tecnica, presente nella filosofia fin
dai tempi di Socrate. Platone svaluta la tecnica perché essa porta ad un uso strumentale
del sapere, mentre si può giungere alla verità solo grazie ad un processo di conoscenza
libero e disinteressato. Aristotele invece critica la tecnica perché confinata al particolare,
mentre la Scienza deve essere universale. Dunque troviamo una contrapposizione tra la
verità e la tecnica che viene meno solo con l’inizio dell’età moderna, con l’affermarsi
dell’empirismo e del meccanicismo. La fine di tale contrapposizione conduce ad una
visione spesso ottimistica della tecnica, e ad una concezione utilitaristica del sapere:
scienza e tecnica possono guidare l’uomo verso un mondo migliore. Ma l’ottimismo
positivistico è destinato a non durare: nel Novecento ci si rende conto che la conoscenza
scientifica non riesce a dare risposte sui grandi temi della vita. L’esistenzialismo sottolinea
la mancanza di senso e al concetto di tecnica affianca quello di nichilismo. Molti pensatori
evidenziano come lo sviluppo tecnologico, cresciuto a dismisura, abbia ormai raggiunto
aspetti totalizzanti, tanto da sfuggire al controllo dell’uomo. Emanuele Severino, ad
esempio, sottolinea che anche un’azione che voglia andare contro la tecnica non può mai
prescindere totalmente da essa. Ferma restando la profonda diversità tra le due filosofie,
su molti aspetti vi sono vicinanze tra le sue considerazioni e quelle di Illich, tanto che si
può dire che essi arrivino ad una “diagnosi” molto simile, se non identica:
“Il rapporto dell’uomo con i propri strumenti è sempre stato ambivalente. Gli conferiscono
un maggior potere; ma tendono anche ad asservirlo e quindi a ridurre la sua potenza. Il
problema è particolarmente sentito nel nostro tempo, perché la scienza moderna ha
conferito agli strumenti di cui oggi l’uomo dispone una potenza mai prima apparsa e quindi
egli corre oggi il rischio di venire imprigionato nella forma più radicale di asservimento. Si
tratta del rapporto dell’uomo alla tecnica. […] Uno degli aspetti più percepibili del problema
è il futuro della democrazia, perché se democrazia è autogoverno del popolo, essa
presuppone la capacità del popolo e degli individui di rendersi indipendenti dalle strutture e
dalle procedure della tecnica.”2
Anche secondo Illich il mondo moderno è in una situazione di crisi determinata
dall’illusione che la macchina possa sostituirsi all’uomo. Si tratta dell’illusione che sia
possibile cancellare i limiti dell’uomo e, come insegnavano gli antichi Greci, la volontà di
negare la Necessità genera la Nemesi. Questo tentativo di sostituzione ha così
comportato un’inversione dei rapporti: non è la macchina ad essere programmata
dall’uomo, ma quest’ultimo a dover essere educato, istruito a servire la macchina.
“Per un secolo l’umanità si è dedicata a un esperimento basato su questa ipotesi: lo
strumento può rimpiazzare lo schiavo. Ora vediamo chiaramente che, impiegato per siffatti
scopi, è lo strumento che fa dell’uomo il suo schiavo.”3
Le nuove scoperte non hanno accresciuto il potere dell’uomo, ma quello delle macchine.
Illich comunque sostiene che l’uomo ha bisogno degli strumenti, perchè essi sono
espressione della sua natura: si è uomini anche in quanto si utilizzano strumenti. Essi non
sono perciò eliminabili in quanto fanno parte della natura umana, e per questo motivo
possono determinare anche i rapporti sociali, così che la scelta di un tipo di strumento
conduce inevitabilmente ad un tipo di struttura sociale:
“Lo strumento è inerente al rapporto sociale. Allorchè agisco in quanto uomo, mi servo di
strumenti. A seconda che io lo padroneggi o che viceversa ne sia dominato, lo strumento
mi collega o mi lega al corpo sociale. Nella misura in cui io padroneggio lo strumento,
conferisco al mondo un mio significato; nella misura in cui lo strumento mi domina, è la
sua struttura che mi plasma […] Lo strumento conviviale è quello che mi lascia il più ampio
spazio e il maggior potere di modificare il mondo secondo le mie intenzioni.” 4
Illich non vuole proporre un elenco di strumenti buoni ed uno di strumenti cattivi, pericolosi:
al massimo ne fa alcuni esempi. Egli vuole invece proporre dei criteri che possano
permettere ad ognuno di comprendere quando uno strumento è conviviale e quando è
dominante, fornendo degli indicatori che aiutino a capire quando è lo strumento a
manipolare l’uomo. Non vuole fornire un manuale né un trattato, ma una guida alla
conoscenza della natura degli strumenti.
