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Sarebbe ora che l’uomo cominciasse a fare ammenda nei confronti della balena

di Francesco Lamendola - 23/06/2010



Con il termine “balena”, in senso lato, si designano tutti i cetacei di grandi dimensioni, dai capodogli, alle balenottere, alle megattere, alle balene vere e proprie, ossia le balene franche («Balaenidae», due generi rappresentati da quattro specie).
Si tratta di animali intelligenti, respiratori volontari (per riposare, i due emisferi del loro cervello si addormentano “a turno”), di enormi dimensioni: la balenottera azzurra, il più grande animale mai vissuto sul globo terracqueo, può misurare fino a 33 metri di lunghezza  per 160 tonnellate di peso, cioè l’equivalente di una trentina di elefanti africani adulti.
Questi giganti dei mari sono stati perseguitati a morte dall’avidità dell’uomo per la loro carne, per l’olio e per il grasso, fin dal tempo della navigazione a vela e poi, ancor più, nell’epoca delle navi a vapore; tanto che, ai primi del Novecento, sorse tutta una catena di porti balenieri, specialmente nell’emisfero australe (come Grytviken, nella Georgia del Sud), appositamente attrezzati per la lavorazione dei grandi cetacei.
La storia della caccia alle balene inizia nell’XI secolo, ad opera dei Baschi, e prosegue ininterrottamente nel corso dei secoli, fino ai nostri giorni. Essa ha avuto anche il suo poema epico: il grandioso romanzo di Herman Melville «Moby Dick» (1851), in cui, peraltro, la vittoria finale è della balena, mentre l’equipaggio che le dava la caccia, al comando dell’ossessionato capitano Achab, perisce miseramente tra i flutti.
Al principio del XIX secolo vi fu un autentico “boom”della caccia alla balena, specialmente allo scopo procacciarsi l’olio utilizzato per l’illuminazione, da parte di Olandesi, Inglesi, Norvegesi, Tedeschi e Americani; l’introduzione delle navi a vapore, poi, e la costruzione delle grandi navi-officina, sulle quali il cetaceo viene direttamente macellato e conservato in celle frigorifere, hanno ulteriormente accelerato il ritmo della distruzione, fino a metterne seriamente in pericolo la sopravvivenza (facciamo qui riferimento a un buon articolo apparso sul «Corriere della Sera» il 14/07/04).
Durante la prima guerra mondiale, la richiesta di glicerina per scopi bellici spinse Britannici e Norvegesi a intensificare la caccia alle balene nelle acque antartiche, mentre anche i Giapponesi scendevamo in lizza, con una loro industria specializzata nella cattura di megattere, balene grigie e balene franche.
Al principio degli anni ’30 del Novecento la Società delle Nazioni e la comunità internazionale riconobbero che esisteva il rischio di estinzione e cominciarono a introdurre, timidamente, alcune norme per limitare la caccia indiscriminata; il primo accordo venne ratificato da 22 nazioni (tra le quali non figuravano né la Germania né il Giappone), nel 1931. Si calcola, peraltro, che in quello stesso anno siano state uccise non meno di 43.000 balene.
Bisogna arrivare comunque al 1948 perché venga istituita la Convenzione internazionale per la Regolamentazione della caccia alla balena (I.C.R.W.): la sua filosofia non è certo di tipo ecologista, bensì quella di una industria baleniera “intelligente”, interessata a preservare un valore economico prima che la caccia sconsiderata lo faccia sparire da tutti i mari del globo. Gli Stati membri, 14 in origine e poi fino a 52, sono, appunto, quelli cointeressati nello sfruttamento economico delle balene; solo in seguito vi si sono aggiunti anche alcuni Paesi che non possiedono una industria baleniera ma che sono interessati alla sopravvivenza di questi cetacei.
Fino agli anni Settanta, comunque, il massacro continua a ritmo serrato: soltanto nella stagione di caccia 1961-62, nelle acque dell’Antartide, vengono uccisi 66.000 esemplari. Della balenottera azzurra, di cui esistevano ancora circa 250.000 individui prima che iniziasse la grande caccia, ne sopravvivono attualmente qualcosa come 1.500.
