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Settimana rossa, prima grande prova insurrezionale

di Marco Managò - 17/06/2010

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Proprio in questi giorni ricorre il 96° anniversario della “settimana rossa”, l’insurrezione popolare avvenuta tra il 7 e il 14 giugno del 1914 ad Ancona e poi allargatasi ad altre città delle Marche e dell’Emilia Romagna, per protestare contro la disumana condizione economica.
Sono trascorsi 96 anni ma le circostanze della manovra attuale (necessaria per racimolare 24 miliardi di euro) piovute sulle classi medie e basse, presentano molte analogie con quelle del 1914. Una sorta di continuità della tradizione in cui si procede per misure simili e immutate, a cui in un secolo non si è posto rimedio.
Le tasse imposte per ricostruire la città di Messina (cancellata dal terremoto dal 1908) e per l’onerosa guerra di Libia culminata nel 1912, aggravarono ancora di più le condizioni dei ceti inferiori, tutto per risanare un bilancio nazionale improvvisamente scivolato verso il baratro.
Il malcontento antimilitarista, così profondo, aveva addirittura coagulato forze distanti fra loro, quali repubblicani, socialisti e anarchici. Proprio questa unione favorì il comizio di Ancona, in cui parlarono l’anarchico Malatesta, il repubblicano Nenni e il sindacalista Polizza.
La giornata designata per effettuare il comizio non fu casuale: fu scelta la data del 7 giugno, coincidente con la festa per lo Statuto Albertino, indetta ogni anno dai Savoia per la prima domenica di giugno che, nel 1914, cadeva proprio il giorno 7.
Il comizio prese spunto anche per chiedere la liberazione di Augusto Masetti e Antonio Moroni, fermati e torturati per il loro fermo antimilitarismo.
In città si originò molta confusione: gli attivisti erano disarmati e pronti a muovere, nel pomeriggio, da Via Torrioni (dalla Villa Rossa dove si svolgeva il comizio), alla vicina Piazza Roma (in cui si svolgeva la festa nazionale); l’azione spaventò le forze dell’ordine che aprirono il fuoco causando morti e feriti.
I carabinieri uccisero i repubblicani Budini e Casaccia e l’anarchico Giambrignoni (unico a morire all’istante). Il bilancio finale fu di 3 morti e 15 feriti.
I disordini si estesero nelle Marche e nell’Emilia Romagna, con forti ripercussioni nelle città più importanti dell’Italia centrale; il sud fu meno colpito: il fenomeno si limitò solo ai grandi centri come Napoli e Palermo.
In molte cittadine dell’Emilia Romagna la popolazione insorta fu pari quasi al totale dei residenti: segno di una partecipazione davvero collettiva ed estesa; in questo senso giovò, forse, anche la voce (sempre più forte ma non del tutto vera) che in Italia fosse in atto una vera e propria rivoluzione generale.
A Bologna più di 10000 manifestanti marciarono per le vie del centro, alternando il cammino e le grida allo scontro fisico con le forze dell’ordine.
Cessarono le attività pubbliche e sociali: le scuole, i trasporti ferroviari e stradali.
Gli elettori cattolici rimasero in opposizione, soprattutto nelle rosse regioni dell’Emilia Romagna e delle Marche; la Chiesa, inoltre, sferzata da spoliazioni e chiusure, tenne un atteggiamento di rifiuto.
Impossibile non accostare l’aggettivo “rosso” al termine “settimana”: il caso volle che l’insurrezione durò 7 giorni e si concretizzò in una rivolta socialista e anarchica contro la Chiesa, il re, l’alta borghesia agraria e industriale. Le motivazioni erano diverse ma coincidenti: gli anarchici desideravano la distruzione degli assetti istituzionali repressivi, i repubblicani (forti degli ideali mazziniani e dell’equità sociale) sognavano la vittoria sulla monarchia e i socialisti miravano alla dittatura del proletariato.
La pantomima per la poltrona di capo del governo aveva infastidito, ancora di più, la popolazione soggetta al giro di vite finanziario. E’ Antonio Salandra ad accettare, il 21 marzo 1914, l’incarico, dopo il rifiuto di Sidney Sonnino e la caduta di Giovanni Giolitti (alla IV esperienza) incapace a gestire la crisi economica.
La guerra di Libia fu mal sopportata: contadini e operai, contrari al bellicismo difensivo, non gradirono quello offensivo. La società stava cambiando, da un mondo rurale a industriale, non erano sufficienti le garanzie e le promesse liberiste di sviluppo a incantare il popolo. L’imperialismo italiano, goffo, sprecone in Libia, aveva prodotto enorme malcontento nonché forte diserzione e si cercava di ovviare con una durezza assoluta.
