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Sfaldamento delle parole

di Julius Evola - 22/06/2010

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Uno dei segni del fatto, che il corso della storia ha rappresentato, fuor dal piano puramente materiale, tutt’altro che un progresso, è dato dalla povertà delle lingue moderne rispetto a molte lingue antiche. Non vi è una delle cosidette “lingue vive” occidentali che, per organicità, articolazione e plasticità regga il confronto, ad esempio, col latino antico o col sanscrito. Fra le lingue di ceppo europeo, forse il solo tedesco ha conservato qualcosa della struttura arcaica (ed è per questo che la lingua europea ha fama di essere “così difficile”), mentre la lingua inglese e quella dei popoli scandinavi hanno parimenti subito un processo di erosione e di appiattimento. In genere, si può dire che le lingue antiche cui accenniamo erano tridimensionali mentre quelle moderne sono bidimensionali. Il tempo ha agito anche qui in senso corrosivo; ha reso “pratiche” e “fluide” le parlantine a scapito, appunto, dell’organicità. È, questo, un riflesso di quanto si è verificato in molti altri domini della cultura e dell’esistenza.

Anche le parole hanno una loro storia e spesso il mutamento subito dai loro contenuti è un interessante indice barometrico di corrispondenti mutamenti della sensibilità generale e della visione del mondo. In particolare, sarebbe interessante fare un confronto fra il significato che alcune parole ebbero nell’antica lingua latina e quello che è proprio a termini corrispondenti, rimasti quasi uguali, della lingua italiana e anche spesso di altre lingue romanze. In genere, si può osservare una caduta di livello. Il senso più antico o è andato perduto, o sopravvive in forma residuale in qualche particolare eccezione o locuzione, senza più corrispondere a quello ormai generale e prevalente, o, ancora, appare del tutto distorto e di frequente banalizzato. Indicheremo qualche esempio.

Il caso più tipico e noto è forse costituito dalla parola virtus. La “virtù” in senso moderno non ha quasi nulla a che fare con la antica virtus. Virtus significava forza d’animo, coraggio, prodezza, saldezza virile. Si legava a vir, termine designante l’uomo come veramente tale, non come uomo in senso generico e naturalistico. La stessa parola nella lingua moderna ha assunto, invece, un senso essenzialmente moralistico, spessissimo associato a pregiudizi sessuali, tanto che riferendosi ad esso Vilfredo Pareto ha coniato il termine “virtuismo” per designare la morale puritana e sessuofoba borghese. In genere dicendo “persona virtuosa” oggi si pensa a cosa ben diversa da quel che, con una reiterazione assai efficace, potevano significare, ad esempio, espressioni come questa: vir virtute praeditus. E la differenza non di rado può trasformarsi quasi in una antitesi. Infatti un animo saldo, fiero, intrepido, eroico è il contrario di ciò che significa una persona virtuosa nel senso moralistico e conformistico moderno.

Il senso di virtus come forza efficiente si è mantenuto soltanto in certe locuzioni particolari moderne: la “virtù” di una pianta o di medicamento, in “virtù” di questa o quella cosa.

Honestus. Connesso con l’idea di honos, questo termine anticamente ebbe il significato prevalente di onorevole, nobile, di nobile rango. Che cosa, di ciò, si conserva nel termine moderno corrispondente? “Onesta” è la persona dabbene della società borghese, quella che non compie proprio cattive azioni. L’espressione “nato da onesti genitori” oggi ha perfino una sfumatura quasi ironica, mentre nella Roma antica era la designazione precisa di una nobiltà di nascita, cui spesso corrispondeva anche una nobiltà biologica. Vir honestia facie significava, infatti, uomo di prestante aspetto, allo stesso modo che nell’antica lingua sanscrita il termine arya comprendeva sia il senso di una persona degna di onore, sia quello di una nobiltà tanto interiore quanto del tipo somatico.

