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Russia, Cina e gli scontri in Kirghizistan

di Marco Luigi Cimminella - 23/06/2010


   
Russia, Cina e gli scontri in Kirghizistan

Lo scontro etnico in Kirghizistan all’ombra del Grande Gioco del XXI secolo

Con la violenta esautorazione del governo Bakiev, a reggenza temporanea del Kirghizistan è stato nominato il governo ad interim di Roza Otunbayeva, immediatamente riconosciuto e sostenuto dalla dirigenza russa. Alcuni analisti hanno visto, dietro il crollo della precedente amministrazione kirghisa, la mano del Cremlino, particolarmente contrariata dal prolungamento del contratto stipulato da Biškek con Washington al fine di mantenere una base militare americana a Manas. Mosca considera il Kirghizistan come una sua “sfera di influenza”, non ammettendo quindi alcun tipo di ingerenza straniera sul territorio.

In questi ultimi giorni si è consumato un esasperato conflitto fra i gruppi kirghisi e uzbeki dell’area, culminato in una vera e propria pulizia etnica ai danni delle minoranze uzbeke della regione.

Le prime accuse sulla fomentazione dello scontro sono state imputate ai seguaci dell’ex presidente Bakiev, sospettati di strumentalizzare i laceranti dissapori fra le opposte etnie provocando destabilizzanti disordini sul territorio al fine di impedire il referendum costituzionale, previsto per il prossimo 27 giugno. Larghe frange di kirghisi sostengono infatti l’ex presidente in esilio in Bielorussia, mentre la maggior parte degli uzbechi del sud appoggia il governo della Otunbayeva.

In seguito alle tensioni, circa 400 mila uzbeki che risiedevano nelle città meridionali di Osh e Jalabad, nelle enclavi di Sokh e Shakhimardan hanno cercato rifugio nel vicino Uzbekistan, ma solo 100 mila sono riusciti ad oltrepassare il confine: il governo di Tashkent ha temporaneamente chiuso le frontiere agli sfollati1.


Il revival degli antichi imperi asiatici

Lo scontro interetnico che ha attraversato il territorio kirghiso in questi ultimi giorni ha evidenziato ancor più marcatamente il carattere transeunte del matrimonio sino-russo avvenuto sull’altare dell’Organizzazione di Shangai (OCS).

In seguito all’attentato delle torri gemelle e alla successiva guerra in Afghanistan, Mosca aveva intrapreso una politica di “bandwagoning”, supportando Washington nella defatigante lotta bushiana al terrorismo transnazionale. Ma la radicata penetrazione americana in Asia centrale aveva immediatamente preoccupato il Cremlino che, contando sull’aiuto cinese, aveva deciso di allentare i legami con la Casa Bianca, attuando una politica di “counterbalance” nell’ambito della OCS2.

Questa Organizzazione, il cui statuto può essere considerato una chiara sintesi fra ostilità all’egemonia unipolare e rispetto delle specificità storico-culturali dell’area, da un lato è stata la concretizzazione degli sforzi multilaterali delle potenze asiatiche al fine di osteggiare la proliferazione dei tre demoni che minacciano la stabilità regionale: separatismo, estremismo e terrorismo; dall’altro, l’estrinsecazione internazionale della condanna all’attitudine dominatrice e monopolizzante nelle relazioni internazionali di matrice nordamericana3.

Ma il graduale indebolimento delle posizioni statunitensi nella regione risulta essere presciente di un’inevitabile lacerazione dell’alleanza sino-russa, la cui fragilità e ridotta consistenza sostanziale sono manifestate dagli opposti interessi che contrappongono i due imperi nello scacchiere centro asiatico.

Difatti, vero è che l’Organizzazione di Shangai ha fornito un forum multilaterale di discussione che ha permesso Mosca e Pechino di rinsaldare e rafforzare le proprie relazioni, economiche, politiche ed energetiche con gli stati centro asiatici. D’altro canto, il Cremlino ha promosso la costituzione di organizzazioni, a livello militare ed economico, concorrenti alla OCS ed escludenti qualsiasi partecipazione cinese.

Sul piano della sicurezza, un’esemplificazione a riguardo è la OTSC (Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva), di cui fanno parte, insieme con le cinque ex repubbliche sovietiche centro asiatiche, l’Armenia e la Bielorussia4. La crisi kirghisa di questi ultimi giorni ha evidenziato le incertezze e debolezze che caratterizzano la OCS, ancora incapace di manifestare, concretamente, un’unitarietà di intenti e di intervenire energicamente al fine di stabilizzare la situazione nel sud del Kirghizistan.

Reali e concrete offerte di aiuto sono giunte infatti solo dalla OTSC, a testimonianza dell’atteggiamento più pragmatico assunto dall’organizzazione militare dominata da Mosca5.

Sul versante economico, se Pechino lavora instancabilmente nel tentativo di realizzare un’area di libero scambio nell’ambito della Organizzazione di Shangai, il Cremlino osta al conseguimento di tale obiettivo, convinto infatti che l’abbattimento delle barriere a favore del libero commercio nel territorio comporterebbe un’inarrestabile inondazione di prodotti cinesi, fortemente competitivi in quanto a basso costo, gravida di conseguenze negative per le esportazioni russe. Così Mosca ha deciso di perseguire il suo progetto economico di realizzare una zona di libero scambio all’interno dell’Evrazec ( Comunità Economica Eurasiatica), tagliando fuori la concorrenza cinese6.

Ma la competizione fra i due imperi è evidente soprattutto sul piano energetico. Recentemente è stata aperta la più lunga rete di gasdotti al mondo, in grado di trasportare l’oro blu turkmeno fino alla provincia cinese dello Xinjiang: evidente concretizzazione della politica mandarina di abbattere il monopolio della russa Gazprom.

La necessità di sedare gli scontri etnici scoppiati nel Kirghizistan meridionale risulta essere una priorità nell’agenda di Pechino, preoccupata che le tensioni possano traboccare dalla valle del Fergana e raggiungere il territorio cinese.

In particolare, i timori riguardano non solo l’eventualità che gli scontri in Kirghizistan possano minacciare i rifornimenti di idrocarburi diretti a soddisfare le esigenze nutritive del gigante asiatico, ma soprattutto la possibilità che aree caratterizzate da profonda instabilità possano ospitare gruppi e movimenti attivisti uiguri, in grado di promuovere una consistente mobilitazione insurrezionale nel Turkestan orientale al fine di ottenere l’indipendenza dal governo centrale. Nell’area kirghisa al confine con la Cina vi sono infatti circa 250 mila musulmani di etnia uigura, fortemente contrariati dalle politiche repressive adottate dalla Repubblica popolare nei confronti della minoranza uigura dello Xinjiang7.

Gli interessi contrastanti delle due potenze regionali si escludono vicendevolmente, rivelando una competizione dal sapore squisitamente imperialista (tipica del grande gioco ottocentesco), ma inesorabilmente attuale.

Secondo Adrian Pabst: “we are seeing the rise of old eastern empires dressed in new clothes”. Russia e Cina hanno realizzato una sorta di rapporto di vassallaggio dove, in cambio di sicurezza e attrezzature militari, ottengono mercati di sbocco quasi incontaminati ed importazioni a prezzo vantaggioso8.

Una torta che, secondo un’ottica marcatamente realista, non è destinata ad essere spartita.


* Marco Luigi Cimminella è laureando in Relazioni internazionali e diplomatiche (Università “l’Orientale” di Napoli)