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Lo sport deve essere una palestra di virtù morali, oltre che di qualità fisiche

di Francesco Lamendola - 26/06/2010

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La pratica di una attività sportiva non professionistica, da parte dei giovani, non può essere soltanto un mezzo per sviluppare determinate qualità fisiche e meno ancora un disinvolto trampolino verso il professionismo con i suoi miraggi di successo, denaro e notorietà; ma, in primo luogo, una palestra di virtù morali.
Senza di ciò, l’attività sportiva si riduce a ben poca cosa e non oltrepassa in alcun modo il livello di un arido e brutale addestramento del corpo fine a se stesso, creando così una sproporzione tra la dimensione fisica e quella spirituale dell’essere umano; sproporzione che già il modello sociale nel quale siamo inseriti tende ad accentuare costantemente.
Le culture orientali, che hanno creato antichissime discipline fisiche come il tai-chi o il kung-fu, per non parlare dello Yoga (che è una vera filosofia, prima di essere una pratica per la salute della mente e del corpo), non hanno mai perso di vista la funzionalità di esse nei confronti della dimensione spirituale.
Nella cultura occidentale, con l’avvento della modernità (che ormai dilaga a livello mondiale, rendendo obsolete le categorie Oriente/Occidente), lo sport è divenuta tutta un’altra cosa. Mentre nell’antica Grecia una corona di alloro e il prestigio morale erano tutto ciò cui aspiravano i concorrenti dei giochi olimpici, oggi un calciatore o un qualsiasi altro sportivo professionista vuol vedere il colore delle banconote e insegue uno stile di vita, ivi compresa la visibilità mediatica (magari sposando qualche famosa velina e facendo insieme a lei le milionarie pubblicità televisive) che testimoni nella maniera più eloquente la sua conquistata ricchezza.
Tutto è incominciato in Inghilterra, alla fine del XVIII secolo, quando, insieme alla Rivoluzione industriale, sono nate le moderne pratiche sportive, dalla boxe all’alpinismo; e sono nate in funzione delle classi egemoni e dei loro rampolli, cioè in vista di un completamento dell’itinerario pedagogico di formazione dei futuri quadri dirigenti.
Così come si addiceva al perfetto gentiluomo, terminati gli studi a Oxford o a Cambridge, dedicare un paio d’anni al Grand Tour sul continente europeo, per completare la propria formazione culturale, ad un certo punto divenne importante anche saper giocare a cricket o tirare di scherma, abitudini che la classe dirigente inglese, per mezzo dei propri funzionari coloniali, esportò ai quattro angoli del mondo, nei lontani Dominions nonché in Africa e in India.
Potremmo anche dire che, se la caccia alla volpe era stato lo sport obbligatorio per le vecchie classi aristocratiche, la pratica delle “moderne” discipline sportive, sia individuali che di squadra, estesa anche alle signore, entrò a far parte dello stile di vita della borghesia emergente e, attraverso lo sterminato impero coloniale britannico (un quarto delle terre emerse, alla fine del XIX secolo), è entrata anche nello stile di vita di svariate popolazioni extraeuropee, a cominciare dalle Indie Occidentali, dal Pakistan, dall’India, dal Bangladesh e dallo Sri Lanka, e, passando per innumerevoli altri Stati ex coloniali, fino agli arcipelaghi del Pacifico, dove robusti signori e signore melanesiani o polinesiani si cimentano tuttora nel cricket e in altre discipline analoghe su dei magnifici prati all’inglese.
La trasformazione dello sport in una serie di pratiche meramente fisiche e in una parte del sistema di vita moderno, come rovescio del tempo lavorativo e produttivo della società industriale, ha resistito all’avvento della società di massa e alla democratizzazione dei costumi; per cui, anche se taluni sport restano appannaggio prevalente di certe classi sociali, se non altro per i costi dell’attrezzatura e dell’apprendimento (in particolare l’equitazione), in effetti oggi il figlio dell’operaio ha la possibilità di iscriversi a una squadra di calcio o di praticare il nuoto, esattamente come il figlio dell’industriale; anche se, ovviamente, questo non significa che le differenze sociali siano scomparse e nemmeno che si siano attenuate, come potrebbe pensare chi si limitasse ad uno sguardo superficiale.
Dicevamo del fortissimo richiamo che esercitano sui giovani i campioni sportivi affermati, e specialmente i calciatori, con loro contratti miliardari e con l’immensa popolarità che li circonda e che travalica di molto l’ambito puramente atletico; ma è pur vero che esso, una volta staccato dalla cornice etica e spirituale di una pratica sportiva rettamente intesa, finisce per diventare tanto seducente, quanto illusorio e fuorviante.
