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Due pesi e due misure

di Fabio Falchi - 24/06/2010


Due pesi e due misure

In una recente intervista all’agenzia di stampa iraniana IRNA, il direttore della rivista Eurasia, Tiberio Graziani, ha dichiarato: «In questi giorni abbiamo avuto modo di vedere come il diritto internazionale valga solo per gli alleati di Washington: mi riferisco all’assalto degli israeliani contro la Mavi Marmara, un vero e proprio atto di pirateria» (vedi il sito Eurasia-rivista.org). E’ la politica di “due pesi e due misure”, la stessa che porta a sanzionare l’Iran per lo sviluppo del suo programma nucleare civile, ma non Israele che dispone di centinaia di testate atomiche, senza averlo mai esplicitamente riconosciuto, e che si rifiuta di firmare il Trattato di non proliferazione nucleare.

Si potrebbe commentare: “niente di nuovo sotto il sole”. Tuttavia, le parole del direttore Graziani non possono non richiamare alla mente un passo del celebre corso di Martin Heidegger sul nichilismo europeo, che egli tenne nell’Università di Friburgo nel 1940. Vale la pena di riportarlo per intero:

 

«Se oggi, per esempio, gli inglesi distruggono le unità della flotta francese all’ancora nel porto d’Orano [Heidegger si riferisce al fatto che l'Inghilterra, temendo che i tedeschi potessero impadronirsi delle navi da guerra francesi o addirittura che la Francia potesse combattere a fianco dell'Asse, non esitò ad attaccare e distruggere la flotta francese all'ancora nel porto di Mers-el-Kébir, il 3 luglio 1940] dal punto di vista della loro potenza ciò è del tutto “giusto”; infatti, “giusto” significa soltanto: ciò che è utile al potenziamento della potenza. Con ciò è detto al tempo stesso che noi non possiamo mai né mai dobbiamo giustificare questo modo di procedere; ogni potenza dal punto di vista metafisico, ha la sua ragione. E soltanto per impotenza passa nel torto. Fa parte tuttavia della tattica metafisica di ogni potenza non poter vedere ogni procedere della potenza avversaria nella prospettiva propria di quest’ultima ma il sottomettere il procedere dell’avversario ai criteri di una morale universale dell’umanità, che ha però soltanto valore propagandistico» (M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano, 2003, pp. 240-241).

Ciò che Heidegger vuole evidenziare in questo passo è come la nostra idea di “giustizia” dipenda dall’intreccio tra metafisica e nichilismo e come questo intreccio sia determinante per comprendere l’essenza della nozione nietzschiana di “Wille zur Macht”. Ovviamente, il “senso pieno” della riflessione di Heidegger lo si può intendere solo se si tiene conto della sua complessa ricostruzione della metafisica europea, che mira, com’è noto, a mostrare la dinamica di “donazione” ed occultamento dell’Essere, che avrebbe avuto inzio con la filosofia greca, in particolare con la teoria platonica delle Idee, e di cui si potrebbe “prendere coscienza” grazie al pensiero di Nietzsche, che, ponendo la non verità come la sola essenza della verità, garantisce al soggetto di disporre incondizionatamente di vero e falso (Ibidem, p. 241). Infatti, il pensiero di Nietzsche, riducendo l’Essere a “valore”, lascerebbe apparire, secondo Heidegger, che il nichilismo è la categoria decisiva per capire la metafisica ed il suo sviluppo storico (vedi F.Volpi, Nota introduttiva, Ibidem, p.19), dato che «la metafisica è la storia nella quale, per essenza, dell’essere stesso non ne è niente: la metafisica in quanto tale è il nichilismo autentico» (M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994, p. 822).