Il capitalismo, già potente e desideroso di nuove conquiste coloniali alimentatrici, contrastava con la poverissima situazione degli italiani, ridotti in condizioni di vera miseria, al sud quanto al nord.
La “settimana rossa” fu il primo e serio atto sovversivo dell’Italia unita, di una nazione gradualmente in formazione ma divisa socialmente, sorretta da governi deboli e incapaci a gestire il fondamentale passaggio alla fase industriale. Fu il grande banco di prova per la futura replica delle lotte del “biennio rosso” (1919/20) che interessarono anche altre nazioni europee, tra cui la Germania.
L’insurrezione giungeva, inoltre, a pochi giorni dal primo conflitto mondiale (28 luglio, per l’Italia rimandato al 24 maggio 1915).
Errico Malatesta, anarchico di Santa Maria Capua a Vetere, fu tra i protagonisti del comizio di Ancona. Egli credeva di più nelle masse e nell’impeto rivoluzionario quasi spontaneo e naturale, rispetto al diffidente Nenni.
Il faentino non confidava molto nelle capacità delle masse affermando “la rivoluzione sembrò prendere consistenza di realtà, più per la vigliaccheria dei poteri centrali e dei conservatori che per l’urto che saliva dal basso…”.
L’incapacità era pressoché totale e diffusa, non soltanto fra le forze istituzionali: lo dimostra anche la stessa debolezza sindacale a organizzare e gestire, con proficui risultati, l’evento insurrezionale.
Le cause del repentino fallimento furono nel dietrofront della Cgl (Confederazione Generale del Lavoro) che, il 10 giugno, invitò i rivoltosi a collaborare, per la gioia di liberali, conservatori e cattolici.
Il colpo di scena della Cgl spiazzò i ribelli, indispettì Malatesta e ottenne, nonostante gli appelli, lo scopo voluto dal governo, facendo scemare lo sciopero generale del 9 (il giorno dei funerali dei 3 caduti) e 10 giugno che presto era divenuto una rivoluzione.
Mussolini partecipò a un comizio a Milano il 10 giugno e si convinse della maturità dei lavoratori, di uno sciopero di offesa anziché di difesa, del gran coraggio, anche fisico (nei confronti delle forze dell’ordine) di una massa troppo spesso considerata ottusa.
Le critiche dei socialisti riformisti, dopo il fallimento della “settimana rossa”, crearono le prime insanabili fratture con il direttore dell’Avanti!
Mussolini aveva compreso quanto l’avventura bellica in Libia fosse un tentativo, del governo liberale, di distrarre la popolazione dalla grave situazione economica interna. Il futuro duce approvò gli eventi del giugno 1914 e li stimolò, confidando nella prima e vera presa di coscienza da parte della classe lavoratrice, non più arrendevole o manovrabile.
In realtà, per il governo di allora l’avventura si ritorse come un clamoroso boomerang, in quanto fu proprio quel conflitto a inasprire gli animi di un popolo che, evidentemente, non si era distratto.
Il popolo attuale si ammalia con la televisione, la pubblicità, internet, facebook, i reality show e il calcio; quello del 1914, alle prese con una crisi poco più grave, non si fece incantare.
I giornali di regime dell’epoca minimizzarono l’evento, facendolo trasparire come mero atto teppistico anziché dimostrazione di tutela per classi condotte allo stremo. Una vergognosa e meschina riduzione del fenomeno, considerato, nella migliore delle ipotesi, come sciopero; il tutto ben orchestrato da chi gestiva l’informazione del tempo. Le polemiche di liberali, cattolici e conservatori furono rivolte verso quelle forze dell’ordine che si erano lasciate sfuggire l’evento, senza reprimerlo con rapidità.
Gli ecclesiastici rimproveravano tutti i laici che, con le idee (e i fatti), avevano avviato un pericoloso processo di scristianizzazione della società, i cui unici risultati erano quelli di fornire energia e stimoli a elementi sovversivi in grado di scuotere le masse.
I conservatori, un po’ sorpresi, capirono quanto pericolosa fosse la molla rivoluzionaria italiana e cercarono di porre i rimedi futuri: per evitare coalizioni e pericolose repliche.
L’insurrezione fallì, d’accordo, ma dimostrò come una piccola città fosse in grado di provocare tanto disordine estendendo la protesta. Ci furono, in seguito, polemiche e riflessioni, soprattutto per capirne l’arcana genesi. Si preoccuparono più dell’origine e dei limiti alle ribellioni, anziché della sostanza delle stesse e a come evitarle concedendo il giusto alle masse; un paradosso davvero ignobile, da sottolineare per il suo triste e ciclico ripetersi.