A causa dell’esasperazione del modello del campione di successo, fin da piccoli coloro che si dedicano a una pratica sortiva finiscono per pensare che il risultato sia tutto quello che conta, e che ogni mezzo sia lecito pur di ottenerlo; per cui, con grave rischio della propria salute, non esitano ad assumere in maniera scriteriata delle sostanze medicinali atte ad aumentare artificialmente il rendimento fisico e le prestazioni atletiche.
Fino a qualche anno fa, uno sport sembrava sottrarsi a questa logica, in quanto tradizionalmente basato sull’umile fatica muscolare e sulla consapevolezza dei magri guadagni, anche per quanti lo praticavano a livello professionistico: il ciclismo, lo sport delle classi sociali più modeste (bastava confrontare i tifosi di un Giro d’Italia o di un Tour de France con il pubblico del Torneo di tennis di Wimbledon, per vedere la differenza).
Poi, una serie di scandali legati al doping hanno distrutto anche quest’ultimo, fragile mito; e la tragica vicenda di Marco Pantani ha messo l’epitaffio sulla pietra tombale dello sport inteso come leale competizione fra persone che considerano l’impegno e la bravura come premi in se stessi, prima di qualunque riconoscimento esterno.
Peccato, perché abbiamo perso molto e abbiamo privato i giovani di un modello positivo in cui credere.
Ma c’è anche di peggio.
Quel che è successo ai Mondiali di calcio del 2006, durante la finale tra Francia e Italia, con la testata in pieno petto di Zidane a Materazzi, non ha eguali, che noi sappiamo, per volgarità, pericolosità e distruttività sul piano del cattivo esempio dato alle giovani generazioni; e peggio ancora è stato il fatto che il presidente Jacques Chirac abbia invitato a cena la squadra francese, senza una parola di biasimo per quel fatto, e che la Fifa abbia praticamente equiparato la scorrettezza clamorosa e violenta dell’uno a quella, supposta, dell’altro. E il bello è che il calciatore algerino continua, a quattro anni di distanza, a recitare la parte della vittima offesa e giura che non perdonerà mai Materazzi, reo di aver insultato «le sue donne».
Quella sera del 9 luglio 2006, a Berlino, un altro mito è andato in pezzi: tutto il mondo ha potuto vedere, in diretta televisiva, che colpire intenzionalmente un avversario con tutta la propria forza (cosa che avrebbe anche potuto avere conseguenze mortali: la forza di un atleta professionista non è la stessa di una persona qualsiasi), non è una colpa morale inescusabile, ma un banale fallo di gioco, che diventa persino un peccato veniale se si è stati “provocati”.
Il messaggio che è passato all’istante, con la forza delle immagini televisive, è stato semplicemente devastante sul piano educativo. Già eravamo abituati ai politici maleducati, disonesti e arroganti e ai conduttori televisivi ed ai loro ospiti che dicono parolacce, bestemmiano e perfino diventano maneschi; quella sera abbiamo potuto vedere la violenza cieca sostituirsi al gioco pulito e, quel che è peggio, passare sostanzialmente impunita, anzi, venire addirittura giustificata.
Un codice d’onore è stato annientato in un attimo e le conseguenze sono state incalcolabili. Certo, scorrettezze ce ne sono sempre, in uno sport come il calcio, ed anche in altri sport apparentemente meno sospetti, come il ciclismo, la pallanuoto, perfino l’atletica leggera; mai, però, si era vista una cosa del genere, e mai era stata tacitamente tollerata a quel modo. Il peggio dello sport spettacolo ha trionfato impunemente e l’aggettivo “sportivo” nell’accezione di “leale, corretto, trasparente” è scivolato fuori dal vocabolario, probabilmente per sempre.
Eppure, non possiamo rassegnarci a tutto ciò.
Dobbiamo rifondare l’immagine dello sport agli occhi dei bambini e dei ragazzi che stanno incominciando a praticarlo; dobbiamo fare in modo che esso torni ad essere una scuola di virtù morali e non solo un brutale esercizio muscolare.
In fondo, non si dovrebbe dimenticare che la parola “sport” deriva dal latino “deportare”, uscire fuori porta; dal francese “desporter”, divertimento, svago; e infine, come ultimo passaggio, dall’equivalente inglese “disport” (abbreviato in “sport” nel XVI secolo): e che, pertanto, la pratica sportiva deve essere innanzitutto “diporto”, cioè qualche cosa che si fa per il semplice piacere di farlo, senza secondi fini.