Gentilis, gentilitas. Oggi ognuno pensa alla persona cortese, affabile, di buone maniere. Il termine antico rimandava invece al concetto di gens, di stirpe, di razza, casta o lignaggio. Era “gentile”, romanamente, chi aveva le qualità che derivano da un lignaggio e da un sangue differenziato, le quali solo per riflesso possono determinare eventualmente un contegno di distaccata cortesia, cosa diversa dalle “maniere” che anche il parvenu può far proprie studiandosi il galateo – e diversa, anche, dalla vaga nozione moderna della gentilezza. E’ così che oggi pochi possono capire il senso pieno e più profondo di espressioni come “spirito gentile” e simili, rimaste come isolati prolungamenti in scrittori di altri tempi.

Genialitas. Chi è “geniale”, oggi? Un tipo prevalentemente individualistico, ricco di trovate originali, estroso. Come limite, si ha il genio nel campo artistico, il culto feticistico tributato al quale nella civiltà umanistica e borghese è noto, tanto che il genio, più che non l’eroe, l’asceta o l’aristocrate, è stato spesso considerato, in tale civiltà, come il più alto tipo umano. Il termine latino genialis allude invece a qualcosa di ben poco individualistico e “umanistico”. Esso deriva dalla parola genius, la quale originariamente designò la forza formatrice e generatrice interna, spirituale e mistica, di una data gente o di un dato sangue. Non è dunque azzardato affermare che le qualità geniali nel senso antico ebbero una certa relazione con quelle che, nell’accezione più alta, si possono dire appunto di “razza”. In opposto alla significazione moderna, l’elemento geniale si distingue da quello individualistico e arbitrario; si lega ad una radice profonda, obbedisce ad una necessità interiore per una aderenza più superpersonali di un sangue e di una gente, a quelle forze a cui, in ogni senso gentilizio, si connetteva, come è noto, anche una tradizione sacrale.

Pietas. Non occorre dire che cosa significhi oggi una “persona pietosa”. Si pensa ad un atteggiamento sentimentale più o meno umanitario, sensitivo – e “pietoso” è quasi sinonimo di compassionevole. Nell’antica lingua latina la pietas apparteneva invece al dominio del sacro, designava lo speciale rapporto in cui l’uomo romano stava con le divinità in primo luogo, poi con altre realtà legate al modo della Tradizione, compreso lo stesso Stato. Di fronte agli dèi, si trattava di un atteggiamento di calma, dignitosa venerazione: sentimento di appartenenza e, nel contempo, di rispetto, di memore riferimento, anche di dovere e di adesione, come potenziamento dello stesso sentimento suscitato dalla figura severa del pater familias (donde la pietas filialis). Come si è accennato, la pietas poteva manifestarsi anche nel campo politico: pietas in patriam significava fedeltà e dovere rispetto allo Stato e alla patria. In alcuni casi, la parola in quistione ammette anche il significato di iustitia. Colui che non conosce la pietas è anche l’ingiusto, quasi l’empio, è colui che disconosce il luogo che gli è proprio e che deve mantenere in un ordine superiore, divino e umano ad un tempo.

Innocentia. Anche questa parola evocava idee di chiarezza e diforza, nell’uso prevalente nell’antichità essa esprimeva la purezza d’animo, l’integrità, il disinteresse, la rettitudine. Non si esauriva nel significato negativo di non essere colpevole. Da essa esulava la sfumatura di banalità che oggi presenta l’espressione “spirito innocente”, sinonimo, quasi, di sempliciotto. In altre lingue romaniche, come nel francese, lo stesso termine, innocent, finisce con l’essere anche la designazione degli idioti (!!!), degli spiriti sfasati per nascita, deboli di mente e come stupefatti.

