Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il Pakistan e le aree tribali

Il Pakistan e le aree tribali

di Alessandro Iacobellis - 23/06/2010

http://piemonte.indymedia.org/attachments/oct2008/aree_tribali_pakistan.jpg

AfPak, ovvero Afghanistan e Pakistan, è la parola-chiave su cui si concentrano i principali grattacapi per la politica estera Usa. Su questo fronte sia l’attuale amministrazione democratica di Obama, che quella precedente repubblicana di Bush non riescono a venire a capo di un nemico ben preparato, motivato ed imprevedibile. Quelli che in Occidente siamo soliti indicare con la generica e frettolosa etichetta di “talibani”, ma di cui in realtà sappiamo ben poco.
A partire dal 2001 (invasione dell’Afghanistan adducendo come scusa ufficiale gli attacchi dell’11 settembre) ad oggi, lo scenario regionale è decisamente mutato. Da allora, infatti, la crisi da locale (limitata cioè al solo Paese delle Montagne) si è espansa, divenendo regionale, con pesanti conseguenze sull’intero quadrante del subcontinente indiano. Il Pakistan è attualmente un Paese sull’orlo della guerra civile, diviso fra una classe politica fedele a Washington, un’opinione pubblica fortemente anti-americana e diversi apparati statali (esercito, servizi segreti, potere giudiziario) che giocano una partita in proprio. La stessa India ha subito una recrudescenza di attacchi terroristici sul suo territorio (i più gravi gli assalti di Mumbai del novembre 2008).
Durante i primi anni di occupazione, giova ricordarlo, la guerriglia contro le forze occupanti Usa/Nato era ancora latente, per diverse ragioni. In primo luogo perché le forze del vecchio sistema di potere talibano, cacciato senza troppi sforzi da Kabul, erano in fase di riorganizzazione politica e militare.
Questo periodo, coincidente con le prime fasi dell’aggressione angloamericana all’Iraq, ha fra l’altro contribuito a ingenerare nell’opinione pubblica occidentale la sensazione che l’Afghanistan fosse ormai pacificato.
Nulla di più falso. In un Paese tradizionalmente settario, l’Occidente stava compiendo un errore fondamentale: la persecuzione sistematica dei pashtun, l’etnia storicamente dominante, da cui provenivano i talibani e che gli statunitensi hanno punito duramente sin dai primi mesi dell’invasione. L’heartland pashtun nel sud e nell’est del Paese, con epicentro Kandahar, è stato fin da subito sottoposto all’occupazione più dura da parte delle forze occidentali rispetto alle altre aree. Con la consueta miopia che li contraddistingue, i consulenti della Casa Bianca si sono illusi poi che i pashtun si sarebbero potuti accontentare di una ristretta cricca di collaborazionisti posta al governo di Kabul (Karzai e la sua cerchia, facenti capo alla tribù dei Popalzai), dopo essere stati estromessi dal potere che avevano in precedenza. Illusione.
Anche perché al di là dell’Atlantico (ma anche presso le cancellerie europee sempre a rimorchio di Washington) non si era calcolato un importante fattore storico e culturale: il vincolo tribale che lega i pashtun. Questa etnia, infatti, non è presente solo in Afghanistan, ma anche nelle regioni del vicino Pakistan. In particolare, nelle zone tribali e montagnose nord-occidentali, che nel corso di questi anni sono diventate il vero fulcro della questione pakistana. Un nome su tutti: il Waziristan.