Un indicatore consiste nel quantum di energia necessaria al funzionamento dello
strumento. Uno strumento può essere maneggiabile quando sfrutta l’energia metabolica,
quella che l’uomo trae da se stesso, come nel caso della bicicletta; oppure può essere
manipolabile quando richiede, almeno in parte, l’utilizzo di energia esterna. Se il primo tipo
di strumento è conviviale per essenza (sempre che l’istituzione non ne riservi l’uso ai soli
specialisti), il secondo può ritorcersi contro l’uomo quando l’utilizzo dell’energia esogena
supera di molto quello dell’energia metabolica, quando viene superata la scala umana. E il
superamento di questa soglia costituisce il fondamento della società industriale, o per lo
meno lo è diventato dal secolo scorso. Ci troviamo dunque circondati da strumenti che per
loro natura sono incontrollabili, intrinsecamente distruttivi, che non sono più al servizio
dell’uomo, ma che ne richiedono il servizio.
“Nel XX secolo, l’uomo mette mano a giganteschi serbatoi d’energia. Il livello energetico
così raggiunto produce proprie norme, determina i caratteri tecnici dello strumento e, più
ancora, il nuovo ruolo dell’uomo. All’opera, al lavoro, viene allora ad aggiungersi il servizio
alla macchina: obbligato ad adattarsi al suo ritmo, il lavoratore si trasforma in operatore di
macchinari o in impiegato d’ufficio.”5
La crescita esponenziale dell’impiego di energia non comporta problemi solo al lavoratore,
perché provoca la rottura di equilibri delicati, mette a rischio l’omeostasi degli uomini, tutti
gli uomini, nel loro ambiente. Non è un problema individuale, ma è tutta la società a
risentirne:
“La struttura della tecnica di produzione dà forma alle relazioni sociali. La richiesta che lo
strumento fa all’uomo comporta un costo sempre più alto; è il costo dell’adattamento
dell’uomo al servizio del suo strumento, rispecchiato dalla crescita del terziario nel
prodotto globale. Diventa sempre più necessario manipolare l’uomo per vincere la
resistenza opposta dal suo equilibrio vitale alla dinamica industriale; e questa
manipolazione prende la forma di molteplici terapie, pedagogica, medica, amministrativa.”6
Le istituzioni industriali sono perciò al servizio dello strumento industriale, non dell’uomo.
La scuola non serve, ad esempio, a fornire conoscenza, ma a formare consumatori tramite
un indottrinamento forzato e acritico. E la medicina, più che portare salute, serve a
mantenere in vita l’uomo in modo artificiale, essendo saltati gli equilibri naturali.
Illich ci dice che lo strumento industriale, sovrefficiente, mette in pericolo cinque equilibri
fondamentali per la sopravvivenza dell’uomo. Ognuno di questi equilibri va salvaguardato:
sono tra loro collegati, perciò se ci si concentrasse soltanto su uno di essi non si
arriverebbe alla soluzione del problema. Esaminiamo brevemente queste minacce una per
volta.
1 - La prima minaccia è costituita dalla degradazione dell’ambiente: essa è la più evidente,
quella che ha trovato maggior spazio anche tra i politici e i media, con la conseguenza di
focalizzare il dibattito solo su di sé impedendo di comprendere la gravità anche delle altre
minacce. Molti, inoltre, credono che sarà proprio la tecnica a salvarci da un disastro
ecologico. Ma ciò non porterebbe ad altro che ad un ambiente artificiale, in cui l’uomo si
troverebbe ancor più lontano dalle proprie radici e dalla propria natura.
