Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Iraq, Nell’opinione pubblica cresce la rabbia verso la classe politica

Iraq, Nell’opinione pubblica cresce la rabbia verso la classe politica

di Anthony Shadid - 17/06/2010





Mentre ieri si riuniva il Parlamento iracheno, a tre mesi dalla sua elezione – dopo ricorsi, riconteggi, e squalifiche di candidati, Saif Ali, un negoziante, sfogava la sua rabbia contro i politici.

C’erano più di 48 ° C, e aveva l’elettricità solo per qualche ora.

“Francamente, i politici ci stanno proprio sfinendo”, diceva. “Disoccupazione? Elettricità? Case? Dal 2003 — ora sono sette anni — nessuno li ha ancora risolti”.

Col sudore sulle sopracciglia, Ali scuoteva la testa. “Persino l’acqua è sporca”.

I deputati hanno definito la seduta di ieri, durata 18 minuti, come una pietra miliare, per quanto simbolica, verso la formazione di un governo. Forse. Tuttavia funzionari, diplomatici, e gli stessi politici temono che la frustrazione di Ali e di altri possa porre, per la prima volta, una minaccia più grossa per questo processo politico che sta muovendo i primi passi del conflitto confessionale o di una rivolta che è diminuita ma conserva buone capacità.

Fatta eccezione per i partiti kurdi e per i seguaci di Muqtada al-Sadr, un esponente religioso sciita populista, pochi politici hanno un qualsiasi supporto reale a livello di base che possa aiutarli ad affrontare un’opinione pubblica sempre più in collera che ha accolto con soddisfazione il miglioramento della sicurezza ma adesso pretende migliori condizioni di vita. In quasi tutte le conversazioni, si avverte un cinismo profondo verso una classe politica intrisa di un opportunismo che molti ritengono comune a quasi tutti i governi iracheni da quando venne rovesciata la monarchia – nel 1958.

“E’ chiaro che c’è uno spartiacque”, dice Ryan C. Crocker, ex ambasciatore americano in Iraq con una lunga esperienza di diplomatico in Medio Oriente, che descrive “un autoritarismo elitario che fondamentalmente ignora il popolo”.

“In questo momento, ciò che mi preoccupa è il persistere della cultura politica nella quale i governanti semplicemente non si interessano veramente dei governati”, aggiunge. “ Non l’ha inventata Saddam: fa parte di una cultura politica irachena persistente, e non ha prodotto uno Stato felice dopo il 1958, in nessun momento, e temo che non lo produrrà adesso”.

La politica irachena si è dimostrata tendente all’impasse e alla strategia del rischio calcolato; per formare l’ultimo governo ci sono voluti sei mesi. La seduta di ieri, tuttavia, è stata un microcosmo di un processo politico intricato nel quale quasi ogni passo, che sia procedurale o meno, viene contestato.

I deputati kurdi hanno insistito perché il giuramento venisse letto sia in arabo che in kurdo. (Alla fine è stato così). Nessuno dei leader iracheni ha preso la parola durante la seduta perché, a detta di alcuni politici, i loro oppositori avevano preteso di avere a disposizione lo stesso tempo. I fedelissimi di Sadr, la cui milizia aveva combattuto per due volte le forze armate americane nel 2004, hanno minacciato di abbandonare la seduta se fosse stato presente Christopher R. Hill, l’ambasciatore americano. (Alla fine, non lo hanno fatto).

“Ci si può aspettare qualunque cosa in qualsiasi momento”, diceva scuotendo la testa Omar al-Mashhadani, portavoce del presidente del Parlamento uscente, Ayad al-Samarrai’e.

Dal Primo Ministro Nuri Kamal al-Maliki in giù, i politici sono sulla difensiva riguardo al prolungarsi dei negoziati, anche se riconoscono la rabbia crescente dell’opinione pubblica.

In gioco ci sono questioni reali, dicono — ovvero, chi governerà l’Iraq mentre gli Stati Uniti ritireranno quasi 90.000 soldati entro fine 2011. Qualsiasi coalizione si formi alla fine contribuirà a determinare la formula mediante la quale la maggioranza sciita governerà un Paese profondamente diviso per confessioni ed etnie. Chi sarà Primo Ministro si troverà a far fronte a tentativi di spostare il potere dal suo ufficio al Consiglio dei ministri e al Parlamento, delineando l’autorità dello Stato.