Patientia. Il significato moderno, rispetto a quello antico, accusa di nuovo uno smussamento e un depotenziamento. Oggi viene detto paziente chi non si arrabbia, chi non si irrita, chi tollera. Nella lingua latina la patientia designava una delle “virtù” primarie dell’uomo romano: comprendeva l’idea di una forza interna, di una incrollabilità, alludeva alla capacità di tener fermo, di aver l’animo non turbato di fronte a qualsiasi rovescio e a qualsiasi avversità. Per questo fu detto esser prorio, alla razza di Roma, il potere sia di compiere grandi cose, sia di “patire” vicende avverse di non minore entità (cfr. il noto detto di Livio: et facere et pati fortia romanum est). Il significato moderno risulta invece, rispetto all’altro, completamente innacquato. Come esempio di una natura tipicamente paziente viene indicato l’asino.

Humilitas. Con la religione venuta a predominare in Occidente l’umiltà è divenuta una ‘virtù’ in un senso poco romano, glorificata in opposto a quella tenuta di forza, di dignità, di calma consapevolezza, di cui si è detto più sopra. In Roma antica essa significò proprio il contrario di ogni virtus. Volle dire bassezza, spregevolezza, bassa condizione, abiezione, viltà, disonore – per cui, ad esempio potè dirsi che all’«umiltà» è da preferire la morte o l’esilio: humilitati vel exilium vel mortem anteponenda esse. Frequenti sono associazioni di idee, come mens humilis et prava, cioè mente bassa e malvagia. L’espressione humilitas causam dicentium si riferisce alla condizione di inferiorità e di colpa di coloro che sono portati dinanzi ad un tribunale. Anche qui s’incontra una interferenza con l’idea di razza o casta: humilis parentis natus significava essere nato dal popolo in senso dispregiativo, plebeo, in opposto alla nascita gentilizia, dunque con una sensibile divergenza rispetto al senso moderno di «umile condizione», specie considerando che oggi il criterio quasi esclusivo delle posizioni sociali è quello economico. In ogni caso, ad un Romano del buon tempo antico non sarebbe mai venuto in mente di concepire l’humilitas come una virtù, fino a trar vanto da essa e a predicarla. Quanto a certa «morale dell’umiltà», si potrebbe ricordare il rilievo di un imperatore romano, ossia che nulla vi è di più deprecabile dell’orgoglio di coloro che si dicono umili – senza che con questo si voglia dar valore, però, alla presunzione e all’arroganza.

Ingenium. Solo in parte il significato antico si è conservato nella parola moderna, ed è, di nuovo, il suo aspetto meno interessante. Ingenium nell’antica lingua latina indicava anche la perspicacia, l’acutezza di mente, la sagacia, l’avvedutezza – ma, in pari tempo, la parola rimandava al carattere, a ciò che in ognuno è organico, innato, veramente proprio. Vana ingenia poté, dunque, significare persone senza carattere; redire ad ingenium poté dire tornare alla propria natura, ad un modo di vita conforme a quel che veramente si è. Questo più importante significato è andato perduto nella parola moderna, a tal segno da dar luogo quasi ad una antitesi. Infatti se l’ingegno lo si intende in senso intellettualistico e dialettico, si ha qualcosa di evidentemente opposto al secondo significato incluso nel termine antico, che rimanda al carattere, ad uno stile conforme alla propria natura; è superficialità di contro a organicità, è moto irrequieto, brillante e inventivo della mente contro ad un rigoroso stile di pensiero aderente al proprio carattere.

Servitium. Il verbo servio, servire in latino ha anche il significato positivo di essere fedeli. Prevale però il significato negativo di essere servi; è quest’ultimo, in ogni caso, che sta alla base dell’altra parola, servitium, la quale indicava appunto la schiavitù, il servaggio, perché derivata da servus = schiavo. Nei tempi moderni la parola “servire” si è sempre più diffusa perdendo questa sfumatura negativa e avvilente, al punto che nei popoli soprattutto anglosassoni del “servizio sociale” si è potuto fare quasi l’oggetto di un’etica, dell’unica etica veramente moderna. E come non si è sentito l’assurdo di parlare di “lavoratori intellettuali”, del pari nel sovrano si poté vedere “il primo servitore della nazione”.