“Avvolto da un ambiente fisico, sociale e psichico da lui stesso fabbricato, sarà prigioniero
del suo stesso strumento-guscio, incapace di ritrovare l’antico ambiente con il quale si era
formato.”7
Coloro che vedono nella tecnologia l’arma vincente per salvare il pianeta dalla distruzione
ecologica non si rendono conto di essere dominati dall’ideologia industriale:
“Una tale risposta tecnocratica alla crescita demografica, all’inquinamento e alla
sovrabbondanza, non potrebbe fondarsi che su un accresciuto sviluppo
dell’industrializzazione dei valori.”8
In altre parole Illich invita a riflettere sul fatto che la vita dell’uomo sarebbe distante dalla
sua natura, artificiale, alienante e insoddisfacente anche se si arrivasse ad utilizzare solo
energie pulite e rinnovabili. Salvare la biosfera non è sufficiente a salvare l’uomo: si
avrebbe un pianeta pulito, ma sarebbe abitato da consumatori, non da uomini.
2 - La seconda minaccia consiste in quello che Illich chiama “monopolio radicale”, ed è a
mio avviso uno degli aspetti più interessanti della sua critica, ed uno dei concetti chiave
per comprendere la sua analisi sull’induzione dei bisogni. Solitamente si dice che c’è
monopolio quando c’è un soggetto che detiene un controllo esclusivo sulla produzione o
sulla vendita di un bene o di un servizio. E da moltissimi anni esistono leggi per evitare la
formazione dei monopoli, in quanto limiterebbero la libertà di scelta del consumatore.
Tuttavia questo, secondo Illich, sarebbe l’unico limite, e non sarebbe poi così grave: se
l’unica bibita a disposizione è Coca Cola e non mi va di berla, quando ho sete posso
sempre bere acqua. Ma quando la sete
“si traduce senza possibili alternative nel bisogno forzato, nell’acquisto obbligatorio d’una
bottiglietta di una certa bibita, soltanto allora s’installa il monopolio radicale. Con questo
termine io intendo non il dominio di una marca ma la necessità industrialmente creata di
servirsi di un tipo di prodotto.”9
Dunque, per fare un altro esempio, il problema non è tanto che vi sia una sola marca di
telefoni cellulari, ma che l’uomo non possa più vivere senza di essi, mentre ciò era
possibile, anzi normale, solo fino a quindici anni fa. Il monopolio radicale crea dipendenze,
trasforma gli uomini in “morfinomani” togliendo loro la possibilità di soddisfare da soli le
proprie esigenze utilizzando le proprie capacità innate.
“Queste soddisfazioni elementari si rarefanno quando l’ambiente sociale viene trasformato
in modo tale che i bisogni più semplici non possono più trovare la loro risposta fuori
commercio. Così si stabilisce un monopolio radicale allorchè gli uomini abbandonano la
loro capacità innata di fare quel che possono per sé e per gli altri, in cambio di qualcosa di
“meglio” che solo uno strumento dominante può procurargli. Questo monopolio radicale
[…] provoca l’aumento del costo unitario di fornitura del servizio, svaluta la prestazione
non professionale, modula l’attribuzione dei privilegi, restringe l’accesso alle risorse, rende
ostile l’ambiente all’iniziativa autonoma e mette la gente in stato di dipendenza forzosa.”10
3 - Un’ulteriore minaccia è quella che Illich denomina “superprogrammazione” e che
corrisponde al tema dell’istruzione trattato in Descolarizzare la società. Oggi si ritiene
comunemente che il sapere sia un frutto esclusivo dell’insegnamento, ma questa è una
credenza errata che dipende dal tipo di strumento utilizzato. In realtà il sapere è frutto
dell’intreccio di due variabili, che tra loro devono essere in equilibrio: la prima variabile