È stato il W.W.F. (Worl Wildlife Fund), il più grande organismo per la protezione della natura esistente al mondo, fondato in Svizzera nel 1961, a lanciare la parola d’ordine «Salvate le balene!», chiedendo con forza, a partire dal 1972, una moratoria generale della caccia a questi colossi del mare. A tale mobilitazione dell’opinione pubblica, l’IW.C. risponde stabilendo, nel 1974, delle quote annue per i singoli Paesi, sulla base di un calcolo di sostenibilità e di pretesi studi scientifici, ma in effetti senza modificare il proprio atteggiamento fondamentale e senza che il massacro subisca un rallentamento significativo.
Una moratoria parziale viene proclamata nel 1979, con esclusione totale di caccia nelle acque dell’Oceano Indiano; ma bisogna attendere il 1986 perché venga votata una moratoria su tutta la caccia commerciale alla balena, con venticinque nazioni votanti a favore, sette contrarie e cinque astenute. Le maggiori resistenze vengono dal Giappone, dalla Norvegia e dall’Unione Sovietica, non ancora rassegnate a smantellare o riconvertire le proprie industrie baleniere e a rinunciare ai profitti da esse derivanti.
Nel 1994, grazie ad una intensa campagna di informazione e sensibilizzazione, il W. W. F. ottiene l’istituzione di un’area interdetta alla caccia alla balena nelle acque del Pacifico meridionale, vasta ben 50 milioni di chilometri quadrati. Ma le navi baleniere giapponesi non rispettano questa zona di interdizione e proseguono la caccia, camuffandola da “studio scientifico”, così come fanno nelle acque del Pacifico settentrionale.
A partire da questi ultimi anni, tuttavia, qualcosa sembra essere finalmente cambiato nella filosofia dell’I.W.C. specialmente dopo la creazione, nel 2003, di un Comitato per la conservazione; anche se gli interessi e le pressioni dell’industria baleniera giapponese, norvegese ed islandese continuano ad essere determinanti ed a sfruttare tutti gli appigli legali disponibili per proseguire nella caccia, a dispetto di tutte le convenzioni. L’Islanda, ad esempio, ha avviato un programma di “caccia scientifica” alla balena che è, sotto mentite spoglie, la prosecuzione dei massacri sistematici degli anni precedenti.
Oltre che dalla caccia, del resto, le balene sono minacciate anche dal sempre più grave livello di inquinamento chimico dei mari e dall’alterazione del loro ambiente, oltre che dalle morti “accidentali” provocate dalle reti per la cattura del pesce; morti che colpiscono i piccoli dei cetacei maggiori e le specie di minori dimensioni, come i delfini. Questi ultimi, poi, sono minacciati anche dalla costruzione di grandi dighe, come quelle sui fiumi asiatici Yangtze (in Cina), Irawaddy (in Myanmar/Birmania) e Mekong (fra il Laos e la Thailandia).
Ricapitolando la questione alcuni decenni or sono (ma l’analisi è ancora di tragica attualità) il saggista Farley Mowat, nel suo libro «La balena e la furia» (titolo originale: «A Whale for the Killing», New York, Holt, Rinehart and Winston, 1972; traduzione italiana di Bruno Oddera, Milano, Longanesi & C., 1974, pp. 307-12), così scrive

«Prima che il più rapace dei predatori, l’animale umano, si accingesse seriamente ad annientarle, durante il diciassettesimo secolo, si ritiene che le otto specie di grandi balene comprendessero  quattro milioni e mezzo di individui.
Nel 1930, tre secoli  dopo, essi erano stati ridotti a circa un milione e mezzo.
Meno di mezzo secolo dopo, nel 1972, si calcolava che non esistessero più di trecentocinquantamila superstiti.
Una specie, la balena grigia atlantica, chiamata balena scrag dai balenieri del New England,  che l’annientarono, si estinse ancor prima che gli scienziati si fossero resi conto della sua esistenza. Quattro altre specie: la balena di Biscaglia, la balena franca, la balena azzurra e la megattera, sono ormai così vicine all’estinzione che, nonostante una protezione teorica, le loro possibilità di sopravivenza sono dubbie. Tre specie: la balenottera dalla grande pinna, la sei e il capodoglio, sostengono ora l’impeto del nostro incessante attacco alla nazione delle balene,. E il loro numero si va riducendo con spaventosa rapidità. Soltanto una specie, la balena grigia del Pacifico, che è stata protetta per oltre quarant’anni, sembra ALLONTANARSI esitante dall’estinzione, anziché correre verso di essa.