Per capire cos’è il Waziristan, bisogna prima capire cos’è il Pakistan. Essendo nato come creatura artificiale post-coloniale, al suo interno particolarmente diviso ed eterogeneo, unito solo dal fattore-Islam, questo Paese ha da sempre dovuto fare fronte a diverse spinte centrifughe, figlie di un sistema federale imperfetto sin dalle origini, spesso risolte con pugno di ferro da parte dei governi più o meno democratici alternatisi a Islamabad. Il Waziristan è parte delle FATA (Federally Administered Tribal Areas), ovvero una delle aree da sempre più instabili, in cui l’autorità centrale dello Stato non è praticamente mai arrivata. Islamabad ha deciso di suddividere questo territorio in sette “agenzie” amministrative: Bajaur, Mohmand, Khyber (la porta per l’Afghanistan), Orakzai, Kurram, Nord e Sud Waziristan. Già questa divisione dice molto: il Waziristan è stato diviso in due parti senza alcuna vera motivazione, se non quella di garantirne un miglior controllo. Tutti questi sono luoghi di cui stiamo cominciando a conoscere i nomi per le vicende belliche (il Khyber Pass è il passaggio obbligato per i camion di rifornimenti destinati alle truppe Nato in Afghanistan, e gli attacchi ai convogli su questa strada ormai non si contano più). In più vi sono anche sei Distretti di frontiera: Bannu, Dera Ismail Khan, Kohat, Lakki Marwat, Peshawar e Tank. Una divisione imposta che gli abitanti di queste zone non hanno mai accettato, le cui cause vanni ricercate nei danni apportati dal colonialismo britannico. E’ nel 1893 che il mandatario coloniale delle Indie, Henry Mortimer Durand, sigla un accordo con l’emiro afgano Abdur Rahman Khan per stabilire confini certi tra l’India britannica e l’Afghanistan, che avevano già combattuto due cruente guerre (Prima e Seconda Guerra Anglo-Afgana: 1839-1842 e 1878-1880). Già durante la prima invasione, la Gran Bretagna aveva imparato a conoscere il coraggio e la ferocia dei guerrieri pashtun: del contingente di 4500 soldati inviati a Kabul riuscì a salvarsene… uno soltanto, l’assistente chirurgo William Brydon (raffigurato nel celebre dipinto di Elizabeth Butler “Resti di un esercito”). Viene stabilita la cosiddetta Linea Durand, che però non è come un vero e proprio confine come noi europei potremmo intendere, quanto piuttosto una divisione in sfere di influenza. E i pashtun ci finiscono proprio in mezzo, venendone divisi. Da qui nasce la questione AfPak, qui affonda le sue radici. Il Waziristan, infatti, diventerà da questo momento in poi teatro di continue offensive britanniche per sedarne le periodiche ribellioni. L’evento più drammatico risale alla campagna condotta fra il 1919 e il ’20. In seguito alla penetrazione degli afgani nell’India britannica (Terza Guerra Anglo-Afgana), i waziri furono gli ultimi (e i più valorosi) a soccombere alla repressione coloniale, sanguinosa e brutale come poche. Al fine di piegarne la ribellione, per la prima volta nella storia fu fatto ricorso alla forza aerea. Il Waziristan fu il primo luogo al mondo a conoscere il cinismo e il sadismo della Royal Air Force, che si ripeterà un anno dopo in Iraq e un paio di decenni più tardi sulle città d’Europa. L’Afghanistan fu quindi costretto ad accettare definitivamente la spartizione delineata da Durand (Trattato di Rawalpindi, 1919, poi perfezionato dal Trattato Anglo-Afgano del 1921). Ma per i pashtun tale divisione non ha mai avuto effettivo valore. Per questa ragione il confine afgano-pakistano è sempre stato più una linea su una cartina piuttosto che una divisione reale ed effettiva. Facile capire come questa sia la vicenda di un popolo che da secoli vive sulla propria pelle i giochi egemonici delle grandi potenze che puntano all’Oceano Indiano. Un popolo estremamente fiero e orgoglioso, rigidamente chiuso al contatto con l’esterno, a sua volta suddiviso in tribù spesso in conflitto fra loro, ma pronte a fare fronte comune contro le minacce provenienti