consiste nella scoperta personale, spontanea, favorita dall’uso di strumenti conviviali,
mentre la seconda consiste nell’insegnamento. La superprogrammazione ha luogo
quando questo equilibrio viene meno:
“Il sapere globale di una società si espande quando, nello stesso tempo, si sviluppano il
sapere acquisito spontaneamente e il sapere trasmesso da un maestro; allora disciplina e
libertà si congiungono armoniosamente. L’espansione del campo di equilibrio del sapere
non può andare all’infinito; contiene in se stessa il proprio limite.”11
Ma l’uso di strumenti dominanti ha rotto questo equilibrio, tanto che il sapere coincide in
tutto e per tutto con il titolo di studio acquisito, e chi ricerca per proprio conto soluzioni
originali e creative spesso viene considerato un “deviante”. Gli ostacoli alla creatività
hanno così costretto l’uomo ad una condizione di passività, ne hanno distrutto la creatività
e la fiducia in se stesso:
“L’uomo di città è sempre meno in grado di farsi tanto le sue cose quanto le sue idee. Far
da mangiare, far la corte o fare l’amore, tutto diventa materia d’insegnamento. Deviato
dall’educazione e verso l’educazione, l’equilibrio del sapere si disgrega. Sappiamo ciò che
ci è stato insegnato, ma non impariamo più da noi stessi. Sentiamo d’aver bisogno di
essere educati.”12
Come conseguenza di tutto ciò, il sapere diventa una merce come le altre e ne segue le
regole. Esso è perciò un capitale da acquisire e che darà i suoi frutti nel mercato, ed
essendo merce è inevitabilmente soggetto alla scarsità:
“Che cosa si impara a scuola? Si impara che più ore vi si passano, più aumenta il proprio
prezzo sul mercato.”13
Da ciò nasce l’idea dell’ “educazione permanente”:
“Permanente, l’educazione lo è in particolare, come ricostituente di stagione, per il
dirigente, il poliziotto e l’operaio specializzato, periodicamente superati dalle innovazioni
nei rispettivi campi. […] quando l’analista deve essere riprogrammato a ogni nuova
generazione di calcolatori, allora, veramente, il sapere è una merce soggetta alla
scarsità.”14
Così l’idea di sviluppo illimitato entra a far parte anche del concetto di sapere, generando
un’inutile e dispendiosa corsa contro il tempo: infatti il sapere “industrializzato” costa molto
e non è mai sufficiente. Inoltre il suo scopo non è migliorare la vita dell’uomo, ma
accrescerne la produttività. Questa escalation infinita inevitabilmente non può più
accontentarsi della scuola, soprattutto dati i costi, e perciò l’ammaestramento dell’uomo
necessita di essere sempre più pervasivo: ciò che importa è non lasciare spazio alla
libertà e alla creatività.
“Mentre la scuola allarga il campo delle sue pretese, altri servizi si scoprono una missione
educatrice. La stampa, la radio e la televisione non sono più soltanto mezzi di
comunicazione, dal momento che le si mette coscientemente al servizio dell’integrazione
sociale. I settimanali aumentano la loro diffusione riempiendosi di informazioni
stereotipate, diventano dei prodotti finiti che forniscono già bell’e confezionata
un’informazione filtrata, asettica, predigerita. Questa “migliore” informazione soppianta
l’antica discussione del foro dei semplici, della plaza; con il pretesto di informare, suscita
una docile bulimia di alimenti precotti e uccide la capacità naturale di scegliere,
padroneggiare, organizzare l’informazione.”15
Anche in questo caso si manifesta la natura paradossale dello strumento industriale: più
aumentano i mezzi di informazione, meno si è informati.