Anche a tale riguardo, è opportuno rilevare che, come i Romani non ci si presentano per nulla come una razza di “oziosi”, del pari essi ci offrono i più alti esempi di lealismo politico, di fedeltà allo Stato e ai capi. Ma il tono è assai diverso. La trasformazione dell’anima delle parole non è casuale. Che parole, come labor, servitium, otium, si siano imposte nell’uso corrente secondo il loro significato moderno, ciò è un indice sottile, ma eloquente, di uno spostamento di prospettive avvenuto non di certo nella direzione di vocazioni virili, aristocratiche, qualitative.

Stipendium. Occorre appena dire che cosa oggi significhi “stipendio”. Si pensa subito ad un impiegato, alla burocrazia, al famoso 27 del mese degli statali. Nella Roma antica il termine si riferiva invece quasi esclusivamente all’esercito. Stipendium merere significava militare, stare agli ordini dell’uno o dell’altro capo o condottiero. Emeritis stipendis significava: dopo aver compiuto il servizio militare. Homo nullius stipendii era colui che non aveva conosciuto la disciplina delle armi. Stipendis multa habere voleva dire poter vantare molte campagne, molte imprese di guerra. Anche qui, la differenza è di non poco momento.

Il significato completo di altre parole latine, come studium e studiosus, oggi non si mantiene più che in certe locuzioni speciali, come ad esempio “fare con studio”, intendendosi a bella posta o con una certa applicazione. Nel termine latino era presente l’idea di una intensività, di un calore, di un interesse vissuto, che nella parola moderna si è offuscato, perché da questa si è portati a pensare soprattutto a discipline intellettuali o scolastiche più o meno aride. Studium latinamente poteva dire perfino amore, desiderio, inclinazione viva. In re studium ponere significava prendere a cuore una cosa, interessarsene vivamente e attivamente. Studium bellandi voleva dire il piacere, l’amore del combattere. Homo agendi studiosus era colui che ama l’azione – riprendendo quel che si è detto circa labor, era l’antitesi di colui pel quale l’azione può significare soltanto “lavoro”. Che si può pensare, poi, oggi, di una espressione come studiosi Caesaris? Essa non voleva dire coloro che studiano Cesare, bensì coloro che lo seguono, che lo ammirano, che ne prendono le parti, che gli sono affezionati e fedeli.

Altre parole l’antico senso delle quali è andato perduto sono, ad esempio, docilitas, che non voleva dire docilità ma soprattutto buona disposizione o capacità di apprendere, di far proprio un insegnamento o principio; poi ingenuus, che non significava affatto “ingenuo” bensì uomo nato libeo, di condizione non servile. Che, latinamente, humanitas non significasse “umanità” nel senso democratico e sfaldato di oggi bensì cultura di sé, pienezza di vita e di esperienza – e ciò, originariamente, nemmeno in un senso “umanistico” all’Humboldt – è cosa più o meno risaputa. Un altro esempio non privo d’importanza: certus. Nell’antica lingua latina la nozione di certezza, di cosa certa, stava frequentemente in relazione con quella di una determinazione consapevole. Certum est mihi vuol dire: è mia ferma volontà. Certus gladio è colui che può affidarsi alla propria spada, che è sicuro di sapersene servire. Nota è la formula diebus certis, che non vuol dire “nei giorni certi” ma nei giorni fissati, stabiliti. Ciò potrebbe dare uno spunto per considerazioni circa una speciale concezione della certezza: concezione attiva, che la fa dipendere da ciò che rientr nel nostro potere determinante. In una certa misura, Gian Battista Vico nello stesso spirito enunciò la formula verum et factum converturtur – ma su tale via si doveva finire nelle divagazioni proprie al cosidetto “idealismo assoluto” neo-hegeliano. Porremo fine a queste osservazioni considerando il contenuto originario di tre antiche nozioni romane, quelle di fatum, felicitas e fortuna.