da fuori. Questo atteggiamento di chiusura e preservazione della propria specificità e identità li ha portati fra l’altro a dotarsi di un proprio codice, il Pashtunwali (letteralmente: la Via dei Pashtun), che fonde al suo interno regole comportamentali, legislative e religiose. Un corpo normativo complesso e particolareggiato, i cui principi base sono fatti risalire ad epoca pre-islamica, e che definisce nel suo insieme il comportamento che ogni pashtun deve tenere per se stesso e per la comunità. Sebbene i commentatori occidentali parlino superficialmente di “fondamentalismo islamico”, l’identità pashtun si è forgiata attraverso diversi influssi culturali passati attraverso le loro terre. Di stirpe aria (il pashtu è una lingua indoeuropea appartenente al ceppo indo-iranico), prima dell’Islam gli abitanti di queste vallate hanno conosciuto la dominazione persiana, l’arrivo dei Greci di Alessandro Magno (secondo alcune teorie, alcuni suoi soldati scelsero di fermarsi qui dando vita a comunità tuttora esistenti), fino al regno Shahi del primo millennio d.C., che favorì l’arrivo del buddismo nella regione. L’Islam sarà solo l’ultimo in ordine di tempo di una lunga serie di influenze, arrivato con le invasioni arabe e turche e la nascita dell’impero Ghaznavide, che univa praticamente l’intero subcontinente indiano, destinato ad essere abbattuto nel XVI secolo dagli eserciti mongoli guidati dai discendenti di Gengis Khan. L’epoca Moghul (impero fondato da Babur il Conquistatore nel 1526) pose sì la regione sotto un’ennesima dominazione straniera (turco-mongola), ma fu anche una parentesi di relativa pacificazione del territorio. Essa durò fino al XVIII secolo, e la sua fine aprì le porte al colonialismo britannico. I pashtun furono sempre al tempo stesso vittime e pedine di questa instabilità politica, per la loro attitudine guerriera e la loro collocazione geografica. Hanno imparato, col tempo, a fare e disfare con estrema disinvoltura alleanze, mantenendo una sola linea guida: la lotta per la propria indipendenza. Per questo sono stati armati nel corso della storia da diverse potenze, che li sceglievano credendo di potersene servire, per poi pentirsene amaramente in seguito (vedi i britannici, che armarono le tribù per contrastare la penetrazione della Russia zarista in Afghanistan, finendone poi a loro volta vittime in quello che venne definito da Rudyard Kipling il Grande Gioco dell’Asia Centrale). Il legame fra il mandato britannico e l’atteggiamento del Pakistan nei confronti delle zone tribali è evidente: si pensi che il regime amministrativo delle FATA non è ancora stato rinnovato (sebbene periodicamente emergano proposte in tal senso) rispetto a quello stabilito da Londra nel lontano 1901 col “Frontier Crimes Regulations”. La stessa Corte Suprema non ha alcuna giurisdizione sulle aree tribali. Ciò ha portato nel corso degli anni a due atteggiamenti tanto opposti quanto nocivi: vuoti di potere (colmati da forme di auto-governo locale) alternati a tentativi di imporre la sovranità con la forza (se non con vere e proprie operazioni di guerra, come quelle di questi mesi) da parte delle autorità centrali. Una schizofrenia che ha avuto il solo effetto di aumentare le distanze tra questo popolo e il resto del Pakistan.
Le aree tribali hanno diritto di mandare in parlamento propri rappresentanti, ma solo come indipendenti: in queste zone non possono essere fondati partiti politici, né d’altro canto hanno rappresentanza i partiti presenti nel resto del Pakistan. Pertanto, gli eletti sono tali in base ad appartenenza tribale o su indicazione dei potenti locali. Se si pensa che questi –pochi- diritti politici sono stati introdotti solo a partire dal 1996 (prima le aree non avevano alcuno status giuridico-amministrativo definito), si capisce bene come Islamabad abbia sempre considerato queste zone e chi le abitava come un problema, più che come parte integrante dello Stato.