A causa della diminuzione catastrofica del numero delle grandi balene molte nazioni un tempo in primo piano nell’”industria” baleniera hanno rinunciato a tale attività, in quanto non riveste più alcun interesse economico. Esse comprendono gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Olanda e la Germania. Nel 1972, soltanto il Giappone e l’URSS hanno continuato la caccia pelagica alle balene s vasta scala, sebbene la Norvegia, la più sterminatrice nazione baleniera nella storia dell’umanità, sia stata loro alle calcagna in quest’ultimo parossismo del massacro. Giappone URSS, complessivamente, uccidono circa l’ottantotto per cento delle quaranta-quarantacinquemila grandi balene che, in base alle quote stabilite dalla Commissione baleniera internazionale, possono essere legalmente massacrate. Il resto dello sterminio”legale” lo si deve soprattutto alle basi a terra canadesi, norvegesi, giapponesi e sudafricane.
I dati ufficiali comunicati dalla Commissione baleniera internazionale  sono abbastanza gravi, ma non dicono, assolutamente, tutto. La maggior parte delle nazioni rappresentate nella Commissione (e numerosi paesi balenieri non ne fanno neppure parte) omettono, per consuetudine, di riferire i dati relativi all’uccisione “accidentale” di balene le cui dimensioni sono inferiori a quelle prescritte, di femmine con piccoli e di balene appartenenti a specie “protette”, nonché le aperte violazioni delle quote. Poiché la Commissione internazionale non esercita una sorveglianza efficace e non applica sanzioni rilevanti ai trasgressori, le quote stabilite continuano a non essere rispettate. Tanto per peggiorare la situazione, esiste un numero sempre più grande di baleniere da caccia (e anche alcune navi-officine e cacciabalene al contempo) appartenenti soprattutto a giapponesi e norvegesi, ma battenti bandiere di comodo, che danno la caccia alle balene in alto mare con la inosservanza più assoluto di QUALSIASI regolamento o accordo. È noto che queste “baleniere-pirata” uccidono balene  di ogni dimensione, di entrambi i sessi e di ogni specie, comprese TUTTE le specie nominalmente protette, ogniqualvolta e ovunque possano.  Talora agendo con la connivenza degli stati marittimi, particolarmente nell’America del Sud e nell’Africa meridionale, si ritiene che sterminino ogni anno dalle duemila alle cinquemila grandi balene, NESSUNA DELLE QUALI figura nelle statistiche “ufficiali” della Commissione internazionale. CIRCA CINQUANTAMILA DELLE PIÙ GRANDI BALENE SONO STATE UCCISE NEL 1972 PER MANO DELL’UOMO. Eppure, sebbene un massacro così incessante non possa non dar luogo allo sterminio virtuale  di tutte le specie di balene prima della fine di questo decennio [cioè il 1970-1980], NESSUN PASSO PER RIDURRE IN MANIERA SIGNIFICATIVA LA PORTATA DELLE UCCISIONI ANNUE VIENE COMPIUTO DALLE NAZIONI PIÙ INTERESSATE ALLA CACCIA ALLE BALENE. Come sempre è accaduto da quando fu istituita, ancora nel 1971 la Commissione internazionale continuava a fissare quote annue, per ciascuna specie, talmente irrealistiche DA SUPERARE TALORA IL NUMERO STESSO DELLE BALENE CHE LE NAVI E LE BASI A TERRA DEGLI STATI MEMBRI AVREBBERO POTUTO CATTURARE. Questa non è conservazione… è distruzione in massa legalizzata.