Fatum. Secondo l’accezione moderna più corrente il “fato” è una potenza cieca che incombe sugli uomini, che ad essi s’impone facendo si che si realizzi quel che essi meno vogliono, spingendoli eventualmente verso la tragedia e la sventura. Da qui il termine “fatalismo”, antitesi di ogni atteggiamento di libera, efficace iniziativa. Secondo la visione fatalistica del mondo il singolo non è nulla, la sua azione, malgrado ogni parvenza di libero arbitrio, o è predestinata, o è vana, e gli avvenimenti si svolgono obbedendo ad una obbedienza o ad una legge che lo trascende e che non lo tiene in alcun conto. “Fatale” è un aggettivo che, prevalentemente, ha un significato negativo: esito “fatale”, un incidente “fatale”, “l’ora fatale della morte”, e via dicendo.

Secondo la concezione antica, il fatum corrispondeva invece essenzialmente alla legge dello sviluppo del mondo, legge che, a sua volta, non veniva pensata cieca, irrazionale e automatica – “fatale” nel senso moderno – bensì come piena di senso e come procedente da una volontà intelligente, soprattutto da quella delle potenze olimpiche. Il fatum romano rimandava, come il *rta indoeuropeo, alla nozione del mondo come cosmos e ordine, in particolare a quella della storia come uno sviluppo di cause e di eventi riflettente significati superiori. Le stesse Moirai della Tradizione ellenica, benché presentassero alcuni aspetti malefici e “inferi” (che risentivano di culti pre-ellenici e pre-indoeuropei), appaiono spesso come personificazioni della legge intelligente e giusta che presiede al governo dell’Universo, in certe sue estrinsecazioni.

Però è soprattutto a Roma che la nozione di fatum acquista un particolare risalto. Ciò pel fatto che la civiltà romana, fra tutte quelle a carattere tradizionale e sacrale, si concentrò particolarmente sul piano dell’azione e della realtà storica. Perciò ad essa importò meno il conoscere l’ordine cosmico come una legge supertemporale e metafisica, che il conoscerlo come forza in atto nella realtà, come volere divino ordinatore di avvenimenti. Al che, romanamente, si collegava appunto il fatum. L’espressione viene dal verbo fari, dal quale deriva anche la parola fas, il diritto come legge divina. Così fatum allude alla “parola” – s’intende: alla parola rivelata, soprattutto a quella delle divinità olimpiche che dà a conoscere la norma giusta (fas) così come annuncia ciò che sta per avvenire. In relazione a questo secondo aspetto gli oracoli, nei quali un’arte speciale tradizionale cercava di cogliere in germe quel che corrispondeva a situazioni in via di realizzarsi, si chiamavano anche fata; erano, quasi, la parola rivelata della divinità.

Ciò premesso, per l’insieme che ora stiamo considerando devesi tener presente un rapporto dell’uomo con l’ordine generale del mondo che in Roma antica e nelle civiltà tradizionali in genere era assai diverso da quello che doveva successivamente predominare. Se l’idea di una legge universale e di un volere divino non annullavano la nozione della libertà umana, pure fu costante preoccupazione dell’uomo antico formare la sua azione e la sua vita in modo che esse continuassero l’ordine generale, rappresentassero, per così dire, un prolungamento o un ulteriore sviluppo di esso. Partendo dalla pietas, ossia, romanamente, dal riconoscimento e dalla venerazione delle forze divine, ci si pone come compito il presentire la direzione di queste forze divine nella storia in modo da potervi accordare opportunamente l’azione, tanto da renderla massimamente efficace e piena di significato. Da qui la parte importantissima che nel mondo romano, fin nel dominio della cosa pubblica e dell’arte militare, ebbero l’oracolo e l’auspicio. Fu ferma persuasione del Romano che le peggiori sciagure, comprese le disfatte militari, non fossero tanto dipese da errori, debolezze o deviazioni umane quanto dall’aver trascurato gli auspici, cioè riportando la cosa alla sua essenza, dell’aver agito disordinatamente e arbitrariamente, seguendo meri criteri umani, rompendo i contatti col mondo superiore (romanamente, ciò voleva dire aver agito senza religio, cioè senza collegamento), senza tener conto delle “direzioni di efficacia” e del “momento giusto” condizionanti un’azione “felice”. Si noti che la fortuna e la felicitas in Roma antica spesso appaiono soltanto come l’altra faccia di fatum, come la sua faccia propriamente positiva.. L’uomo, il capo o il popolo che usano la loro libertà per agire in aderenza con le forze divine delle cose, hanno successo, riescono, trionfano – e questo voleva dire, anticamente, essere “fortunato” ed essere “felice” (tale senso si è conservato in locuzioni, come “un’iniziativa felice”, una “mossa felice”, ecc.). Uno storico moderno, Franz Altheim, ha creduto di poter riconoscere in questo atteggiamento la causa effettiva della grandezza romana.