4 - La quarta minaccia consiste nella polarizzazione del potere. Essa si basa su di
un’evidenza, e cioè che nel mondo le diseguaglianze crescono sempre più, la distanza tra
ricchi e poveri è sempre più ampia, e questo nonostante via sia una crescita costante in
termini di sviluppo. Quest’ultimo è anzi la causa della polarizzazione perché esso richiede
ogni giorno la nascita di nuove professioni, sempre più specializzate, ed ogni nuova
specializzazione coincide con la creazione di un nuovo gradino sociale a cui corrisponde
una nuova forma di inferiorità. Così lo strumento aumenta costantemente la sua potenza e
questa va ad avvantaggiare una élite sempre più ristretta. Ma gli esclusi dal potere
chiedono la loro parte, sognano un posto di vertice: non hanno capito che questo tipo di
lotta non fa che rafforzare lo status quo. Tutto ciò che conta viene trasformato in merce
che non può essere disponibile per tutti, mentre allo stesso tempo le capacità umane non
mercificate, che invece sono a disposizione di tutti, non valgono più nulla. Oggi, ad
esempio, se una donna vuole contare qualcosa, deve ritagliarsi un ruolo all’interno del
mondo industriale. Solo poche donne possono scalare i vertici di un’azienda, mentre tutte
sono in grado di diventare mamme: perciò questo ruolo, mancando di esclusività, non ha
valore, mentre ne ha quello che per definizione è destinato ad una minoranza sempre più
esigua. Perciò si lotta per avere un di più con cui ottenere di meno: è questa l’essenza
della povertà moderna:
“L’industrializzazione sfrenata fabbrica la povertà moderna. E’ vero che i poveri hanno un
po’ più di soldi, ma con quel loro poco denaro possono fare di meno: e non tanto a causa
dell’aumento dei prezzi, quanto per la paralisi che colpisce la produzione dei valori che
non siano merci. La modernizzazione della povertà va di pari passo con la concentrazione
del potere: potere che consiste soprattutto nel decidere quello che si potrà o dovrà
produrre. […] La povertà si modernizza: la sua soglia monetaria si eleva perché nuovi
prodotti industriali si presentano come beni di prima necessità, restando tuttavia
inaccessibili ai più. Nel Terzo mondo, grazie alla “rivoluzione verde”, il contadino povero è
espulso dalla sua terra. Come salariato agricolo guadagna di più, ma i suoi bambini non
mangiano più come una volta. Il contadino americano che guadagna 10 volte più del
salariato agricolo è anche lui disperatamente povero. Entrambi pagano sempre più caro
un crescente “essere meno”.16
La polarizzazione sociale dipende dall’incrocio di due fattori: l’aumento dei costi di beni e
servizi industriali, e la sempre più rara disponibilità di impieghi altamente produttivi. Per
questo non c’è politica redistributiva che può porre rimedio a questo tipo di povertà: essa
dipende dalla natura dello strumento industriale, e può essere superata solo con il ritorno
allo strumento conviviale.
5 - A tutto ciò si collega l’ultima minaccia, quella dell’obsolescenza, ovvero la
svalorizzazione che necessariamente colpisce i prodotti che esercitano il monopolio
radicale. Si può chiarire questo punto con un esempio semplice: il monopolio radicale
rende necessario possedere un’automobile perché senza di essa non è possibile
raggiungere il luogo di lavoro (ormai l’essere “automuniti” o comunque in possesso della
patente di guida è un requisito indispensabile anche per partecipare a molti concorsi
pubblici). Ma poi si dice al lavoratore che l’auto di seconda mano acquistata con tanti
sacrifici non può circolare perché è vecchia, poco sicura e inquinante. Tuttavia gli effetti
più pericolosi dell’obsolescenza sono di natura culturale, perché la conseguenza è la
negazione del diritto alla storia. Così se ciò che è nuovo è migliore, allora ciò che è
vecchio non è buono, e all’ideale del Bene si sostituisce quello del “sempre meglio”:
“Una società impegnata nella corsa allo “stare meglio” sente come una minaccia l’idea
stessa di una qualsiasi limitazione del progresso. E’ così che l’individuo che non cambia
oggetti o terapie conosce il rancore del fallimento e chi ne cambia scopre la vertigine della
carenza. Ciò che ha lo nausea, e ciò che vuole avere lo fa soffrire. Il cambiamento
accelerato produce su di lui gli stessi effetti che l’assuefazione a una droga: si prova, si
ricomincia, ci si abitua, si crede di potersi controllare, ci si ammala, si crolla. La dialettica
della storia va in frantumi. Il rapporto tra il presente e la tradizione svanisce. Il linguaggio
perde le sue radici, la memoria sociale si raggela, il precedente cessa di avere influenza
sul Diritto.”17

Note

1 IVAN ILLICH: La convivialità, pagg. 42-43, Boroli Editore, Milano 2005
2 EMANUELE SEVERINO: Il declino del capitalismo, pag. 136, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1993
3 IVAN ILLICH: La convivialità, pag. 27, Boroli Editore, Milano 2005
4 Ibid., pag. 43
5 Ibid., pag. 55
6 Ibid., pag. 69
7 Ibid., pag. 75
8 Ibid.
9 Ibid., pag. 76
10 Ibid., pag. 79
11 Ibid., pag. 84
12 Ibid., pag. 85
13 Ibid., pag. 88
14 Ibid., pag. 85
15 Ibid., pag. 91
16 Ibid., pag. 95
17 Ibid.,