Senza voler entrare minimamente nel merito del discorso filosofico di Heidegger, di cui è impossibile negare la straordinaria ricchezza e profondità teoretica e che ha “rivoluzionato”, comunque la si pensi, il modo di concepire il linguaggio della filosofia, è forse lecito chiedersi se, scrivendo il passo sopraccitato, il pensatore tedesco non avesse presente proprio ciò che afferma Trasimaco, nella Repubblica di Platone, ossia che la giustizia altro non è che l’utile del più forte (Repubblica, I, 338a-339b). Certo, Heidegger era consapevole che Platone, che pure non si illuse mai che si potessero governare gli uomini solo con la “parola vera” della conoscenza teoretica, in questo dialogo dimostra facilmente l’inconsistenza della argomentazione di Trasimaco, che appunto in quanto argomenta e fin quando argomenta non può non presupporre che la sua argomentazione sia vera. Si poterebbe anzi sostenere che uno dei tratti costitutivi della filosofia di Heidegger sia la “decostruzione” dell’essenza stessa della “metafisica” di Platone, che struttura tutti i dialoghi dell’Ateniese e di conseguenza anche l’argomentazione di Trasimaco. Ciononostante, non si può fare a meno di rilevare che quanto Heidegger afferma riguardo alla pretesa di universalità che una “potenza” rivendica per imporre la sua ragione ad una “potenza nemica”, si lascia difficilmente mettere da parte come mera propaganda e solleva piuttosto una questione che – benché non possa trovare posto nell’economia della riflessione heidegeriana, se non in relazione alla domanda sull’Essere e alla “rimozione” della differenza ontologica (vale a dire in relazione alla differenza tra l’Essere e l’essente) – sembra essere quanto mai attuale, senza che si debba “alterare” il senso delle parole di Heidegger, se è vero che ogni presente vede e interpreta il passato partendo di volta in volta dal proprio orizzonte ( vedi, M.Heidegger, Il nichilismo europeo, cit. pp.130-131).

Ciò che è “in gioco” allora è la pretesa di universalità, che “maschera” una reale “volontà di potenza”, poiché il fatto stesso che ci si impegni in questo senso e che ciò (sia pure come “tattica”) consegua dalla natura metafisica della potenza, mostra, in quanto può essere “smascherato” come mera propaganda, che la contraddizione tra la natura particolare della ragione di una potenza e il suo voler apparire come ragione universale non può essere riconosciuta esplicitamente senza che l’agire strategico della potenza che si contraddice ne venga ad essere condizionato negativamente. Del resto, non vi sarebbe neanche alcuna necessità di “fare propaganda”, se l’agire strategico fosse totalmente indipendente dall’agire comunicativo (con Habermas, cui si deve una approfondita analisi dei vari tipi di agire, si può ritenere che si agisca strategicamente – benché, significativamente, secondo Habermas, gli “attori sociali” debbano essere almeno due perché ciò sia possibile, dato che si deve tener conto della frode e dell’inganno – se si agisce in vista di un certo scopo, adottando una determinata strategia; mentre per agire comunicativo s’intende un agire prevalentemente rivolto all’intesa). Ciò che indubbiamente vale sul piano della “pura argomentazione”, e che Karl Otto Apel, rifacendosi sostanzialmente allo schema di Habermas, denomina i presuppposti di ogni argomentazione (una pretesa di senso; una pretesa di verità; una pretesa di sincerità; una pretesa di correttezza), non può non concernere anche la sfera dell’agire strategico, non perché si debba ritenere che il conflitto tra potenze sia identico al conflitto ermeneutico (il che sarebbe ridicolo), ma perché il “sistema” (ovverosia l’interazione sociale mediata dai meccanismi di potere e dal denaro) si basa non solo sul potere coercitivo dello Stato, che detiene il monopolio legittimo dell’uso della forza, ma anche e soprattutto sul consenso. Naturalmente, riguardo al rapporto tra agire strategico ed agire comunicativo, si deve distinguere l’aspetto politico e culturale, che è il solo che qui interessa, da quello filosofico, nel senso stretto del termine, ovvero la possibilità di una “fondazione” dell’etica (e che difficilmente può prescindere, contra Habermas ed Apel, da una esplicita analisi dei fondamenti ultimi della realtà e quindi dall’ontologia e dal “domandare” del filosofo di Meßkirch, ché Heidegger stesso definisce il suo pensiero come “un pensiero in cammino”).