Per chiarire ulteriormente i rapporti fra “fato” e azione umana ci si può riferire alla tecnica moderna. Esistono certe leggi delle cose e dei fenomeni, che possono essere conosciute o ignorate, di cui si può tenere o non tenere conto. Di fronte ad esse l’uomo, in fondo, resta libero. Egli può anche agire in modo contrario a quel che tali leggi consiglierebbero, tanto da vedere la sua azione fallire ovvero tanto da raggiungere lo scopo solo con un grande sperpero di energie e superando ogni specie di difficoltà. La tecnica moderna corrisponde all’opposta possibilità; si cerca di conoscere il meglio possibile le leggi delle cose per poterle sfruttare e far sì che esse indichino la linea della minore resistenza e della maggiore efficacia per la realizzazione di un dato fine.

Non altrimenti stanno le cose su un piano in cui non si tratta più di leggi della materia ma di forze spirituali e “divine”. L’uomo antico riteneva cosa essenziale conoscere o, almeno, presentire tali forze, tanto da potersi formare un concetto delle condizioni propizie per una data azione e eventualmente di ciò che doveva fare o non doveva fare. Sfidare il fato, ad ergersi contro il fato, per lui non era cosa “prometeica” nel senso romantico esaltato dai moderni, ma semplicemente sciocca. Empietà (che vuol dire il contrario della pietas, ossia l’esser privo di religio, di “collegamento” e della comprensione rispettosa dell’ordine cosmico) per l’uomo antico era più o meno stupidità, infantilità, fatuità. Il paragone con la tecnica moderna è difettoso in un sol punto: pel fatto che le leggi della realtà storica non si presentavano come disanimatamente “oggettive”, affatto staccate dall’uomo e dalle sue finalità. Si potrebbe dire così: l’ordinamento oggettivo divino connesso al fato giunge fino ad un certo limite, oltre il quale esso cessa di essere determinante e diviene tendenziale (donde il noto detto dell’astrologia: astra inclinant non determinant). Qui prende inizio il mondo umano e storico in senso proprio. In via normale questo mondo dovrebbe continuare il precedente, la volontà umana dovrebbe, cioè, riprendere e portar oltre la volontà “divina”. Che ciò avvenga o no dipende essenzialmente dalla libertà: occorre che lo si voglia. Nel caso positivo quel che era tendenza si fa, attraverso l’azione umana, realtà. Il mondo umano si presenterà allora come una continuazione dell’ordine divino e la stessa storia andrà ad assumenre i tratti di una rivelazione e di una “storia sacra”; l’uomo non vale e non agisce più per se stesso bensì in una dignità divina e il tutto acquista, in un qualche modo, una dimensione superiore.

Si vede, così, che si tratta di cosa ben diversa dal “fatalismo”. Come un’azione contro il “fato” è sciocca e irrazionale, così un’azione armonizzata col fato è non solo efficace ma anche trasfigurante. Chi non tiene conto del fatum è quasi sempre destinato ad essere passivamente trasportato dagli eventi; chi lo conosce lo assume e vi si innesta viene invece guidato verso un superiore compimento, ricco di un significato non soltanto individuale. Tale è il senso del detto antico secondo il quale i fatanolentem trahunt, volentem ducunt“.