In una società esasperatamente competitiva e produttivistica come la nostra, dove la quantità e il risultato sembrano l’unico criterio per valutare un evento o una situazione, e perfino una persona, occorre ribadire con forza che più importante del risultato è il modo in cui lo si ottiene; e che questo modo deve essere pulito, onesto, leale, frutto unicamente delle proprie capacità, della propria perseveranza e del proprio spirito di sacrificio.
La filosofia del “tutto e subito”, in altre parole, non va d’accordo con una pratica sportiva rettamente intesa; e, per dire il vero, non va d’accordo nemmeno con gli altri aspetti della vita sociale, specialmente per quello che riguarda l’educazione dei giovani e il loro percorso di apprendimento verso i valori fondanti dell’esistenza, ivi compresi i rapporti familiari e professionali, l’amicizia, il lavoro, lo stesso uso del tempo libero.
Per lo sport sarebbe necessario recuperare quella visione unitaria che già fa difetto nell’ambito della cultura; viviamo, infatti, in tempi di specializzazione esasperata, la quale, per sua stessa natura, non aiuta di certo a vedere il reale nella sua fondamentale unità, ma favorisce piuttosto il tecnicismo, che è una fuga dalla complessità e dalla serietà della vita.
Così come troppo spesso alla figura dell’uomo di cultura si sostituiscono quelle dello specialista e del tecnico, esperti di un ambito di conoscenza sempre più limitato, allo stesso modo, nello sport, esiste il rischio concreto che ci si dimentichi che pattinaggio, atletica, pallavolo, pallacanestro, calcio, nuoto, ciclismo e via dicendo non sono discipline fine a se stesse; ma che lo sport, tutto lo sport, in qualunque forma e manifestazione, è la palestra per realizzare un individuo migliore, migliore non solo fisicamente ma anche e soprattutto spiritualmente e moralmente. Se si perde di vista questo, si perde di vista l’essenziale.
Lo spettacolo, il successo, il denaro, vengono dopo; e, per taluni aspetti, non dovrebbero entrare affatto nel discorso sportivo.
Similmente, ci permettiamo di affermare - e sappiamo quale coro di indignate proteste solleveremo con ciò - che il motociclismo e l’automobilismo non sono delle vere pratiche sportive, perché si basano sulla macchina e cioè su fattori puramente tecnologici, relegando la persona umana ad un ruolo secondario, un po’ come l’operaio e lo stesso tecnico, nel sistema di fabbrica, finiscono per diventare una appendice del processo meccanico.
Oltre a ciò, lo sfruttamento esasperato del motore introduce un elemento di inquinamento - acustico oltre che ambientale - ed uno di potenziale violenza (si pensi agli incidenti mortali, anche ai danni del pubblico, che si verificano non solo nella esotica cornice della Parigi-Dakar, ma anche sui “normali” circuiti europei e nordamericani) che sono, l’uno e l’altro, agli antipodi di uno spirito sportivo bene inteso.
Lo sport, infatti, dovrebbe aiutare l’uomo a ritrovare l’armonia con il mondo in cui vive, non metterlo in competizione selvaggia con esso, e  meno che memo porlo in atteggiamento aggressivo e antagonista rispetto all’ambiente; anche perché la violenza nei confronti dell’ambiente - e l’inquinamento è una forma di violenza - prepara e riflette una analoga violenza nei confronti dei viventi, compresi i propri simili.
Un gigantesco trattore meccanico, di quelli che hanno trasformato le Grandi Pianure statunitensi in una immensa monocoltura cerealicola finalizzata a realizzare la massima produzione industriale e il massimo profitto economico, non è che la versione “di pace” di un carro armato; allo stesso modo, un’automobile da corsa lanciata sull’asfalto di un circuito internazionale non è, come volevano i poeti futuristi, una celebrazione dell’energia e della velocità, ma un simbolo fin troppo eloquente della violenza cieca che caratterizza le nostre relazioni sociali, in cui continuamente si cerca di sopraffare e distruggere il proprio vicino.
Lo sport deve insegnare la lotta, ma la lotta per domare la parte oscura ed egoistica di noi stessi; non quella per spadroneggiare sul mondo esterno.
Solo così lo sport può tornare ad essere una palestra di virtù morali, aiutando gli esseri umani a ritrovare il proprio baricentro spirituale e, quindi, l’armonia e la pace con se stessi e con il mondo in cui vivono.