Le grandi balene non sono le sole ad essere perseguitate fino all’estinzione.  Stiamo ora minacciando seriamente anche la sopravvivenza di quelle balene relativamente piccole, le balenottere minori e le balenottere di Bryde (attivamente cacciate dalle baleniere norvegesi), nonché i beluga e i globicefali. Il Canada consente ai turisti di sparare ai beluga PER DIVERTIMENTO,come una delle distrazioni offerte ai viaggiatori artici! Tanto per aggravare la situazione, l’uomo sta conducendo una guerra decisa contro  molte specie di delfini e focene. Nel 1971, oltre duecentomila di questi piccoli odontoceti furono sterminati dai giapponesi a scopi commerciali, e si ritiene che un numero quasi eguale sia perito “accidentalmente” nelle reti per tonni delle acque del Pacifico. Mentre le ultime grandi balene vengono trasformate in cibo per cani e gatti e in cosmetici, i giapponesi intensificheranno senza dubbio la pressione sui delfini e le focene, sebbene, a quanto pare, i russi non intendano imitarli. A. Iskov, ministro sovietico per la pesca, ha vietato di recente l’uccisione di queste piccole balene, sostenendo che si tratta dei “fratelli marittimi del genere umano”. Vi è anche qualche motivo di sperare che i sovietici sarebbero disposti a ridurre, o addirittura a far cessare, da parte loro, il massacro delle ultime grandi balene… SE i giapponesi potessero essere persuasi a fare altrettanto. Fino ad oggi, i giapponesi, il cui rappresentante nella Commissione internazionale è altresì direttore di un’importante società baleniera del Giappone, si sono inflessibilmente rifiutati di collaborare.
È ormai anche troppo chiaro che se vogliamo salvare una qualsiasi specie di balene, grandi o piccole, dobbiamo rifiutare la Commissione internazionale come strumento per impedire la perpetrazione ultima di un delitto contro la vita la cui portata non ha uguali nella storia umana.  La Commissione internazionale non ha mai tutelato le balene… ha tutelato sempre e soltanto i balenieri.
Se si vuole che le balene sopravvivano, l’umanità deve dichiarare E FAR APPLICARE una moratoria mondiale relativa all’uccisione di qualsiasi balena. Questo periodo di respiro deve avere una durata di almeno dieci anni, se le file tremendamente decimate dei cetacei devono avere qualche reale possibilità di riprendersi.  Durante la moratoria, dovrà esservi un embargo mondiale , severamente applicato, su tutti i prodotti derivati dalle balene, altrimenti molte società baleniere si limiterebbero  a continuare la loro attività sotto bandiere di comodo, affinché le navi ad esse appartenenti si uniscano alla sempre più numerosa flotta di baleniere-pirata.»

La situazione odierna è tuttora molto critica; e, se il rischio immediato di estinzione sembra, per adesso, scongiurato, pesanti ipoteche continuano a gravare sul futuro di questo possente, magnifico signore degli oceani.
Fra le altre cose, l’inquinamento dell’ambiente marino sembra responsabile dei casi, sempre più frequenti, di balene ed altri cetacei che vengono a morire sulle spiagge, arenandovisi, dopo aver smarrito inspiegabilmente il senso dell’orientamento. Ed il recente disastro ambientale nel Golfo del Messico (primavera del 2010), con la fuoruscita incontrollabile di milioni e milioni di tonnellate di petrolio greggio che, nel giro di qualche mese, si spargerà su tutti i mari del globo, è un altro eloquente segnale di allarme per la preservazione dell’equilibrio ecologico dell’ambiente oceanico, senza il quale le balene, insieme a numerosissime altre specie di mammiferi marini, pesci ed uccelli, saranno condannati alla distruzione in tempi più o meno brevi.
Forse è tempo che l’uomo faccia ammenda di tanti errori, di tanto sconsiderato accanimento nel perseguire unicamente l’immediato vantaggio economico, di tanta mancanza di lungimiranza, di saggezza, di umanità e di consapevolezza olistica.
Forse le grandi balene, che da milioni di anni popolano i mari di tutti il mondo e che non hanno mai costituito un pericolo o una minaccia per l’uomo, meritano un tale «mea culpa» da parte nostra, prima che sia troppo tardi.
Ma, perché ciò avvenga, è necessario un autentico ribaltamento della nostra prospettiva esistenziale, della nostra sensibilità etica, della nostra consapevolezza di creature viventi su di un pianeta che non è di nostra proprietà, ma del quale siamo semplicemente ospiti temporanei.
È questo ciò su cui ci invita a riflettere la storia drammatica del rapporto fra l’uomo e i grandi signori del mare.
L’uomo non potrà dirsi spiritualmente evoluto se non arriverà il giorno in cui l’uccisione di un animale come la balena o come il delfino sarà riguardata in maniera analoga all’assassinio di un altro essere umano: qualche cosa di moralmente intollerabile e che non può avere giustificazioni di sorta, nemmeno pietose scusanti sul tipo di un preteso “studio scientifico”.