 Nel mondo romano antico e nell’antica storia romana sono numerosi gli episodi, le situazioni e le istituzioni dove viene in luce, appunto, il sentimento di incontri “fatidici” fra mondo umano e mondo divino, di forze dall’alto che scorrono nella storia e si manifestano attraverso quelle umane. Per limitarci ad un solo esempio, si può ricordare che “il culmine del culto romano di Giove era sostituito da un atto in cui il dio si fa presente nella sua qualità di vincitore in un uomo, nel trionfatore. Non è che Giove sia solo causa della vittoria, ma egli stesso è il vincitore; il trionfo non si celebra in suo onore ma egli stesso è il trionfatore. Per questa ragione l’imperator riveste le insegne del dio” (KK. Kerényi, F. Altheim).

Attuare – talvolta prudentemente, talaltra audacemente – nell’azione e nell’esistenza il divino, questo fu un principio direttivo che l’antica romanità applico allo stesso ordine politico. Così è stata giustamente messa in rilievo la misura nella quale Roma ignorò il mito nel senso astratto e soltanto superstorico prevalente in alcune altre civiltà; in Roma il mito si fa storia, così come, a sua volta, la storia assume un aspetto “fatale”, si fa mito.

Da ciò procede una conseguenza importante. In questi casi, è una identità che, propriamente, si realizza. Non si tratta di una parola divina che può essere ascoltata o non ascoltata. Si tratta invece di un dispiegamento nel quale la volontà umana appare quella stessa delle forze superiori. Con il che si viene ad un concetto particolare, oggettivo, quasi diremmo trascendentale della libertà. Contrapponendomi al fatum posso bensì rivendicare per me un arbitrio, ma esso è sterile, è un puro “gesto” perché esso ben poco saprebbe incidere sulla trama della realtà. Quando, invece, ho fatto si che la mia volontà continui un ordinamento superiore, sia, cioè, l’organo per mezzo del quale questo ordinamento si realizza nella storia, ciò che io voglio in un simile stato di coincidenza o di sintonia è tale da tradursi eventualmente in un comando per forze oggettive che altrimenti non si sarebbero facilmente piegate o non avrebbero avuto riguardo per quel che gli uomini vogliono o sperano.

Ora, ci si può chiedere: come è che si è giunti alla nozione moderna del fato come una potenza oscura e cieca? Come tanti altri, un tale mutamento di significato è lungi dall’essere casuale, esso riflette un mutamento di livello interiore e si spiega, essenzialmente, con l’avvento dell’individualismo e dell’umanismo inteso in un senso generale, cioè con riferimento ad una civiltà e ad una visione del mondo basate unicamente su ciò che è umano e terrestre. È evidente che, una volta prodottasi questa scissione, al luogo di un ordinamento intelligibile del mondo doveva essere sentito il potere di qualcosa di oscuro e di estraneo. Il “fato” divenne allora il simbolo generale di tutte quelle forze più profonde in atto, sulle quali l’uomo, malgrado il suo dominio sul mondo fisico, può ben poco, perché non le comprende più e si è tagliato fuori di esse, ed anche di forze che, col suo stesso atteggiamento, ha liberato e ha rese sovrane in dati dominî dell’esistenza.

Questa è solo un’idea dell’importanza e dell’interesse che avrebbe una illuminata filologia perché, come si disse, le parole hanno una loro anima e una loro vita, tanto che anche a tale riguardo il rifarsi alle origini può spesso dischiudere prospettive insospettate. Il lavoro, poi, sarebbe ancor più fecondo ove non ci si limitasse a retrocedere dalle lingue “romaniche” all’antica lingua latina, ma la stessa lingua latina venisse riportata al più vasto, comune ceppo delle lingue indoeuropee, del quale essa, nei suoi elementi fondamentali, è stata una differenziazione.