I pashtun non sono presenti solo nelle aree tribali: a maggioranza pashtun per due terzi della popolazione è anche la Provincia Frontaliera del Nord-Ovest (recentemente ribattezzata Khyber Pakhtunkhwa). Diversamente dalle FATA, essa gode degli stessi diritti politici delle altre province del Paese. Il governatore di questa provincia si occupa anche dell’amministrazione delle aree tribali, ma il suo potere è teorico e solo sulla carta. Comprende il distretto di Bannu e la nota valle dello Swat, teatro in questi anni di violenti scontri tra i militanti locali e le forze governative. Un territorio che, a differenza delle altre zone pashtun del Pakistan, ha goduto in passato di una relativa prosperità (caratterizzato da splendidi paesaggi montani verdi e fertili che gli erano valsi addirittura la nomea di “Svizzera del Pakistan”) e che solo di recente è diventato un epicentro dell’insorgenza. Ovviamente questo spezzettamento e questa divisione artificiale del “Pashtunistan” è un motivo importante per comprendere il risentimento storico di questa etnia nei confronti di tutti i dominatori che nei secoli si sono succeduti nella regione. Il che ha reso i pashtun un popolo perennemente in guerra, con la fama di encomiabili e indomiti guerrieri, favoriti anche da una terra la cui conformazione orografica sembra fatta apposta per condurre una guerriglia. Essendo considerati dal Pakistan cittadini di serie B e sostanzialmente inaffidabili, le porte dell’esercito regolare sono per loro chiuse. Il massimo cui possano aspirare è entrare a far parte delle locali milizie paramilitari istituite da Islamabad, che risentono però di diverse problematiche: equipaggiamenti scarsi, salari quasi inesistenti e l’ostilità diffusa nel resto della popolazione che li considera collaborazionisti.
Il tutto accompagnato da un vuoto di potere politico colmato da chi porta le armi. Armi di cui i pashtun spesso non hanno nemmeno bisogno di farsi rifornire dall’esterno. Esiste addirittura un’enclave, Darra Adam Khel, famosa per l’attività in cui eccellono i suoi abitanti: la produzione in proprio di armi. Attenzione: armi di ogni tipo, anche di una certa complessità, compresi efficaci congegni di contraerea, oltre a un’infinita varietà di pistole e fucili (perfette imitazioni di ogni tipo di mitragliatrice, kalashnikov inclusi). Tutto materiale all’occorrenza utile per un conflitto.
La conseguenza logica di questa oppressione storica e dei forti legami di sangue che non conoscono frontiere tra Pakistan e Afghanistan è stata la fusione negli ultimi anni della questione pashtun pakistana con quella dell’occupazione afgana. Peshawar è diventata sin dal 2001 luogo di rifugio per i profughi che scappavano dalle bombe americane, che si sono uniti a quelli già presenti sin dall’occupazione sovietica di vent’anni prima (il Pakistan assieme all’Iran ne accolse grandi quantità), e anche buona parte dei combattenti talibani hanno usato il terreno oltre confine come retrovia per riorganizzarsi e ripartire all’attacco degli invasori. Del resto, è lo stesso uso che di questa area strategica facevano Cia e Isi (Inter-Services Intelligence) pakistano per sostenere i mujaheddin negli anni Ottanta, quando il nemico era in comune, su diretta ispirazione della dottrina strategica di Zbigniew Brzezinski. La vera novità di oggi, semmai, è che si siano formate fazioni armate che rivolgono le armi anche contro le truppe di Islamabad, e la cui agenda politica è indipendente (perlomeno in parte) da quella dei combattenti afgani. La più nota di queste organizzazioni è il Tehrik-e-Taliban-e-Pakistan (Movimento dei talibani pakistani),  basato nel Waziristan del Sud, comandato dal clan dei Mehsud (prima Baitullah, ucciso lo scorso agosto da un drone statunitense, ora Hakimullah), accusato fra le altre cose del fallito attentato di aprile a Times Square, New York.
Quello che gli statunitensi hanno chiamato AfPak è quindi in ultima analisi un nodo plurisecolare in cui si intrecciano agenda locale, regionale e globale. Ed è questo il motivo per cui Washington non potrà mai venirne a capo.