Anche la pletora di fazioni rende il processo molto più difficile: tutti stanno negoziando con tutti, con vari livelli di sincerità e quasi nessun successo.

“Non c’è alcun progresso reale finora, nulla di reale”, dice Adel Abdul Mahdi, uno dei vice presidenti e candidato a Primo Ministro. “Siamo ancora bloccati”.

Alcuni, tuttavia, hanno definito con rabbia i negoziati teatro, e in effetti un elemento di questo tipo c’è. L’indecisione è talmente radicata che il Presidente Jalal Talabani, a cui spetta il diritto di convocare il Parlamento, ha diffuso un comunicato chiedendo pareri sulla data che avrebbe dovuto scegliere. Gli alleati sciiti di Maliki hanno fatto avere ai suoi oppositori sunniti un video che sembrava minare la tesi di Maliki per formare il prossimo governo.

Poi c’è Ayad Allawi, il leader di una coalizione laica e sunnita che ha vinto la maggioranza dei seggi nelle elezioni del 7 marzo – che è sempre in viaggio.

“Sfido chiunque a dirmi che Allawi è rimasto più di sette giorni in Iraq dopo le elezioni”, dice Ali al-Musawi, un portavoce del governo Maliki. I collaboratori di Allawi difendono i suoi viaggi, sostenendo che sono necessari per contribuire a riparare i rapporti dell’Iraq con i suoi vicini.

Abdul Mahdi si chiede se non sia la stessa cerchia ristretta dei politici a rendere più difficile il prendere decisioni. Da ragazzo, nuotava assieme ad Ahmad Chalabi nella piscina del padre di quest’ultimo. Entrambi hanno frequentato la stessa scuola di Allawi. In esilio negli anni ‘70, Talabani e Abdul Mahdi giravano negli stessi circoli palestinesi in Libano.

“A causa di relazioni di amicizia, cortesie, a volte le questioni reali non vengono sollevate”, dice Abdul Mahd. “Pensi che il tuo amico stia facendo un errore, e non riesci a essere così franco con lui”.

Il suo senso di generosità non è condiviso fuori dalla Green Zone, dove tutti – dal Grande Ayatollah Ali al-Sistani, l’esponente religioso sciita più influente del Paese, ai commercianti lungo le strade barricate di Baghdad - hanno ammonito contro il malcontento. Il ritornello delle loro conversazioni è masalih, che significa “interessi” — e i politici stanno lavorando per i loro.

“Sono sfinito, fa caldo, gli affari vanno male, e il governo anche”, urlava Mohammed Ali, un commerciante, lungo Palestine Street a Baghdad, agitando il dito. “Argomento chiuso. Basta. Posso dirle più di questo?”

Una corrente profonda di cospirazione e sospetto attraversa tali sentimenti, in modo molto simile a quello che si sentiva dire agli inizi dell’occupazione americana nel 2003. Di rado viene data la colpa a singoli politici: spesso è lo Stato nel suo insieme, le sue istituzioni che hanno fallito nel fornire i servizi più essenziali o nel migliorare la sensazione di assedio alla città fortificata.

“Conoscono i nostri problemi, ma non gliene importa niente”, dice Alaa Sabah, che sta facendo compere in una strada piena di rifiuti. “Le persone che li hanno eletti? Non fanno parte dei loro pensieri”.

Hill, l’ambasciatore, suggerisce che un’opinione pubblica infuriata potrebbe costringere i politici a raggiungere un accordo su una coalizione prima di quanto avrebbero fatto altrimenti.

“Dovranno risolverlo, oppure essere giudicati come gente che ha permesso alle proprie ambizioni personali di ostacolare gli interessi pubblici”, dice.

Ma – come molti altri - Riyadh Mehdi vede semplicemente uno scollamento fra il governo e i governati. Proprietario di un negozio di abbigliamento, dice di non avere fiducia nel Parlamento che si è insediato ieri.

“Quando gli pagheranno lo stipendio, saranno tutti lì – uno per uno”, dice. “Quando ci sarà una seduta sui problemi dell’Iraq, il numero dei presenti si potrà contare sulle dita di due mani – sette, otto. Gli interessano i soldi e il potere – e basta”.

Fa una pausa, guardando una strada assolata.

“Giuro”, dice, “una monarchia sarebbe meglio di questa repubblica”.
The New York Times

(Traduzione di Ornella Sangiovanni)