Una potenza, dato che agisce in una “sfera pubblica” (e ciò è tanto più rilevante quanto maggiore è il “raggio d’azione” dei mezzi di comunicazione di massa, che ormai contribuiscono in modo decisivo a ciò che Heidegger definisce «potenziamento della potenza»), non può facilmente ignorare tali presupposti e evitare di sottoporsi alla critica dell’opinione pubblica. Il che implica la necessità di manipolare e di disinformare (ma anche la necessità di demistificare e “smascherare”) allorché si vuole “con-vincere” non tanto la “potenza nemica” quanto piuttosto l’opinione pubblica internazionale e/o la comunità internazionale. Una necessità che in linea di principio concerne qualsiasi potenza, ma che in realtà caratterizza soprattutto l’agire di uno Stato che, non tollerando altre ragioni che la propria, debba “giustificare” la propria “pre-potenza” difendendo la propria ragione particolare come se fosse universale. D’altronde, sebbene vi siano diverse potenze che attualmente svolgono o cercano di svolgere un ruolo rilevante nello scacchiere internazionale, solo l’America ha come obiettivo fondamentale quello di esportare – anche, ma non solo, con la forza – i propri valori e il proprio stile di vita (l’american way of life) in ogni parte del mondo ed è impegnata in guerre di conquista (o in operazioni militari per stabilire la propria supremazia) “mascherate” da “guerre umanitarie”.

Nell’attuale “fase multipolare”, limitatamente all’azione delle potenze “non occidentali”, si assiste invece piuttosto ad una comprensibile, anche se talora non condivisibile, difesa delle proprie “ragioni”, che non si presentano separate dal proprio contesto storico e culturale. Se vi è una politica di potenza, vi è sotto il profilo politico ed economico, ma difficilmente si può sostenere che vi è una geostrategia imperialistica globale opposta a quella statunitense, che cerchi di far valere una (presunta) superiorità morale e culturale, tale da legittimare qualsiasi “intervento” e qualsiasi ingerenza negli “affari interni” degli altri Paesi. In effetti, quanto afferma Heidegger, nel passo sopraccitato, pare che si possa riferire unicamente alla logica imperialistica di una “volontà di potenza” che si legittimi in base a pregiudizi ideologici e/o “etnocentrici” ritenuti, non necessariamente in malafede, valori universali. La geopolitica insegna che una “potenza tellurica” è radicata in uno spazio connotato da una complessa “iconografia” e da un particolare ethos. Da ciò consegue necessariamente una forma di relativismo culturale che non è negazione dell’ “universale”, bensì dell’universale astratto (l’ “umanità”), cui Hegel contrappone l’universale singolare (l’umanità che si manifesta in “questa terra”, in “questo popolo” – nei suoi costumi, nelle sue leggi, nella sua vita materiale e spirituale – e in “questi singoli individui”) che, in quanto storico, non può che realizzarsi, non senza lotte e conflitti, tramite il riconoscimento reciproco. Viceversa la talassocrazia americana “costruisce” la propria identità e “articola” la propria potenza mediante la negazione di qualsiasi alterità, sradicando cioè le diverse “iconografie” e i diversi ethos che sostengono e alimentano le altre potenze, considerate nemiche soltanto in quanto diverse. Sicché, paradossalmente ciò che viene addirittura considerato quasi una “verità evidente” nella (tanto vilipesa e raramente studiata e ancor più raramente compresa) metafisica cosiddetta “classica”, ossia che l’identità è “avvolta” nelle differenze e non la si può che cogliere tramite le differenze, viene ad essere totalmente capovolto nel suo esatto contrario: non la semplice (ed argomentata in modo più o meno convincente) negazione dell’ “uni-versale”, ma una differenza che “misura” tutte le altre secondo la propria identità. In ciò favorita dalla trasformazione della religione cristiana (ad eccezione di alcune realtà spirituali ancora “vive” e del cristianesimo ortodosso), con la sua “pretesa” di salvezza universale e di essere l’unica espressione della “verità assoluta”, in una dottrina morale (che Disraeli denomina “ebraismo per il popolo”), quasi completamente deellenizzata e priva di una autentica dimensione metafisica, sì da permettere alla piccola ed alla grande Israele (dato che atlantismo e sionismo si possono considerare due facce della medesima medaglia) di considerarsi i soli Paesi “rappresentanti” di un’umanità emancipata e (almeno potenzialmente) “libera dal male”. Per questo motivo, oltre che per rafforzare il legame sociale sempre più fragile del “sistema” liberal-capitalisico, l’ “Occidente” (in realtà l’America con i suoi “alleati”, in particolare la Gran Bretagna e soprattutto Israele, ché gli altri sono Paesi a sovranità limitata e in alcuni casi, come l’Italia, territori e mercati “utili” agli scopi della potenza occidentale dominante e dei suoi maggiori “partners”) cerca anche di giustificare la sua politica di potenza secondo criteri (pseudo)religiosi – tanto che si è giunti a designare la concezione americana del Politico come una sorta di “teologia della democrazia”.

E’ chiaro pertanto che la politica di “due pesi e due misure” non può che essere vista come la politica “giusta” secondo la prospettiva di chi ritiene di “avere ragione” a priori. Poiché vi è sempre differenza tra chi è convinto che sia non solo suo interesse ma anche suo preciso dovere “evangelizzare” il mondo e chi a ciò si oppone. Ed è questa differenza che non può essere cancellata e che fa sì che siano necessari “due pesi e due misure”. Scrive Carl Schmitt «che armi extraconvenzionali richiedono uomini extraconvenzionali […] Quegli uomini che usano simili mezzi contro altri uomini si vedono costretti ad annientare questi altri uomini, cioè le loro vittime, anche moralmente. Essi devono bollare la parte avversa come criminale e disumana, come non-valore assoluto, altrimenti sarebbero essi stessi dei criminali e dei mostri» (C.Schmitt, Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 1991, p.75). Le armi extraconvenzionali cui si riferisce Schmitt sono le armi capaci di distruggere completamente l’avversario. Ma tra di esse si devono includere anche l’ apparato culturale e la “macchina” mediatica, senza i quali non sarebbe possibile quella forma estrema di demonizzazione del nemico che contraddistingue una visione ideologica del mondo fondata sulla dogmatica tautologia secondo cui qualunque “azione strategica” compiuta dalle “democrazie occidentali” (cioè dagli americani, o dagli angloamericani, e dagli israeliani) è “giusta” in quanto compiuta dalle “democrazie occidentali”.

Demistificare la cultura del “mercante con la pistola in una mano e la bibbia nell’altra”, è allora necessario sia sotto il profilo dell’agire comunicativo che sotto il profilo dell’agire strategico. Certamente, sarebbe ingenuo pensare che “smascherare” le contraddizioni e “la natura ideologica” dell’agire comunicativo delle “democrazie occidentali” (mostrare che esso non è ciò che appare e che non è altro che un “determinato” agire strategico) sia sufficiente per limitarne le pretese di “egemonia universale”. Tuttavia, nella misura in cui un agire strategico dipende dal consenso (e pare lecito affermare che la potenza geostrategica della grande e della piccola Israele sia sempre più in funzione della “potenza” dell’ apparato culturale e mediatico di questi due Paesi), sarebbe probabilmente frutto di un malinteso senso del “realismo politico” confinare la critica dell’ideologia “occidentale” nell’angolo morto delle “chiacchiere (pseudo)intellettuali”.